un racconto di Giorgia Papagno,
editing di Alessandro Tesetti.
Ho vissuto nelle vere metropoli e passato molto tempo sui mezzi pubblici, ho passato più tempo sui mezzi pubblici che agli appuntamenti a causa dei quali ero costretta a prendere i mezzi pubblici e sono una pessima guidatrice, il tempo speso sui mezzi pubblici è meglio speso di quello al volante e non mi sono mai lamentata di un tragitto di un’ora e un quarto sull’L train, quindi – nell’accettare un nuovo lavoro non in una metropoli ma nell’imprecisato nord a cui mi sono condannata – mi sono anche ingannata dicendomi che tutto il tempo che avrei passato sul 15 Granze totale spostamento tre ore andata ritorno totale ore lavorate due totale euro guadagnati venti totale euro spesi in biglietti dei mezzi pubblici due e quaranta non sarebbe stato un problema, e comunque a New York ci ho vissuto troppo poco tempo per arrivare a non trovare più i viaggi in metropolitana pura poesia, e che se sui mezzi pubblici di New York ci hanno girato film interi ci sarà un motivo.
Ogni giorno alle 16.10 alzo lo sguardo da un libro lunghissimo, durissimo, bellissimo sempre all’altezza della concessionaria automobilistica Bertin (vendiamo anche auto usate!) con la rete bucata e le file di bandierine fluo e proprio ieri pensavo – anche considerando che il protagonista del libro si era appena sceso ottocento chilometri lungo la Winston-Salem – al perché anche per me – sfigata straight outta capoluogo lombardo che non è Milano – sentire Winston – Salem ha qualcosa di evocativo e mi sono chiesta – se io scrivessi il grande romanzo lombardo e un americano leggesse che mi sono fatta tutta la statale 307 del Santo (Padova – Casteo via Resana per gli amici), che cosa proverebbe? Probabilmente niente.
Poi mi è venuto in mente che esattamente un anno fa passeggiavo sei ore indietro per Sunset Park e mi entusiasmavo per la concessionaria automobilistica Johnson (we sell used cars!) sempre con bandierine palloncini portoricani perennemente poggiati alla rete bucata e una decina di Buick scrostate in fila (in quei giorni stavo anche leggendo Updike nelle ore sul D train quindi le concessionarie per me – pessima guidatrice – avevano un quid che).
Eppure guardo la concessionaria Bertin e non provo niente, o forse provo qualcosa e quel qualcosa è nostalgia per la concessionaria Johnson.
Scrivo sul taccuino “saggio concessionaria Bertin?”, poi in “Via (g)Ranze Sud”.
Sono — queste — giornate insostenibili, in cui il mondo diventa un gigantesco triangolo semiotico la cui somma dei lati mi parla in una lingua tristissima e gli oggetti inanimati più di tutto – sorprendentemente – emanano nei modi più disparati significanti riconducibili a vecchiaia e morte, a una sofferenza mai generica ma anzi, molto specifica, perché non si tratta di constatare con un sospiro che un albero ieri in fiore oggi sia spoglio e di pensare che il tempo passa molto, troppo veloce.
In queste giornate lo sforzo di immaginazione che compio, perché di questo si tratta se i deambulatori esposti nella vetrina dell’ortopedia davanti a cui passo ogni giorno diventano all’improvviso, ma ciclicamente, il simbolo che riunisce il mio presente di trentaqualcosenne (sana, viva) alla mia futura zoppia, alla passata zoppia di mia nonna (ammalata, defunta) e alla zoppia di altri milioni di persone tra trentenni e anziani (tutti ammalati), è qualcosa che dovrei essere in grado di non compiere (trattandosi di uno sforzo), ma a cui non riesco a sfuggire quindi, forse, mi dico, tutto sommato, non si tratta di uno sforzo ma di un automatismo (dettato da un’indole malinconica, da una ricaptazione serotoninica non opportunamente inibita, mia madre crede ancora che ci provi gusto che ci provavo a sedici anni ed io ho smesso di contraddirla perché le voglio bene e preferisco che pensi di avere una figlia romantica piuttosto che depressa).
Mentre mi dico questo la proiezione del mio io ammalato e zoppo è rimasta sola perché è sopravvissuta a tutte le persone che conosceva e non ha avuto figli Alessandro piange e mi dice Ginny smettila, smettila di fumare, e l’autobus ha fatto in tempo a ripartire e a rifermarsi due volte, e i vestiti invernali da poco dei passeggeri del pomeriggio – giacche imbottite cangianti, giacche scucite per l’usura, giacche del mercato direbbe sempre mia madre dove del mercato sostituisce la scarsa qualità – mi rimandano a penosi scenari di riscaldamento centellinato, a cene a base di brodo di dado il cui odore impregna le giacche del mercato e conseguentemente le mie narici sull’autobus e per uno strano effetto sinestesico mi batte sulle membrane oculari.
L’autobus rallenta nel rettilineo dopo l’ospedale Sant’Antonio — quindici minuti per trecento metri scarsi, la viabilità in questa zona è PESSIMA mi dicono, ma io non guido mai e non ho mai compreso la fenomenologia delle code — alla mia sinistra i resti della cinta muraria antica ma io siedo sempre nella fila di sedili singoli a destra e seguo con lo sguardo altre mura, di recente costruzione, e la giustapposizione di manifesti che cambiano con cadenza mensile nell’immagine ma non nel contenuto o nella sostanza, manifesti di spettacoli di comici stempiati, in cravattino, che si esibiscono nello slargo al neon di un centro commerciale, comiche ultraquarantenni che si esibiscono in spettacoli il cui titoli preannunciano freddure ammiccanti ma mai volgari sulla vita di coppia accanto all’italico maschio medio e provo un moto di compassione (non di disgusto, me ne stupisco) per tutte le persone che andranno o che non andranno allo spettacolo del dopocena (la cena verrà consumata allo stand di Giovanni Rana da parallelepipedi di cartone, con forchette di plastica, dai nostri campi al vostro frigo, la gran coorte del cibo all’Eurospar semivuoto).
Che cosa pensano quando rientrano, quando si slacciano il cravattino.
E poi serate danzanti caraibiche, intrattenimento per tutta la famiglia, divertimento per grandi e piccini (altre ultraquarantenni in costume da Pippi Calzelunghe che reggono i fili di burattini con le fattezze di Pippi Calzelunghe e gli stessi indumenti dell’ultraquarantenne).
Posso arrivare quasi alle lacrime, pensando ai tortellini industriali. Agli amici lo racconto ridendo ma a volte vorrei che qualcuno capisse lo strazio di giornate così, che non ridessero a loro volta quando dico che da quando ho iniziato a lavorare dietro l’interporto oltre il centro ingrosso prendo i miei tragitti come un esercizio di stile nella mia capacità di individuazione della bruttezza, che una tapparella scrostata non è altro che una sineddoche per una casa brutta ed una casa brutta non è altro che una sineddoche per la vita brutta vissuta al suo interno, che a questo punto l’autobus ha già imboccato il lungargine e posso trovare temporanea redenzione nel seguire il corso dell’acqua, un uomo ed un ragazzino pescano dalla spianata di cemento (nonpensareallinquinamentoperlamordiddiononpensareallinquinamento, toccati con il polpastrello dell’indice l’unghia del pollice e poi con il polpastrello del pollice le unghie di tutte le altre dita, ad occhi socchiusi, per cinque volte, scarichindustriali, scarichindustriali, sacchetti di plastica che non li avevano proibiti dal 2017? Persone che all’Eurospar comprano una confezione di tortellini industriali e poi chiedono il sacchetto di plastica. Ecco, in queste giornate, la tristezza…
L’autobus entra a quartiere Camin (appena tollerabile in accordo con la nebbia, intollerabile con il sole invernale), eccole, le case brutte con le finestre aperte e le coperte a penzoloni a prendere aria “fresca”, anni fa avevo uno studente privato d’inglese in una di queste vie laterali, chiuse, in una di queste dead ends (nella mia città queste laterali non meritano un nome vero e si identificano solo con traversa numero X, a Camin invece hanno nomi di regioni, di stati europei e poi di stati extra europei ma solo del Sud America), la madre del ragazzo foruncoloso mi diceva di accomodarmi nella taverna per la lezione, lo diceva ogni volta e sentivo la punta di orgoglio con cui diceva taverna, il movimento di braccio a palmo alzato (figlio mio un giorno tutta questa taverna sarà tua) ed io scendevo nella taverna e ripetevo la tiritera sull’ingannevolezza del present perfect versus passato prossimo e mi chiedevo come trascorresse le domeniche, il quattordicenne. A me è sempre piaciuto camminare, vengo da una famiglia dove si cammina molto e quando si usciva per quattro passi si rientrava dopo tre ore, ma per camminare devo avere intorno o il tutto o il niente.
tutte le fotografie di Sara Molterni.