Una Panda di seconda mano

un racconto di Grazia Palmisano,
editing di Anna Chiara Bassan.

È il meglio che sono riuscita a scovare. Mi è costata più la voltura della vettura. Non avevo scelta, dovevo comprare un’auto, per forza. A Torino non giri di notte senza una macchina. Ho dovuto comprarla prima del primo stipendio.

Questa sera inizio a lavorare nel pub La vedova allegra.

Non poteva che essere un nome con un posto assurdo il mio primo lavoro al Nord. Sto seguendo il tram, con le auto dietro che suonano inferocite. A malapena riesco a capire da che parte devo stare. Viale, controviale, corsia riservata, che cavolo ne so io, portate pazienza, vengo da un paesino del Sud, abbiamo le strade asfaltate anche noi ma qui sono autostrade cittadine.

Mi faccio sempre più piccola nell’abitacolo, impreco e rimpicciolisco. In qualche modo arrivo. So già che domani dovrò inventarmi una strategia diversa. Non posso mica usare il navigatore, non esiste ancora, è il millenovecentonovantuno. Giro con la piantina di carta, mi servirebbe un co-pilota.

Scendo dalla Panda senza chiudere a chiave. Non è che io mi fidi della gente di città, è che manca il nottolino, la chiave la signora che me l’ha venduta non ce l’aveva più. Si chiude lo sportello di destra, lo sportellone dietro e il cofano, ma lo sportello, lato guidatore, no. Entro al ritmo dei Guns N’ Roses, l’ho letto sul monitor il nome. Fuori fa freddissimo, dentro tutto il contrario, gli occhiali mi si appannano. Li tolgo. Il titolare mi viene incontro, dice: «Tu sei quella senza esperienza?».

Quella senza speranza, semmai, ma sorrido e allungo la mano.

Questo qui è il cognato di quello in via Cigna, Il pirata. Mi ha mandato via perché gli avevo detto che non avevo esperienza, però caritatevole mi aveva indicato questo posto: « Da mio cognato c’è meno via vai, avrai tempo di imparare, qui mi serve gente sveglia che conosca già il lavoro».Io mica dormivo, pensavo di essere sveglissima.

Me ne andai, avvilita, e pronta a cercare La vedova allegra. Cinque anni di I.T.I.S., sessanta sessantesimi, un anno a spedire curriculum e mi ritrovo in un pub. Mi sono appena diplomata, ho ventiquattro anni e si spedisce ancora tutto col francobollo. Sì, lo so, a ventiquattro anni ci si laurea, io invece mi sono diplomata, e non alle serali. 

«Di qua c’è la cucina, le comande le scrivi meglio che puoi, sennò il cuoco non capisce cosa hanno ordinato. Quando è pronto Gino suona e tu corri a prendere i piatti».

Gino è questo coso alto un metro e un barile, con un mocio spelacchiato per capelli, e due mani a pala che ci può infornare direttamente le pizze. Una puzza di cipolla, pesce fritto, sudore, che mi fa venir voglia di correre via. Sorrido, saluto, annuisco.

«La roba da bere la prepari tu, vieni»

Seguo Lino al banco, Lino è il proprietario, me lo ha detto ieri suo cognato, non si è presentato. Mi viene da ridere, se mi chiamassi Tina, saremmo il Gino, il Lino e la Tina, che trio.

«Per spillare devi tenere il bicchiere obliquo e tiri la levetta verso di te, piano.  Livella l’eccesso di schiuma con la spatola e vai al tavolo.  Prova»
Provo a prendere un bicchiere, solo che nel lavandino vedo uno scarafaggio. Mi fanno più schifo dei Guns N’ Roses, urlo.

«Stai zitta!»

Me lo dice a denti stretti.
«Scusa ma ho paura».
Mi scuso sempre io. Dovrebbe scusarsi lui, mica è colpa mia, se ci sono le blatte.
«Mi fai perdere i clienti».

Ne ha solo due, poi scopro che sono anche clienti abituali e lo sanno benissimo che ci sono gli scarafaggi pure in cucina. Un paio di settimane dopo avrei scoperto che l’ufficio di igiene lo aveva già fatto chiudere due volte, quel locale, però sono io che gli faccio perdere i clienti. Già mi girano, non esiste contratto, non so nemmeno quanto e quando intende pagarmi, me ne potrei andare su due piedi.

Poi avrei scoperto che era così in tutti i locali, orari in base a come gira, paga in nero, niente ferie permessi e scordati di avere una vita, se ti va rimani, se no la porta è quella. Rimango, mi serve tanto il lavoro quanto il denaro.

Lino continua a parlare, muoversi, spiegare.

Qui ci sono le tovagliette, le bottiglie dell’olio sono da passare col panno umido ogni sera, lì le posate da lucidare per togliere le macchie dell’acqua. Poi devo mandare a memoria i numeri dei tavoli. Il numero uno è il primo appena entrati, il due e il tre nell’angolo a sinistra, il quattro mi aspettavo fosse subito a destra, invece no, Lino ha deciso che il quattro è l’ultimo in fondo e da lì a salire fino a ricongiungersi al tre. Il perché di questo strano gioco matematico non mi riuscirà di scoprirlo, mi manderà via dopo neanche un mese.

Sono agitatissima, il mio primo lavoro e anche il mio primo giorno di lavoro in un pub. Manco sapevo cosa fosse un pub. Ora lo so. È un posto dove entri che profumi ed esci che sembri un’enorme patatina fritta, entri che ancora ragioni, esci che sei incazzata per un qualche svariato motivo: il cuoco che non prepara in tempo, i clienti che si lamentano, i maschi che ti fanno apprezzamenti stupidi con tanto di fidanzata accanto, Lino che si lamenta per i centimetri di schiuma sulla birra alla spina, o troppi o troppo pochi. La mia Panda usata è il rifugio esterno contro questo interno.

 Il primo giorno è finito, Lino mi paga, quarantamila lire, l’affitto costa ottocentomila lire. Se lavoro sei giorni su sette, come ha detto, tiro su quaranta per ventisei, un milione e quarantamila lire; con un margine, tolto l’affitto, del tutto ridicolo. Esco dal locale alla fine del mio primo giorno con la testa che pare una calcolatrice, Gino non ha smesso un secondo di parlare. Tra un piatto e l’altro mi aveva chiesto di dargli un passaggio perché era senza macchina. Mi sta sulle scatole, dovevo dire di no, non lo faccio mai, il sì è l’unica opzione che conosco, o andarmene per sempre.

Saliamo in auto.

«Dov’è lo stereo?»
«Non ce l’ho».
Metto in moto, i vetri si appannano, sono le due di notte, fuori ci sono meno cinque gradi, mando al massimo la ventola.
«Si gela, spegni!»
« Se non vedo dove andare restiamo qui.»
«Ma accendi il riscaldamento.»
«Non funziona». 

Parto. Mi indica la strada, gira di qua, gira di là, sempre all’ultimo momento, fortuna che ormai in strada ci siamo solo noi. Mi fa imboccare viale Regina Margherita, mai fatto questo pezzo.

«Ci credo, questa è la zona delle puttane.»
« In che senso, scusa?»
«Vedi tutte quelle signore lì?»
Siamo nel viale, rallento per guardare.
«Non rallentare cavolo fai!»

«Se preferisci resto a novanta all’ora e ci schiantiamo, come guardo?»

«Ok, non guardare, te lo dico io, sono prostitute, tu vai dritto, comunque questa zona è meglio evitarla».
«E perché mi ci hai fatto venire allora?»
«Sei in riserva».

Si era allungato per guardare la spia che ha iniziato a lampeggiare. Sono sempre in riserva, non faccio mai il pieno. L’ho fatto solo una volta. Dal giorno in cui entrando in auto mi sono accorta che c’era stato qualcuno a bordo. Se proprio devono rubarla almeno non con la benzina. Invece per tutto il tempo che ho avuto la mia Panda usata, qualcuno ci ha dormito, al mattino ho trovato una volta delle bottiglie di birra, poggiate sul cruscotto, una volta dei tovaglioli di carta, sporchi di olio, temevo peggio, e una volta dei giornali sui sedili.

Mi ha fatto anche tenerezza, ho pensato avessero apprezzato la mia gentilezza di mettere a disposizione l’auto per passarci la notte, ricambiando con il restituirmi più o meno in ordine l’alloggio di fortuna. Lascio Gino al rondò della forca, che poi è l’incrocio con via Cigna, faceva prima a dirmelo invece di fare il misterioso fino alla fine.

Continuo dritto lungo il corso.

Perché io li chiamavo viali invece erano corsi. Qui usano il termine viale per indicare la corsia centrale e controviale per le corsie laterali. Da noi è più facile, strada e basta. Corso Regina Margherita taglia quasi tutta Torino, dalla zona adiacente la tangenziale, fino alla collina. Unisce prostitute e ricchi, sbugiardando la menzogna che miseria e ricchezza non si incontrino. La mia Panda usata, a ogni incrocio di binari, mostra la pochezza degli ammortizzatori e la quarta esce, devo rischiacciare la frizione e ingranare di nuovo la marcia, ogni volta.

Il motore si surriscalda dopo pochi chilometri, deve essere un difetto al radiatore, ma di certo mi ritrovo col fumo che esce dal cofano, lato destro. Di notte non mi dà troppo fastidio. Di giorno arrossisco perché mi guardano, quando siamo fermi al semaforo, e la colonnina bianca fuoriesce dalla Panda marrone TO X17622. Quando l’ho comprata la signora mi ha detto: «Ha tredici anni ma è in ottimo stato». 

L’età delle auto deve essere come quella dei cani, ogni anno dei nostri ne vale sette dei loro, tredici per sette uguale novantuno anni. Mi sposto nel controviale. Le prime volte giravo dal viale e si incavolavano suonando come pazzi. Suonano sempre come pazzi. A nessuno veniva in mente che non tutti sono nati a Torino, magari c’è qualcuno che sta ancora cercando di superare il trauma dell’arrivo in città. Invece di diventare più gentili loro con me, sono diventata cattiva io con gli altri.

Dopo pochi mesi, più sicura di me in corsi e vie, suonavo anche io come una pazza, mano schiacciata sul clacson e bestemmie a corollario. Quasi mai sono riuscita a portare qualcosa di me nei posti, sono sempre stati i posti a lasciarmi qualcosa addosso. Mentre parcheggio la mia Panda novantunenne di seconda mano, sogno il letto e il silenzio, pur sapendo che tra appena tre ore il tram comincerà a sferragliare sotto la finestra della camera, e per le sette ci sarà già un gran traffico in via Giovanni Napione, 25/bis. Però intanto non mi sono diplomata per niente, interagisco con i clienti usando i verbi giusti, so fare bene di conto e domani dovrò rimettere cinquemila lire di benzina.

Gino un altro passaggio se lo scorda e sì, ha ragione lui, ad avere uno stereo la strada sarebbe più gradevole, la musica mi farebbe compagnia. Però prima che lui lo dicesse a me andava bene così. Tra ricordare le vie, orientarmi, evitare i clacson, altro che ascoltare musica. Salgo gli scalini fino all’ascensore, aspetto che arrivi, salgo fino a casa, entro. A non molti metri da me scorre il Po, qualche volta mi viene voglia di tuffarmici, poi mi passa quando vedo il riflesso delle luci in acqua, i murazzi, le auto, Piazza Vittorio illuminata. Per ora mi spoglio, metto in una vaschetta la maglia che puzza di fritto, mi infilo a letto e provo a immaginare, come sarà chi entrerà stanotte, nella mia Panda di seconda mano.

tutte le fotografie di Rebecca Miglino.

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