Scale

un racconto di Emiliano Peguiron,
editing di Anna Chiara Bassan.

C’era stato detto di non scendere le scale e noi abbiamo obbedito. Era un ordine di quelli gridati ma con fermezza. “Non scendete le scale!”. Mia sorella non si è mai fatta grossi problemi, non era incuriosita dalle scale, figuriamoci da quelle scale. «Perché farlo?» mi chiedeva. Io sovrastavo il mio collo con le spalle e alzavo le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli.

Carolina aveva quattro anni in meno di me ai tempi. Ora no, ha più esperienza.

In quel frangente l’età era ancora qualcosa in cui riporre fiducia, come i divieti. Carolina aveva – ai tempi, oggi no – delle trecce lunghe lunghe color castagna e i lati della bocca sempre sporchi di zucchero o cioccolata. Le prime volte la sgridavo, le chiedevo di pulirsi perché mi disturbava quella sporcizia eccessiva, poi mi abituai o compresi che faceva parte di lei, come faceva parte di me stizzirmi per i dettagli.

Il dettaglio erano le scale, mi ossessionavano. Non era solo il fatto che non dovevamo percorrerle, ma era la curiosità. Dove portavano? C’era qualcuno oltre? Carolina, invece, nel suo disordine estetico, nelle sue trecce sbilenche, non aveva voglia di sapere il motivo del divieto, né cosa si nascondesse oltre quelle scale.

Una volta nostro nonno, Gianni, ci disse che le possibilità nella vita potevano essere infinite. Quali possibilità? Rispetto a cosa? Oggi potrei interpretare quella frase, ma a quale costo? Molte domande, poche risposte.

Carolina con le domande non ci ha mai fatto granché, ha sempre preferito i dati di fatto.

Le dicevano “no” e le andava bene. Stessa cosa per i “sì”. Ma la parola “perché” le stava antipatica o, magari, non le serviva. Nonno Gianni, al contrario, istigava ai quesiti però  poi, come tutti i curiosi, morì. Anche la nostra gatta dagli occhi gialli spalancati, Pina, morì per la curiosità o così ci disse la mamma: era una certosina.

Nonno Gianni era un uomo di una certa età, ma nemmeno così certa visto che ogni tanto diceva di avere sessant’anni, altre volte settantotto e altre ancora diciannove; resta il fatto che la mamma e il papà dissero a me e Carolina che era morto di curiosità e, vista la nostra insistenza, colei che ci mise al mondo aggiunse che era stato per via delle scale che non doveva percorrere.

Non scorderò mai la faccia di mia sorella a una simile affermazione, non potrò scordare mai la mia di espressione. Eravamo cambiati, per sempre.

Andavo avanti con l’idea che dopo Pina e nonno Gianni sarei stato il prossimo, mentre Carolina si convinse ancora di più che quelle scale erano da evitare. I mesi passavano e mia sorella prese l’abitudine di truccarsi e di pulirsi il viso: addio zucchero e cioccolato. Non ricordo momenti più tristi di quello, allo stesso tempo però, la vedevo cambiare e mi faceva piacere.

Le stelle ci guardavano, certo avrebbe detto così nonno.

Io gli avrei detto “Chissà” e lui mi avrebbe detto “Bravo”. Carolina sarebbe andata avanti o magari avrebbe guardato le sue scarpe, o i cani che giravano per l’aia.

Le scale, nel frattempo, non si muovevano di lì e io passavo metà della giornata a fissarle. Carolina cresceva, io invecchiavo con le scale ma restavo fermo, immobile come loro. La polvere dolcemente si appoggiava sulle mie polo, sulle camicie ereditate da nonno Gianni. Non passavano molte persone a trovarci e questo impediva grandi conversazioni, rapporti di natura diversa da quelli abituali, familiari.

Così un giorno non potei fare altro.

Aspettai che i miei genitori andassero a dormire, presi la torcia e mi affacciai. Le scale non erano mai state così illuminate, chiare, così vicine. Riuscii a indovinare delle striature nere che si adagiavano sul marmo bianco e, oltre a quella polvere che testimoniava la loro solitudine, un bordo d’oro.

Mi sentivo stregato, posseduto dal desiderio di poggiare un piede sul primo gradino, gustarlo e poi procedere, con la calma del saggio, per arrivare alla meta. Era la meta che mi interessava o le scale stesse? Era il fatto che fossero le mie colonne d’Ercole o che mi stessi identificando con loro?

Ero indeciso addirittura su quale piede poggiare per primo, convinto che potesse cambiare qualcosa. Alla fine, iniziai la discesa – e non ricordo nemmeno da dove cominciai, se dal destro o dal sinistro – ma arrivato al secondo gradino sentii una voce chiamarmi.

Mi girai e vidi Carolina, non era più quella che ero abituato a conoscere.

Alta, bella, le trecce sostituite da un’unica onda fitta e di media lunghezza di capelli tinti di rosso e un davanzale da togliere il fiato. La osservai senza riuscire a chiudere la bocca e lei mi anticipò così: «Perché farlo?».

Mi spaventai a tal punto da scendere altri sei gradini a due a due e trovarmi davanti un signore dalla faccia nota. Nonno Gianni era davanti a me, o almeno così sembrava, e accarezzava un piccolo gatto con gli occhi gialli spalancati.

Il nonno mi disse: «Bravo, ma non andare oltre». Potevo contraddirlo? Mi girai nuovamente verso le scale già percorse: Carolina non c’era più. Dal fegato fino al cuore mi bucò una frase, o forse soltanto una sensazione.

tutte le fotografie di Zual.

Leggi anche…

Fine del sogno
Cartolune #1 | Giovanna Cinieri
La Gardiniza