Panni americani

un racconto di Alessandro Tesetti.

Il mio paese vive solo un giorno della settimana, cioè il mercoledì.

Il mercoledì è il giorno del mercato e tutti escono per fare compere: le signore frutta verdura chincaglierie fiori, i signori sigarette vino cognac, le ragazze intimo vestiti scarpe calze, i ragazzi erba fumo.

Questo avviene d’estate, ed è una vera baraonda, un vero putiferio, scorribande convulse. L’inverno è poco più tranquillo, i giovani sono a scuola e i vecchi, che sanno di essere padroni, si muovono più agilmente senza gli spintoni dei ragazzi allucinati, o gli sguardi critici e pettegoli delle ragazze ancora belle e floride che creano invidia, malumori, nostalgie pazze.

Il mercato si divide in tre parti: della frutta, dei vestiti e delle scarpe, dei panni americani. L’ultimo dei tre può lasciare perplessi; per lungo tempo mi è stato proibito andarci e mi veniva sempre descritto come un luogo maligno pieno di gente cattiva, di mariuoli che ti rubano il portafoglio, di scarcerati con lacrime tatuate che al solo sguardo mi avrebbero picchiato (tipica descrizione dei miei genitori per incutermi terrore).

Ma più crescevo e più la curiosità aumentava, soprattutto mi chiedevo perché si chiamasse così, perché mercato dei panni americani; sono vestiti importati? sono marchi che si trovano soltanto in America? Sono taglie grandi?

Sono patriottici, guerrafondai, misogini, meschini, divieto dell’aborto?

Sono a stelle e strisce? Tutte queste domande non mi facevano dormire il mercoledì a scuola mi era facile distrarmi perché i pensieri finivano sempre lì: al mercato dei panni americani. I miei compagni delle medie sapevano quello che sapevo io, a variare erano solo alcuni dettagli come mariuoli e lacrime tatuate, scambiate tipo con ladri e malavitosi, zingari e napoletani (questo soprattutto da figli con genitori affiliati a Lega o Fratelli d’Italia).

Solo uno di loro, Manolo, bocciato due volte e gran conoscitore della vita, diceva di esserci stato. Allora chiedevo a lui, chiedevo come avviene l’importazione, se sono taglie grandi, a stelle e strisce, federaliste ecc. Lui rideva ma mica rispondeva quello stronzo.

E una volta la curiosità fattasi tanto veemente Manolo mi ha detto Basta hai rotto il cazzo, ti ci porto. Prima fingo di essere preoccupato, che non si fa, non ci posso andare, è pericoloso. Ma era un martedì e Manolo mi ha tappato la bocca dicendomi Domani ci vediamo qua fuori, non proprio davanti scuola sennò ci beccano ma qua fuori e andiamo insieme.

Quella notte non ho chiuso occhio, come se il giorno dopo dovessi partire, ma partire per un posto sconosciuto ignoto che forse neanche esiste ma che tanto se ne parla e poco se ne discute, insomma era come se dovessi partire per il paradiso o forse per l’inferno; magari il parlamento celeste mi avrebbe condannato per non aver rispettato il quarto comandamento dell’ant. test. di Dio a Mosè, in loco Monte Sinai.

Sentenza fatta, anima scaraventata giù all’inferno, insieme a tutti gli altri curiosoni del mercato dei panni americani.

Contrappasso dantesco smucinare e smucinare banconi di vestiti attorcigliati, sporchi, macchiati, ammuffiti. La mattina dopo mamma è venuta a svegliarmi, e proprio non posso dirle la verità, ma neanche mentirle, quindi fingo di avere la febbre, a scuola non ci posso andare, provo a vomitare ficcandomi due dita in gola non appena si gira, mi bacia la fronte per capire la temperatura e questa una è tecnica infallibile, non sbaglia mai e non ha sbagliato neanche quella volta.

Quindi mi dice di non fare storie, di alzarmi, che manca poco alla fine della scuola, ancora un po’ dai.

Ero lì lì per dirle la verità, che a scuola quel giorno non sarei andato ma essendo mercoledì sarei andato al mercato dei panni americani con Manolo. Forse si sarebbe arrabbiata più a sentire quel nome e mi avrebbe detto Va bene andiamo a questo maledetto mercato dei panni americani, ma vieni con me e non con quel delinquente di Manolo.

Poi ho pensato anche se quella fosse tutta una messinscena, e tutti i genitori declinavano così il mercato dei panni americani perché ci andavano loro a rimorchiare, drogarsi, insultare i preti e via dicendo; insomma un luogo di franchigia. 

Ma a mia madre non ho detto niente, alla febbre non c’ha creduto e quindi in parte è anche colpa sua. Mi sono incontrato con Manolo all’angolo della via, era spalle al muro con una sigaretta accesa all’angolo della bocca, si guardava attorno con occhi semiaperti incattiviti stile Marco Giallini, poi mi ha detto di andare e siamo andati.

Era la prima volta che vedevo il paese così inferocito: code di macchine a trombettare e ticchettare tra clacson e quattro frecce per parcheggiare in divieti di sosta o in mezzo alla strada, camioncini che rifornivano macellai con maiali squartati penzolanti, altri camioncini antisommossa davanti alle poste dove tutti i pensionati in fila guardavano incuriositi e sussurravano alle orecchie e bramavano qualcosa, i polsi scarni a stento trattenevano gli orologi dal cadere e ogni due per due i vecchi agitavano il braccio per riacchiappare l’orologio e farlo arrivare fino al gomito per vedere l’ora e bestemmiare che erano già mezz’ora in fila.

Dai tabacchini uscivano tipi con mazzetti di gratta e vinci, gioco del lotto e poi si impalavano in mezzo al marciapiede a grattare con ramini o unghie nerastre, e se vincevano bestemmiavano felici trottando verso il tabacchino, se invece perdevano bestemmiavano infelici strappando in mille pezzi la carta e lasciandola cadere per terra. 

Motorini schizzavano e zigzagavano e inchiodavano al passaggio d’una vecchia zoppa lenta lenta nell’attraversare la strada.

Sbirri col braccio allungato e sguardo sospettoso, la paura di essere scoperti e avvisati i genitori, ma Manolo mi prende e svia per una traversa. Un caldo boia, senza alberi, senza balconi per un po’ d’ombra. Manolo cammina guardingo, dice che manca poco, ha una mano in tasca che gioca con qualcosa.

Vedo i primi banconi allora mi appiccico a Manolo, provo a fare il grosso con le spalle e col petto, assumere un’espressione seria e cattiva. Nel concentrarmi in questa interpretazione Oscar quasi non m’accorgo dei vestiti lì agglomerati, solo quando vedo una maglietta carina mi avvicino a prenderla.

La stiro un po’, me la vedo addosso come sta, non era impacchettata, non aveva il cartellino.

Chiedo quanto costa e mi viene detto un euro. Veramente? Sì. Mi stai prendendo in giro? Uagliu se la vuless paga di più, per me st’appost. No no, un euro va bene. 

Gliela faccio vedere a Manolo e gli chiedo come sia possibile che costi così poco. Perché è usata, fa lui. Ma come usata, sembra nuova nuova.
Sono questi i panni americani, vestiti usati.
Non è che è rubata?
Può darsi, ma che ti frega l’hai pagata un euro.
A me non piace comprare roba rubata.
Perché no? Mica l’hai rubata tu. Senti vado a salutare una persona, ci vediamo dopo.

Resto solo, sotto il sole macigno, la maglietta usata ma davvero bella, a chiedermi perché i miei mi hanno sempre impedito di andare al mercato dei panni americani, che no, non sono taglie forti, non sono federalisti, anti aborto ecc, perché non mi piaceva comprare roba rubata che in fondo aveva ragione Manolo, tanto ormai.

Perché ci insegnano certe cose sbagliate, fasulle.

Intanto i ragazzi ai banconi urlano invitando a comprare, chiamano le donne bambole, dicono: Bambole tutto a un euro oggi. La cadenza è perlopiù partenopea. Non vedo lacrime tatuate, tatuaggi sì, ma lacrime tatuate no. Manolo si allontana e lo perdo nella baraonda, io mi avvicino a un altro bancone e inizio a cercare. 

all pictures by Melissa Schriek.

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