un racconto di Paolo Di Paolo,
tutte le fotografie di Isabella Casiraghi.
Bah, direi prima di tutto. Un’esclamazione, una interiezione quasi fumettistica. Dovuta al fastidio che mi è cresciuto dentro – no, non per quel viaggio, tutt’altro, ma per il fatto di sentirmi dire che lo rievoco troppo spesso, che ci torno sopra con eccessiva frequenza. Come se non riuscissi a liberarmene. Ma il fatto è questo. Non è un come se. È vero, è proprio così. Non riesco a liberarmene. Torna a visitarmi, mi interroga, mi chiama da lontano: ehi, ometto del 2024, ti ricordi di te stesso quaggiù, diciassettenne sul crepaccio fra un millennio vecchio e un millennio nuovo? Sì, certo, mi ricordo, mi ricordo. Basta che dia seguito a questa ingannevole ambigua interlocuzione e mi rificco nella mappa mentale anzi sentimentale di quell’agosto 2000. Bah, dico a chi si intromette per dirmi che indugiare sui ricordi, alla mia età, è tutto sommato prematuro, e non fa che confermare la vulgata sulla generazione, per l’appunto, millennial a cui pure appartengo. E cioè che siamo nostalgici per partito preso, e anche un po’ infantiloidi. Regressivi. Bah. A me sembra che sia solo una prova di forza nemmeno così affascinante quella di resistere al richiamo della propria adolescenza. Il commento acidissimo del moralista di guardia e di turno alle folle adoranti per Taylor Swift in mezzo mondo: “Eh, eh, però a un certo punto bisogna crescere!”.
Non mi dire! Che solenne verità! E soprattutto: che gran vantaggio!
Vorrei correre a casa sua, citofonargli e guardarlo da vicino; vorrei avere la prova plastica della soddisfazione che gli deriva dall’essere cresciuto, dall’essere diventato – a tutti gli effetti e irrimediabilmente – un adulto. A me questa esaltazione dell’essere adulti, adulti-adulti, suona sempre sospetta: non solo è esteticamente sgradevole, essere adulti-adulti, ma anche mi pare una rivendicazione di orgoglio a vuoto. Non c’è niente di cui essere orgogliosi. Meglio Swift che canta a chi ha ancora diciassette o ventidue anni. O a chi non l’ha dimenticato. Meglio Swift che canta “Ho diciassette anni e non so niente”; e mi capirebbe se le dicessi dell’irresistibile richiamo di quel viaggio a Salamanca dell’agosto del 2000.
Avevo diciassette anni e non sapevo niente.
Ehi, ometto del 2024, ti ricordi di te stesso quaggiù, diciassettenne sul crepaccio fra il ventesimo e il ventunesimo secolo? mi chiamano le cicogne di Salamanca – battendo il becco, al tramonto, annidate tra le guglie della cattedrale barocca. Il primo primo viaggio. Quello in cui misuri la capacità di autonomia, di calcolo e ricalcolo del percorso indipendente. Indirizzo: Paseo de la Estación. Zona di semiperiferia di una città comunque piccola, piantata nella Meseta spagnola, brulla, bruciata dal sole – diez meses de invierno, dice l’adagio, dos meses de infierno. È come percorrere un corridoio spaziotemporale, dalla modernità, il 2000 d.C., grigiastro, ordinario, funzionale ma bruttino, al bagliore antico, di arenaria, e inservibile di un secondo tempo delle cattedrali. La signora Emilita Hernandez, infermiera, quando suono al citofono sta facendo la doccia. Un momentito, por favor. Mi accoglie in accappatoio e con un telo avvolto sulla testa; con gentilezza severa enuncia le regole. Non si fa la doccia prima delle otto di mattina e dopo le nove di sera. Non si perdono le chiavi. Non si rientra ubriachi. Condivido il soggiorno domestico con due ragazzoni americani che mangiano riso in bianco condito di ketchup. Il loro angolo emana un possente afrore di piedi sudati. Per fare mio il mio spazio, dispongo con una certa superflua cura i libri che ho portato con me. Il primo volume della Recherche! Che pagliaccio. Il Lettore Ambizioso che Sogna di Fare lo Scrittore. Le poesie di Borges con testo a fronte. In fondo, sono lì per studiare la lingua spagnola – che non conosco ma suona (necessariamente) familiare fin dalla prima lezione, in un’aula tutt’altro che nobile della maestosa università cittadina. Ricordo, in ordine sparso, le acrobazie per non bagnare il pavimento facendo la doccia in piedi in una vecchia vasca da bagno senza tendina. Nei fatti, a terra c’è una pozza d’acqua. Il fresco del mattino mentre mi accosto agli studenti assiepati, il disagio e l’imbarazzo di chi deve farsi accettare, o anche solo conoscere. Però anche la libertà, una libertà mai provata prima: non essere nessuno, o ridefinirsi daccapo, un nuovo battesimo, un’identità menzognera. Non c’è nessun passato, nessuna armatura, né ruolo codificato: non sono il primo/secondo della classe che-però-passa-i-compiti, non sono il figlio che per l’appunto va bene a scuola, non sono quello che si è fatto scappare una ragazza dandole il primo bacio sotto un governo Prodi, non sono il Lettore Ambizioso che Sogna di Fare lo Scrittore. Non sono niente, posso essere tutti. E proprio quando realizzo questo superpotere che è dato solo in viaggio – sparire a sé stessi, nascondersi, fingere di non essere, di essere altro da sé – mi rendo conto di non saperlo sfruttare al meglio. Tanto più, anzi tanto meno quando in aula vengo messo accanto a una ragazza belga. Piena di lentiggini. I capelli corti. Sarà con lei che condividerò i miei primi affannosi e goffi esperimenti di dialogo in lingua spagnola. Anzi, per la precisione si tratta di un raccontino elementare da scrivere a quattro mani, dato un incipit comune. Starei per dirle che: eccomi, sono qua, mi vedi? Sono un Lettore Ambizioso che Sogna di Fare lo Scrittore, ho Proust con me sul comodino, e anche le poesie di Borges, e a Roma scrivo, scrivo, sul giornale della scuola, su un giornale locale, mando lettere a Montanelli (che mi risponde), prima sono andato in un internet point (un internet point!) per vedere se nel blog (nel blog!) di una famosa scrittrice è stata pubblicata anche la mia ispiratissima email. Non le dico niente. Mi dico: dai, ricomincia da zero, inventati più interessante, più fresco, più loco. E d’altra parte, viste le sconclusionate proposte che avanzo, sconclusionate perché sconclusionate, sconclusionate perché mal dette in uno spagnolo da principianti, visto tutto ciò, la vedo sgranare gli occhi – grandi sul viso coperto di lentiggini – e esplodere in un “Tu eres loco” che non dimenticherò più. Pronunciato ridendo, ma con un sorriso che non sembrava fiorire dalla seduzione: piuttosto, da quel moto di simpatia che si riserva alla categoria dei Goffi impenitenti e irredimibili. Ho pensato a lungo a lunghissimo, ho pensato tutti i giorni del mio primo viaggio a come riscattarmi agli occhi della ragazza belga di Salamanca; e le ho dedicato ore di rimuginio – poetico, quando supponevo, come in un Tonio Kröger non ancora letto a quell’epoca, di dedicarle grandi e sublimi pagine di letteratura; lascivo, quando mi masturbavo, dopo avere chiuso il tomo di Proust sul comodino accanto a un bicchiere d’acqua – bicchiere d’acqua che a quel punto bevevo, mentre il respiro tornava normale, e mi saliva l’angoscia di svegliarmi assetato e dover raggiungere la cucina, col rischio di svegliare la mamma di Emilita che dormiva sulla poltrona. Lei, mia vera confidente, col suo spagnolo masticato bofonchiato, che guardava in tv Corazón de Verano e mi faceva domande che per metà fingevo di capire. Che disastro! Le luci dell’alba piombavano sul Paseo della Estación: a piedi, nell’ancora fresco del mattino di metà agosto, avrei raggiunto l’aula dell’università e mi sarei seduto con ulteriore disagio accanto alla ragazza belga di Salamanca, con la certezza – via via che i giorni sfilavano – di non riuscire più a essere niente di diverso, nessuno che non fossi io. Ma l’illusione ha avuto la sua bellezza, come quello scrigno di città nella città, che raggiungevo dopo lezione, al tramonto – le cicogne battevano il becco, un richiamo, una musica sorda, e c’erano questi tramonti naturalmente barocchi sopra cupole artificialmente barocche, e mangiavo un panino, o tornavo a casa – dove Emilita lasciava il biglietto Esa es tu cena, e spesso era una pietanza un po’ triste e un po’ fredda. Ma non solo mi sentivo dove non ero mai stato (era così), mi sentivo anche dove avrei voluto essere sempre: nel luogo del rinvio, della possibilità che ancora non si chiude, non si nega, non si cancella, non ci abbandona. Il luogo dove hai diciassette anni e non sai niente, ed è la ricchezza più imbarazzante ed enorme che si possa avere – pronti, certo, a dilapidarla. Ma non a dimenticarla: perciò sì, va bene essere adulti, ma fino a un certo punto, con un bah sulla punta della lingua, con i sensi all’erta, con la convinzione che un primo viaggio come il prossimo e come l’ultimo siano spazi di libertà condizionata ma eroica in cui ripetere l’esperimento dei propri diciassette anni finché si è vivi.