quiescenza

un racconto di Sibilla.

Il corvo se ne sta appollaiato tranquillamente sull’antenna di un palazzo, assorbe pigramente il sole, avvolto com’è nel suo nero abisso.

Gracchia verso il nulla: nessuno gli presta attenzione, è troppo in alto, levare lo sguardo a quell’altezza feroce significherebbe levarlo vero un sole impietoso, significherebbe diventare un Icaro post moderno che rinuncia alla vista in nome di una melodia inopportuna.

Il corvo è solo l’immagine di sé, come un ologramma, sta sbiadendo, si affievolisce, il suo canto sgraziato si fa tenue: sta per sparire.

Poi una donna si avventura nella luce e sogna la sua altezza inarrivabile, lo guarda con gli occhi di una bambina, con gli occhi di una vecchia, con una curiosità morbosa, malata, lo invidia, invidia le sue piume brillanti così come invidia la sua voce erosa.

È la sua unica spettatrice.

Il corvo si volge verso di lei e intona la più triste delle sonate, ogni minuscolo gracchio è un inno alla solitudine, al tedio, alla meravigliosa libertà che abita le sue ossa cave, dono di un dio incauto che sparge la sua misericordia in modo parziale.

La donna stringe gli occhi, il sole riflesso nel suo piumaggio la abbaglia, o forse è la lamiera senza poesia del tetto di quel palazzo, forse è il suo insulso lirismo ad accecarla. Non lo sa, sa solo che il lamento del corvo ha afferrato irrimediabilmente i suoi sensi, è un suono senza frequenza, è un luogo senza luogo, tutto improvvisamente manca a se stesso.

Quando la donna distoglie l’attenzione il corvo la richiama a sé con tono accusatorio, ma sempre fiero, sempre solo, un eroe romantico alle prese con il suo primo pubblico.

A lei brillano gli occhi in modo innaturale, il calore le brucia il viso, è un dolore che è disposta a sopportare, pur di ascoltarlo, si innamora di lui con la dolcezza ingenua di un primo amore. Il suo gracchiare è come un battesimo, il mondo muta incessantemente le sue forme con questo sottofondo, come se fosse fluido, come i colori a olio quando si mescolano sulla tavolozza e poi sulla tela. Le forme nuove che il mondo assume hanno colori violenti, che urlano, niente a che vedere con i toni pastello che aveva prima che l’aria si riempisse di questa sinfonia.

Poi il corvo vola via e la donna precipita vertiginosamente nel pozzo infinito del vuoto che ha lasciato dietro di sé, la abbandona a una solitudine omicida, all’ironia tagliente di quella solitudine omicida che lei non avrebbe mai potuto scorgere se non avesse goduto dei pochi istanti di compagnia che il corvo le aveva gentilmente concesso senza nemmeno volerlo.

E se lei non avesse notato il corvo lui avrebbe cessato di esistere, o forse avrebbe ricominciato a esistere in un altro luogo, o forse si sarebbe beato della libertà, della calma, dell’assenza, dell’altitudine innaturale, se solo lei non lo avesse notato, se solo lei non lo avesse costretto a esistere nel suo stesso luogo guardandolo, ascoltandolo.

Lei lo percepisce e lui non può morire.

Condanna delle condanne, abuso inarrestabile, la percezione altrui, che impedisce la dimensione privata.

La quiete privata del corvo e l’inquietudine curiosa e infantile di una donna si sono
scontrati in un’orribile battaglia che lei ha causato e ha perso innamorandosi con quella dolcezza ingenua di un primo amore, e che ha vinto uccidendo il corvo, uccidendo il suo spazio. E osa sentirsi abbandonata, osa avvertire la perdita.

Immorale, immorale, il suo sentire è sempre immorale, frivolo, contorto.

E adesso non può far altro che scrivere del corvo come un antico compagno d’avventure, quando lui non desiderava niente, se non starsene appollaiato sull’antenna di un palazzo ad assorbire il sole e a gracchiare verso il nulla, se non attendere il buio per diventare nulla.

Vanitosa ma convincente, finirete per crederle quando vi dirà che lui era lì per lei, che è vero che la sua apparizione è presagio di sventura.

Basti vedere la disgrazia sul suo volto come un trucco teatrale.

tutte le foto di Margaret Durow.

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