Sveta

un racconto di Matteo Romano,
editing di Giulio Frangioni.

Andavo a trovarla tutte le notti, dopo il lavoro, senza passare neppure da casa. Non l’aspettavo dove c’erano le altre. Ci incontravamo in un vicolo silenzioso, costeggiato da un cantiere e illuminato da un lampione capriccioso. Non appena la sentivo arrivare la cercavo subito scandagliando la penombra.

Lei sbucava da lì come una volpe.

Era minuta e sgraziata nel portamento. I tacchi, troppo alti, la sbilanciavano di continuo e camminava guardando per terra per evitare le buche in agguato sullo sterrato. A volte ci finiva dentro e per poco non cadeva. Si torceva, lanciava uno strillo, io sussultavo, ma poi la sentivo ridere e mi tranquillizzavo.

Quando entrava in macchina diceva solo ciao, oppure restava zitta e mi guardava sorridendo. Anch’io le sorridevo. Si spruzzava addosso un profumo dolciastro, ma non le confessai mai che non mi piaceva. Poi le domandavo se aveva fame e lei annuiva.

Alla consegna dell’ordinazione il tizio allo sportello sbirciava puntualmente dentro l’abitacolo: era attratto dalle sue belle gambe bianche, o forse dalle calze a rete.

Quello aveva intuito tutto, non ci voleva di certo un genio, ma non m’importava nulla. 

Non mangiavo mai a quell’ora, lei invece prendeva sempre quel gelato stucchevole con gli Smarties per il quale non dimenticava mai di ringraziarmi. Lo baciava e lo leccava chiudendo gli occhi, mugolando. Non lo faceva per provocarmi, se lo godeva e basta.

Sarei un bugiardo se dicessi di non aver mai avuto pensieri su di lei. Quel corpo lo desideravo tutte le notti, anche quando tornavo a casa e m’infilavo sotto le coperte. La voglia mi percuoteva fino a farmi male. Davvero non capivo perché quando eravamo insieme non riuscivo nemmeno a sfiorarla. Già dalla prima notte le dissi che non volevo fare nulla. Lei mi chiese se per caso avevo dei problemi e sorridendo aggiunse che sapeva fare miracoli.

No che non ce li avevo i problemi. Volevo pagarla per il tempo che le avevo sottratto, insistetti, ma lei si oppose con fermezza. Si era offesa, i suoi occhi a mandorla si assottigliarono, ma alla fine, prima di andarsene via, mi accarezzò la mano.

Aveva le dita sottili e gelate, le unghie smaltate di viola.

Mi piaceva ascoltarla.

Parlava di tutto quello che le saltava in testa. Della madre e della sorella, del suo gatto, di quando era piccola. Se s’incupiva all’improvviso me ne uscivo con una sciocchezza per farla ridere. Allora si copriva la bocca per nascondermi il diastema fra gli incisivi superiori di cui si vergognava. Diceva che quando avrebbe avuto abbastanza soldi se lo sarebbe sistemato. Io le rispondevo che portava fortuna e lei ribatteva sorridendo amara che in vita sua, fortunata, non lo era ancora stata.

Quando non avevamo nulla da dirci stavamo zitti. Ci guardavamo, provando a indovinare i nostri pensieri, se erano belli o tristi. Oppure mettevamo i Queen, che lei adorava, e giravamo per le strade vuote, senza meta. Under Pressure la faceva impazzire. Abbassava il finestrino e cacciava fuori la testa per cantarla a squarciagola. Per pochi istanti distoglievo gli occhi dalla strada per vedere i suoi capelli fluttuare nel vento glaciale. Lei ballava, sculettava, mi mandava un sorriso complice o uno sguardo ammiccante. Le domandavo come facesse a resistere a quel freddo terribile e mi diceva che per lei era come la primavera al suo paese.

Una notte mi si accoccolò accanto e mi posò la testa scura sul braccio. I suoi respiri, molli e profondi, mi confondevano. Sentivo angoscia, calma, stanchezza. Poi si raddrizzò e restò a fissarmi muta. Quella notte aveva scurito il colore dei suoi occhi che risplendevano tenui, come prossimi a spegnersi.

Mi prese il viso fra le mani, chiuse le palpebre, mi baciò sulla bocca e la pulì da un filo di saliva passandoci su il pollice. Non disse nulla scendendo dall’auto. Fece qualche metro finché non si voltò per sorridermi. La vidi sparire nella penombra ed ebbi l’assurda sensazione che non fosse mai esistita.

Le notti successive chiesi di lei in giro. Alcune ragazze mi cacciavano via insultandomi, altre sostenevano di non conoscerla. Una di loro mi disse che forse era tornata in Moldavia.

Il suo nome si frantuma nel buio. Cerco a tentoni i cocci che mi tagliano i palmi. Lo ricompongo, tutte le volte. Lo bisbiglio per non romperlo, ma tanto lei non ritorna mai.

tutte le fotografie di Lise Guillon.

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