un racconto di Benedetta Marinelli,
editing di Fabrizio Pelli.
Ci sono cose che sono sempre state lì, cose che sai ti faranno soffrire. Eppure lasci lì. Strizzi gli occhi pur di negare che siano lì, posticipi, dimentichi (o almeno credi di farlo) e le cose intanto crescono indisturbate esattamente dove le hai lasciate: in un angolo della tua coscia.
Il tempo dell’illusione artificiale, però, è destinato a finire e arriva il giorno in cui la mano, certa, tocca proprio il punto preciso.
Succede in bagno: tiri giù i pantaloni e le dita inciampano su quel poro. Ti dici che no, non può essere, e, mentre il pavimento pelvico si irrigidisce a tal punto da interrompere il flusso di pipì, busserai alla porta della tana dove si è nascosto tutto questo tempo: lui, il pelo.
Bastardo disertore, quel pelo ha lasciato morire tutti gli altri fratelli e invece di cadere con loro… si è nascosto sottopelle, come i topi di fogna. A quel punto non puoi più negare che tu lo sapevi, eccome se lo sapevi, sin da quando ti strappavano il vello, che quello stronzo era già lì, a covare nel buio il pus, il rosso, il dolore.
Però hai finto, hai chiuso gli occhi. Non volevi mica che l’estetista agguantasse anche la pinzetta?
Ancora non ti fa male, quel vulcano sottopelle, ma ti tocca scegliere: spremerlo, renderlo ossessione prima che veda la luce o aspettare e soffrire nel frattempo?
Alla fine, ti dici, del dolore si sceglie solo la diatesi.
E ravani intorno a quel pelo sottopelle, perché hai sofferto mille strappi per avere quella coscia di raso e ora non permetterai che un solo, piccolo, pavido pelo decida di spuntare quando vuole lui, peggio: decida di incarnirsi. Peggio: resti lì, ombroso, a scheggiare di nero il rosa.
Cosa dirà Desiré, la tua estetista, al prossimo appuntamento?
«Cos’è questo bubbone? non ci siamo, tesoro, non hai fatto lo scrub che ti avevo consigliato».
E invece ti sei scartavetrata, ogni giorno, sotto la doccia.
«Dovresti provare questo prodotto, per disinfettare».
E invece li hai già provati tutti, solo il fuoco ti manca, da provare.
«Avrai mica usato la lametta?», insinuerà alla fine, profondamente scossa.
No Desiré, non te lo meritavi, proprio tu, il mio angelo glabro.
«Sì, avevo un’urgenza».
Perdonami, Desiré, ho sbagliato ma non me lo aspettavo: mi ha detto che sarebbe venuto a cena e tra ciclo, stipendio e fuso orario non ho fatto in tempo, non ce l’ho fatta, a prendere appuntamento.
«Va bene, cominciamo».
Dirà algida, Desiré. Mentre la cera bollente comincia a impastare peli e pelle ti recrimini, ti dici che in fondo, te lo meriti: tra una notte di passione e la tua fedele estetista, hai scelto la soluzione di certo meno permanente– anni e anni di fedeltà alla morbida, fluida cera rosa, traditi in un attimo dalla lama, dal pugnale, dal coltello, che taglia, bello bello, solo la testa del vello. Anzi, non la taglia, ma la pota, la fortifica.
Gli strappi di Desiré saranno purganti e la doppia ricrescita, diagnosticata, sarà il giusto contrappasso al tuo gesto tracotante.
Mentre armeggi con le unghie nella carne della coscia, alla ricerca forsennata di quel pelo superstite, te lo chiedi davvero che senso abbia tanta rabbia per un ammasso lamellare di innocente cheratina.
Fermi le dita insanguinate. Le guardi atterrita.
Le pinzette, boia di generazioni e generazioni di peli, fremono sul bidet.
La coscia, butterata da empi bulbi, lividi, screzi, sentitamente ringrazia.
Ma che senso ha tutto ciò?
Chi ha deciso, tracotante, all’origine del mondo che le donne dovessero esser lisce?
Scimmie pelose erano gli uomini e scimmie pelose eravamo noi donne. L’evoluzione non quadra, non combacia, discrimina: se produciamo peluria, santiddio, un motivo ci sarà.
«E perché, poi», potrebbero dire i peli, indicando i capelli, «noi sì e loro no?! Allora è vero che la scalata sociale non esiste e solo chi sta in alto resiste, sopravvive, viene curato. Solo chi è già in testa merita la vita, merita di essere allungato».
«Vretti!1», risponderebbero i capelli, «Il vostro sterminio è una questione di igiene pubblica».
Dal pube si alzerebbe una voce: «“Igiene” voi dite? PRIVILEGIO è il nome dei soprusi che subiamo. Litri di shampoo e balsamo ingiustamente scialacquati e a noi, qua sotto, arriva solo lo scarto. Mai una piega, mai una treccia, mai una cura equamente distribuita. Voi ci avete relegati a vivere in foreste, lontani dalla civiltà della cute, nascosti in antri bui, e ogni mese ci uccidete con il magma rosa, con le lame, con il laser addirittura!»
Così direbbe, il povero pelo, prima di essere strappato alla vita, insieme ai suoi.
Ma chi l’ha deciso, chi ha istituito il rito? Perché, Desiré? Tu, apocalisse del vello, dimmelo, se lo sai: perché la bellezza è sottrazione?
Dovrei avere meno chili, meno peli, meno pare.
E allora, diminuisco, strappo, sottometto e mi scuso. Oh sì, mi scuso e chiedo perdono alla mia notte di passione per il mio corpo non perfettamente liscio. Non perfettamente sodo. Non perfetto.
Finalmente dalle cellule divelte si arrende il pelo sottopelle, scuro e inerme.
Le fameliche pinzette lo afferrano sicure. Il pelo sottopelle viene via con tutto il bulbo: il dolore è soddisfacente. Eppure da quella scheggia bruna si apre, per un attimo, l’universo: la ghianda brulla che era la Terra, il brodo primordiale, il girino e il dinosauro, la scimmia e l’homo sapiens, la lotta continua che è stata la vita umana, la tua parte selvaggia e primordiale – contro cui Desiré non può nulla – giace divelta sul bidet. Tiri su i pantaloni a coprire la coscia ormai rossa. Nello scarico cade una lacrima, domani, ti dici, ce ne sarà un altro.
- “luridi” nel dialetto napoletano, abruzzese e molisano. ↩︎
tutte le fotografie di Marika Pitti.