un racconto di Sarah Cipullo,
editing di Alessandro Tesetti.
Orbassano, Torino.
Rusty, adjective.
: if you are rusty, you are not as good at something as you used to be, because you have not practised it for a long time.
Mi sveglio alle sei con trenta minuti di anticipo sulla sveglia. La pioggia cade a secchiate sulla finestra della stanza mansardata, si spezza come uno spaghetto. Sono rientrata da un paio di mesi, eppure ogni mattina raccolgo ancora lo smarrimento di ritrovarmi in Piemonte dopo quasi un anno e mezzo di assenza. Sto provando a ricominciare dalle piccole cose. Mi alzo per andare al bagno, faccio colazione vicino la finestra, attraverso la strada col verde.
Sul lavoro faccio fatica ad ingranare.
«How are you?» ho chiesto ieri a un collega oltreoceano.
«I’m very well, how are you?» ha risposto.
«I’m very well» ho detto e mi sono sentita un’idiota. Dopo l’incidente, ho dimenticato le voci degli americani e mi sono ritirata nell’italiano, nel suo calore e nella sua tranquillità. In ospedale, sotto i ferri, ho assorbito nuove parole della mia lingua – brillanza, coronoide, radio, ulna, capitellectomia, endoprotesi – e ne ho lasciate andare altre della loro – egress, respite, squabble, miffed, blotchy, stain. Poi in fisioterapia mi sono concentrata sul gomito, che doveva flettere il braccio, che doveva estenderlo. E sulle tensioni muscolari di un pugno chiuso, di una mano aperta. Sollevare un secchio, pensavo, sollevare un sottobicchiere. Impugnare una penna. Girare una chiave nella toppa. Stringere un coltello. Queste parole mi dicevo e quindi dimenticavo to lift a pail, to hold a cigarette, to open a jar, to thread a needle. E forse è per questo che arrivo in ufficio oggi e alle dieci mi sto già lamentando.
«L’inglese mi si è arrugginito» dico a Caterina mentre apro il Longman online. La mia testa sembra quasi si stia per tuffare nella barra di ricerca del dizionario. Scelgo sempre il monolingue. Mi restituisce i significati precisi usando parole semplici, abituali.
«Ma che vuol dire scrubber?»
Mi innervosisco mentre l’inglese si annoda sotto il palato.
«Non ne ho idea» Caterina mi dà due colpi sul braccio buono «ma sono arrivati gli americani. Io mi sa che questa riunione la devo fare.»
Indica con pollice teso e pugno chiuso la fila di torsi davanti alla sala riunioni e allora mi volto per sbirciare. C’è una donna alta e bionda, con gli zigomi pronunciati. E un uomo stempiato, con la barba di un adolescente. Poi ci sei tu. In quest’area dell’ufficio, che è larga e bassa, ci sei arrivata prendendo l’unica curva di corridoio dotata di segnaletica. È un senso unico in lamiera blu. Newton Avenue, dice. E quindi sei nel nostro open space e io mi rendo improvvisamente conto che le finestre sono larghe e sporche di pioggia, incorniciate da infissi verdi e scrostati, con la vernice che viene giù a bocconi. Avrai osservato ogni oggetto intorno a noi, mi dico, constatando che tutto è grigio, cioè senza colore. Sono grigie le cassettiere, le scrivanie. E grigi sono gli armadietti, i nostri portatili. Ma mi domando se hai notato che c’è anche un poco di frenesia d’impulsi tra le fronde degli alberi che premono contro i vetri. Circondano l’edificio, che è come un distaccamento della nostra azienda fuori Torino. E la nostra azienda è come un grande transoceanico che da Detroit ti ha portata qui, in questa fabbrica che produce automobili. E tu è per questo che sei venuta. Per fare automobili. E per fare automobili sei in fila che aspetti di entrare in una sala riunioni attaccata al bagno, che tutte le volte che qualcuno tira lo scarico si sente l’acqua scrosciare. Quando mi vedi, ti sto guardando da dietro una colonna. Dopo l’ultimo post operatorio sto ancora prendendo oppiacei e forse è per questo che nel momento in cui mi sorridi, sulla mia sedia sento la vertigine di chi improvvisamente capisce di stare su un enorme continente, su una grande Pangea. Hai i capelli tinti di viola e di te so solo che nel posto in cui vivi c’è un museo che tiene un quadro di Napoli al chiodo. Quando scompari in sala riunioni, porti via tutti i miei colleghi. Resta l’open space senza testimoni, il ronzio delle lampadine accese, la barra che batte ritmica nella casella di ricerca del Longman, e un vuoto che sorregge l’Europa intera.
Torino.
Swallow, verb.
: to make food, drink, etc. go down your throat into your stomach.
La nostra specie ha iniziato a parlare solo qualche centinaio di millenni fa e da uno sparuto numero di rumori acciaccati, siamo arrivati a produrre migliaia di parole. Io sono nata in una lingua di trenta suoni, contro i dodici del rotokas, e sto cercando di migliorarmi nell’inglese, che di suoni ne ha quarantaquattro, e pure se non sono ottantadue come quelli dell’ubykh, mi sembra di star facendo una fatica enorme.
«Che cosa combini?» mi chiede Caterina quando in pausa pranzo mi scova nascosta in un anfratto al primo piano, con una lattina di pepsi aperta su un banchetto basso e Fragile Things tra le mani.
«Imparo parole nuove.» Lei viene a sedersi vicino a me. Le mostro il mio ultimo appunto a matita. Woolgather.
«Sul Longman non l’ho trovata. Non è indicizzata nemmeno nei dizionari dell’Oxford e del Cambridge. Però nel Merriam-Webster c’è.»
«È un dizionario americano?»
«Sì, dice, to engage in woolgathering, e sotto woolgathering ho trovato…»
«Ascolta, ma tu parli già un ottimo inglese» m’interrompe Caterina. «Perché non impari un’altra lingua? Non so, il francese. O il tedesco, la lingua dell’automotive. Magari finisci a lavorare in Porsche, t’immagini?»
Mentre l’ascolto penso che woolgather dice molto di me quando penso a te.
«Mi piace Martha» butto fuori a bruciapelo e lei mi guarda in silenzio. «È per questo che vorrei migliorare ancora un po’.»
«Intendi… quella Martha?»
«Sì.»
Sento che le mie tempie, le guance e la fronte stanno diventando rosse come un fitto campo di pomodori. Lei si curva in avanti come se dovesse proteggere un segreto, ma si porta le mani alla bocca e gli occhi sono luminosi.
«Ma glielo devi dire!» squittisce in falsetto, trasformando un continente in isola.
«Pensavo di farlo più avanti.»
Non le dico che mi manca il coraggio, che non riesco a trattenere nella memoria le parole che così spontaneamente fioriscono nelle tue ossa. Quando ti parlo, quando ti scrivo, mi sembra sempre di arrancare sulle strutture della tua lingua come su una spiaggia piena di sassi, nella speranza che anche a me l’inglese venga alla bocca con la stessa naturalezza. «Lo farò. Quando sarò migliorata ancora un po’.»
Caterina mi guarda in silenzio, poi posa una mano sul dorso della mia, sorridendomi con dolcezza. Non ce n’è bisogno, sembra voglia dire.
Quest’estate sto leggendo molto in inglese. Gaiman, Frost, McCarthy, Melville, Lahiri. Le loro parole si infiltrano secche e polverose nella gola, mi entrano nel cervello, rallentano i pensieri. Una mattina di luglio, decido di ricominciare dalle basi. Torno sugli oggetti che mi circondano, sugli animali che possono affollare un appartamento. Chairs, sofas, beds, armchairs, books. Dogs, birds, guinea pigs, hamsters. Poi scelgo verbi semplici, e improvvisamente le finestre si aprono, I open the window, e i gatti saltano sui tavoli, a cat is on the table. Cerco di curare la pronuncia. Ripeto ogni parola e visualizzo lo schema intricato di lettere che non corrisponde mai ai suoni dell’alfabeto. Mi dico che una dizione più precisa forse mi è più facile azzeccarla imitando la tua voce. Così davanti al mobile nella mia stanza mormoro wardrobe piano, in un modo che possa assomigliarti, e quel pezzo di legno mi sembra improvvisamente più solido e reale.
«Novità?» Caterina mi manda un messaggio i primi di settembre, mentre l’estate invecchia.
«Non ancora» le rispondo. «Ma ho preparato una mail.»
Per confessarti che mi piaci ho scelto con cura ogni parola. Le rileggo tutti i giorni da una settimana almeno. Cerco di riconoscere la chimica della tua lingua, verifico che le metafore abbiano un significato, che siano corretti i nomi delle cose, gli usi dei verbi, che non abbia scritto parole abbandonate. Le ho controllate tutte nel dizionario, le ho cucite insieme una per una, con pazienza, ma non sono ancora sicura di sapere esattamente cosa ti sto dicendo.
Torino.
Woolgathering, noun.
: indulgence in idle daydreaming.
Hai cambiato gli organi, i tessuti del mio linguaggio e a passare sulle tue parole ho dimenticato il colore delle mie. Quando cammino per le strade, ascolto il rumore dell’italiano così come lo ascolterebbe un forestiero. Lo sento come si sente una lingua che non si conosce. Tutta la città è un enorme palcoscenico, il chiacchiericcio formicola ovunque come a teatro prima dell’apertura del sipario, e lentamente mi accorgo che proprio nell’italiano svanisce la firma del tuo passaggio nel mio mondo. Caterina che mi domanda di organizzare un meeting è l’unica traccia del tuo corpo che si muove altrove prima della tua partenza per l’Italia.
La sera in aeroporto il tuo aereo fa ritardo e a me questo posto sembra un largo corridoio d’ospedale. Lo spazio qui dentro è alto e ampio. Le sedute di metallo sono vuote e la luce dentro tiene fuori il buio oltre le finestre. Mentre ti aspetto, mi fanno male i talloni e di fianco a me c’è una signora di all’incirca sessant’anni con le cuffie grosse e verdi sulle orecchie, e un cane in una borsetta. Mi dico che cinquant’anni fa, davanti a un fotogramma simile chiunque avrebbe strabuzzato gli occhi. Poi le porte automatiche si aprono e mentre aspetto di vederti passare tra la folla si libera l’America. Ci sono pastori di mandrie selvagge, uomini e donne a cavallo con in testa cappelli dalle tese larghe, lanciatori di lazo e banditi. E c’è anche gente che sembra comune ma che secondo me conserva le armi nel portaombrelli. La porta automatica si apre ancora e ancora, finché da quella cerniera spazio temporale tu spunti fuori come un genio. La tua pelle è più scura della mia, c’è qualcosa di famigliare nel disegno del volto, ma le labbra sono carnose, il naso è schiacciato, gli occhi non sono dell’Europa. Non hai pieghe sul collo, come la gente che non legge molto, ma che pure tiene sempre la testa alta quando cammina.
«Ciao» tiri fuori nervosa, provando ad entrare nell’italiano mentre ti trascini dietro una valigia pesante. Capisco che vuoi dire altro.
«It’s ok» ho la voce un po’ rotta. «Let’s speak in English.» Va bene l’inglese. È tra i tuoi denti che io trasloco, senza portarmi dietro niente. Non una penna, non un cuscino.
Insisti però nel voler imparare alcune frasi della mia lingua. Allora ti scrivo “Usciamo” su un post-it che attacco sulla maniglia della porta all’entrata. Sull’anta di un armadio ne lascio un altro, “mi piace la tua maglietta”, sullo specchio in bagno “sono bella”, sul pensile della cucina “cosa mangiamo?”. Semino per casa anche post-it più semplici e con un filo lego per te la parola alla cosa che le corrisponde. “Tavolo” al tavolo. “Finestra” alla finestra. “Libreria” alla libreria. “Scacchiera” alla scacchiera. A pranzo cucino sempre qualcosa di diverso e quando c’è bel tempo la tavola l’apparecchio fuori sul terrazzo, dove tutto è sbrecciato. Sono sbrecciate le piastrelle, i muri, è sbrecciato anche lo scudetto del Torino che il proprietario di casa ha fatto incidere su una bassa colonnina che separa le inferriate. Oggi dai le spalle al tavolo che ho coperto con una tovaglia di fiandra e mi pare che tu stia guardando bene ogni cosa. I pali della luce, le tegole sui tetti, le piante sui balconi dei vicini, le montagne lontane della Val di Susa. Quando ti volti, stringo un piatto di carbonara tra le mani.
«I thought we would eat it on Saturday at three in the morning as you had promised.» Mi sorridi con la tua bocca carica di doni, e mi sembra che tutte le cose vere abbiano a che fare soltanto con te. Sento le tue dita toccarmi gli avambracci e vorrei dirti, Per te, l’ho cucinata col guanciale.
Una volta in chat mi hai scritto che ami molto la mitologia greca e l’egittologia, e quindi andiamo al museo Egizio mentre in tram ti racconto di una storia che vorrei scrivere su Prometeo. Parliamo e mi piace tutto. Mi piaci tu, mi piace la città vista con i tuoi occhi nuovi, mi piace la folla, mi piacciono persino le automobili per le strade, anche quelle che abbiamo fatto insieme, e poi mi piace la pioggia che batte sulle rotaie del tram, mi piacciono le fermate dell’autobus. Nella fila per il biglietto ti guardo il collo, mi viene alla mente la parola smooth, e vorrei poterlo accarezzare, ma le mani me le metto nelle tasche. Quando togliamo le giacche per lasciarle in un armadietto, mi aggiusti il risvolto di una manica della maglietta e io vorrei che tu mi dessi qualcosa di simile a un bacio. Nel museo camminiamo tra le esposizioni in silenzio e il desiderio che sento per te riverbera come un bagliore sulle pareti e i pannelli di plastica. Striscia sul pavimento, scivola lungo le teche mentre tu poggi appena un polpastrello su un vetro che protegge oggetti lignei e in terracotta, frammenti di calcare e ceramica. Ti soffermi con gli occhi sui papiri, ti meravigli di ogni cosa e mi sembri così lontana da casa. Tu appartieni alle cose nuove, alle piantagioni di cotone della Georgia, alla guerra di secessione. Io invece nell’antichità mi sento a mio agio perché sono di un mondo vecchio, e come i vecchi in questo posto provo quasi la noia che sentirei davanti la bara di un estraneo. Qui dentro, mi sembra di essere un grande tronco saldo. Penso che il tuo è un popolo giovanissimo, che se fosse possibile paragonarlo a un essere umano, sarebbe un adolescente in piena pubertà, con nella bocca parole bagnate di benzina, un ragazzino che vuole essere amato, ammirato, pluridecorato.
«Gli egiziani scrivevano un po’ come i giapponesi» ti dico venendoti vicino, chinando la testa sui geroglifici. «Come se stessero disegnando.» Mi prendi la mano con delicatezza.
«No» sussurri piano, indicando un pannello scuro con una frase arancio che assomiglia a un corsivo. «This sentence is written in Demotic. You have satisfied my heart, it says.» E il museo mi sembra più dolce, la galleria piena di segni bellissimi.
Torino.
Linger, verb, intransitive.
: to stay somewhere a little longer, especially because you do not want to leave.
Nella mia camera da letto dormi da sola e quindi inginocchiata vicino al tuo corpo steso sul materasso mi sento una straniera. Avevo già deciso tempo fa che se fossi davvero salita su quell’aereo avrei riposato su in mansarda, che ti avrei lasciata ai comodini seicenteschi dei miei proprietari di casa. E al mare di Cthulhu nella libreria, incastrato tra Cosimo sugli alberi e Didone che brucia sulla pira. Quando ti ho mandato quella lettera d’amore lo scorso autunno, devo aver fatto un gran danno. Ho rovinato tutto.
«I’m going to the dentist.» È l’ultima cosa onesta che mi hai detto ridendo, due settimane prima che te la inviassi. Ti piacevo ancora. Poi la mail è arrivata e tu sei scomparsa, sei diventata qualcuno che vive in un mondo in cui io non esisto più. Mentre apri gli occhi nella penombra stringendoti alle lenzuola, penso però che se tu avessi il coraggio di parlarmi con sincerità, ti lamenteresti del fatto che in quella mail ti ho raccontato troppo, che non l’ho fatto con la massima cortesia, che non ti ho rivolto solo le domande che tu hai rivolto a me. We’re just coworkers, mi diresti, You’ve mistaken kindness for love.
«What’s up?» chiedi con la voce un po’ impastata, stropicciandoti gli occhi con le nocche.
«Se fossi venuta per davvero, ti avrei lavato i capelli nel lavandino. E avrei tinto i tuoi capelli di viola.»
Strisci vicino al bordo del letto e con le dita mi tocchi l’orecchio, accarezzi delicatamente la pelle sotto l’attaccatura del lobo. Schiacci il tuo naso sulla mia guancia.
«Don’t write me any more love messages» mi dici. «Promise me that from now on, we will only talk about cars.»
tutte le fotografie di Giuliana Bovenzi.