Ti sblocco un ricordo

un racconto di Vargas,
editing di Giulio Frangioni.

L’arredamento è accennato dal riverbero dei cristalli liquidi e abbassi la luminosità perché sembra un secolo che non sei nella stessa stanza con una lampadina accesa. 

Pagaî di medio sulla rotella del mouse e ti si srotola davanti la timeline di Facebook. La metà sono pubblicità, il resto consigli che ti avrebbero dovuto cucire addosso, ma ti è qualcun altro e ti sembra di origliare una conversazione che non ti riguarda e poi soliloqui su soliloqui su soliloqui aperti da prime persone; gente che parla e non deve ascoltare. Una pacchia, ma di scarso intrattenimento. 

Sei qui per i meme, inutile prendersi in giro: la relatability, l’esoterismo cazzone di un inside joke condiviso con il mondo nella maniera più diretta e incomprensibile possibile. 

Vuoi essere visto. Non ti vede mai nessuno. È meglio che non ti vedano. Non metti nemmeno un po’ di musica. Qualcuno potrebbe accorgersi della tua presenza, attraverso i muri minimi consentiti da un abuso catastale. Le casse esplodono del jingle forzatamente allegro di un video che promette trucchetti casalinghi per problemi quotidiani, un tripudio di mostruosità fatte col cemento armato e bottiglie di vetro tagliate ad arte con smerigliatrici angolari in miniatura e litri di resina epossidica versata su qualsiasi cosa che gira e gira e gira su un tornio all’infinito mentre mani disincarnate la fresano tenendo fermo uno scalpello. 

Il video promette progetti da cinque minuti, cosa di cui dubiti. Azzeri il volume.

Passi oltre fino a un album di fotografie. Non riconosci l’account che l’ha postato, ma non ne riconosci davvero nessuno. La didascalia promette: Ti sblocco un ricordo. 

Clicchi sulla prima foto e lo schermo si oscura per qualche secondo. La ventola del pc annaspa nel tentativo di raffreddare script traballanti cresciuti come carcinomi in venti lunghi anni di hotfix. Il computer andrebbe cambiato, ma c’è anche da fare la spesa e, benché il computer si sia aggiunto al novero degli elettrodomestici fondamentali, nutrirsi risponde ancora a bisogni più prepotenti di quelli del vivere sociale. 

Finalmente, pezzo pezzo, la galleria dinamica appare a video. Prima un quadrato nero, poi due freccette di navigazione e infine l’immagine, sempre più dettagliata come se il server ne inviasse uno strato alla volta. Ticchetti dita lunghe e consumate sul tavolo appena di fianco al mouse e hai l’impressione che il suono riverberi nell’intero appartamento. 

Progetti da cinque minuti. Ti sblocco un ricordo. Promesse, promesse. 

La foto è di un parcheggio di provincia, antistante uno scatolone prefabbricato presumibilmente uguale a decine di altri scatoloni prefabbricati se non fosse per l’insegna di lettere paffute a cartoonesche. È un negozio di giocattoli, uno di quelli enormi di catena che sai essere stato parte dell’infanzia di molti, ma non della tua. La tua era più spoglia, benché comunque fatta di scatoloni prefabbricati. Ti chiedi per quanti quest’immagine non sblocchi un bel niente. Prima che chiudessero quegli spersonalizzati megastore del giocattolo ne erano stati chiusi altri più piccoli e prima ancora ometti anziani con qualche dimestichezza con la scultura avevano smesso di intagliare cavallini di legno per i nipoti degli altri perché il mondo in cui servivano cavallini di legno non esiste più, o non è mai esistito, perché tu non ne hai ricordo.

Le altre foto dell’album sono ulteriori generici casermoni connotati da un’insegna, ristoranti per famiglie, supermercati, fast food. Un’infanzia che esiste solo nella dimensione del consumo. 

Ti chiedi di chi sia questo ricordo, sicuramente non tuo. 

Continui la caduta libera tra indignazione e aneddoti insignificanti. Una pagina che non segui ha postato un meme che ti fa ridere, ma che non sapresti spiegare. 

Lo stesso profilo di prima. Ti sblocco un ricordo. Questa volta è una sola foto, ma la apri lo stesso nel caso l’anteprima avesse tagliato qualcosa. 

Il parcheggio di prima. Lo stesso casermone con insegna. Devono essere passati degli anni, la scritta ridotta a To s r’ U dalle intemperie. Con meno automobili nel parcheggio e le vetrine del casermone vuote sembra più familiare. Qualcosa che hai visto da una finestra che non sai collocare. La stanza in cui sei adesso non ha finestre. Non è casa tua. Se le avesse, darebbero su un muro. 

Ma To s r’ U ti chiama a sé, come le rovine di una civiltà morta e in un certo senso lo sono; allunghi la mano verso lo schermo e dita secche e appuntite vanno a sbattere contro il film plastico. È come se cercassi di arrivare nel parcheggio rosicchiato per passeggiarci guardingo, sperando di non incrociare indigeni in perizoma di banano a guardia di quel tempio perduto, ma lo schermo non cede. Le tue dita creano piccole distorsioni oleose sull’immagine a schermo e nulla più. Le ritrai abbattuto e sospiri qualcosa che assomiglia più a qualcuno che sposta una sedia. 

Lasci andare la foto e subito ne trovi un’altra. Sempre lo stesso account, sempre Ti sblocco un ricordo, questa volta di nuovo un album.

Dovresti spegnere il computer, gli occhi ti fanno male, biglie nere tempestate di spilli fotonici che spingono nel cristallino, ma non ce la fai. Vuoi sbloccare un ricordo. Hai fatto tanta strada ormai. 

La prima foto è sempre di To s r’ U, ma visto dal piano della strada. Il cielo è di un colore neutro e innaturale, quello a cui penserebbe chiunque menzionando il cielo ma che nessuno ha mai visto. L’illuminazione è approssimativa e polverosa. To s r’ U siede immane alla fine del mondo, mentre il sole si enfia nei suoi ultimi attimi brasando il pianeta col suo filtro da film ambientato in Messico. 

La foto successiva porta avanti la prospettiva di qualche metro, fin sotto le porte in plexiglas che una volta avrebbero garantito l’accesso a un negozio di giocattoli. Ora sono in frantumi. La vetrina di fianco all’anta sinistra ha un manichino conficcato perfettamente al centro, vestito con vecchi fronzoli carnevaleschi smangiati dal tempo e dalla luce insistente: all’ingresso di To s r’ U non c’è una tettoia. È venuta giù dopo la chiusura e se l’è portata il vento. 

Hai sbloccato un ricordo alla fine, quello del suono buffo e fantascientifico di una lamiera che si agita a mezz’aria verso l’orizzonte. Il manichino nella vetrina sembra abbozzare un saluto militare. 

Continui.

L’interno di To s r’ U è buio e vuoto, il tempio è fatto per gente che non ha bisogno di lussi come la luce elettrica. O luce e basta. Gente come te, con le sue biglie di pece torturate dai raggi solari e dall’incandescenza delle lampadine e dalla retroilluminazione degli schermi che non potrai mai abbassare abbastanza perché sei nato nella luce neutra e questo te lo ricordi, senza bisogno di una foto.

La ventola del pc intensifica i giri e sembra imitare il vento che ha portato via la tettoia, mentre continui a cliccare sulla galleria, che foto per foto ti accompagna nelle viscere del casermone: le costole di scaffali vuoti, il saltuario giocattolo abbandonato in un angolo, e poi stanze dei dipendenti intestini di corridoi un boccione dell’acqua ancora pieno e in funzione al centro di una stanza vuota tre sedie impilate in un angolo lavagne dei turni cartonati di mascotte e dipendenti e foto e scatole vuote e un fischio nuovo e separato dal fragore della ventola che adesso non ti importa che saturi l’ambiente perché un utente sconosciuto di Facebook ti sta sbloccando un ricordo di casermoni di provincia parcheggi abbandonati manichini che salutano sei qui che discendi la voragine di un passato che non esiste più che non è mai esistito ma che trova un’essenza nel suo essere sistematizzato in una serie di foto e sensazioni e vibes e gallerie tematiche su un social network fatto di video deliranti di resina epossidica e tonnellate di formaggio colate per un’unica pietanza impossibile da ingerire finché non raggiungi l’ultima foto e il rumore si spezza in un acufene appena percettibile. 

Una serie di stanze e corridoi vuoti. Non una presa della corrente, non una finestra, non una porta. Carta da parati così brutta da diventare anonima da qualche parte tra gli anni ’60 e ’80. Non c’è una lampadina, ma neppure un filo d’ombra. I minimi termini di uno spazio antropico dove ancora le leggi della fisica non riescono a entrare. 

Il ricordo è sbloccato. Un ricordo di casa, di muzak anodina e rilassante, di assenza di tempo. Della caccia, dei visitatori che corrono tra stanze inutili e senza porta mentre procedi lento e implacabile verso le grida e il prossimo pasto e carne cedevole sotto polpastrelli puntuti. No. 

Non è questo il ricordo. Te ne accorgi perché c’è un’ultima foto. E riesci appena a visualizzarla mentre distingui chiaramente i passi di qualcuno che non sei tu entrare in casa. Ti alzi in silenzio e ti rintani nell’ombra di questa stanza che ha così tante ombre. L’intruso entra allarmato e non accende la luce perché nota il computer acceso. Il suo. Non ha paura che qualcuno sia entrato in casa sua, ma di un’irruzione più intima. 

Sta lì che bestemmia mentre sullo schermo c’è lo scatto di quello che era stato un negozio di giocattoli, poi il tempio di una creatura degli interstizi e infine un lotto demolito a cui non poter mai più tornare e questo pensiero ti estorce una lacrima mentre lunghissimo e affilato ti estendi dall’ombra verso la persona di cui hai invaso gli spazi più privati. 

Ne annusi una sfumatura di terrore che ha a che fare con la violazione di qualcosa di sacro. È un buon odore, è nuovo, ma hai nostalgia di quello vecchio. Di stanze vuote illuminate in modo neutro con una sola porta per entrare e nessuna per uscire. Sudore acido di corsa ed esaustione. 

La cena fa appena in tempo a notarti alle sue spalle, che gli hai morso via il volto. 

tutte le fotografie di Emanuele Tresca.

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