un racconto di Cristina Pasqua,
editing di Alessandro Tesetti.
Al trivio di Rimedio c’erano i cani. La pompa di benzina aveva chiuso oramai da tre anni e nessuno si era preso la briga di riaprire bottega. Chiusi erano pure il bar e l’officina alle sue spalle. Erano crepati tutti assieme, da un giorno all’altro. Il bar tabacchi, due porte a vetri accanto all’elettrauto, aveva sbaraccato poche settimane dopo. L’officina aveva tirato a campare per un altro paio di mesi, tra pneumatici e batterie rigenerate, prima di tirare giù saracinesca. Non ci si fermava più nessuno lì. Per questo c’erano andati i cani. In fondo al piazzale, riparati da una corte di oleandri, oltre la corsia ad alto scorrimento, tra le spade di quattro disperati e i ricoveri di fortuna di certi senzatetto, si era rifugiato il branco. C’era una porta sfondata e si poteva accedere ai bagni dal retro e da lì, scavalcando i foratini di una parete crollata, al vecchio bar tabacchi.
Era la mezza, era ottobre, era domenica. Giulio uscì dall’alimentari di sua madre diretto al trivio. Le strisce di plastica della tendina gli strusciarono la faccia e le spalle e lui le scostò infastidito. Erano rosse e ruvide di sole, erano sempre state lì, da quando avevano preso in gestione il negozio cinque anni prima. Lo aspettavano Livio Proietti e Testa. E c’era lo Sgarbo. Da quando quello si era unito al gruppo le cose erano cambiate. Lo Sgarbo aveva diciassette anni, era più grande di loro, li metteva in soggezione.
Giulio aveva sempre paura di dire fesserie, si teneva al riparo, parlava poco, rideva meno, si copriva la bocca.
Aveva spinto sui pedali e morso l’ultimo allungo prima della scesa per il trivio. Era un tratto subdolo, si srotolava davanti agli occhi d’asfalto rattoppato, neanche il tempo di pensare che filava liscio e subito la pendenza cambiava. Era una menzogna, un’insidia di polpacci e fiato. Tirò il freno di dietro e lasciò cadere la bicicletta sul ghiaino. Il cavalletto se l’era perso un paio di estati prima, durante la caccia al tesoro organizzata dalla proloco. Aveva dormito male quella notte, era stropicciato di sonno.
Erano giorni che la paura si aggirava tra i banchi di scuola. Marianna Bindi era assente da una settimana. In classe e a casa nessuno diceva nulla, se l’erano come dimenticata. Labaro, quello di arte, aveva azzardato tonsillite. Ma tutti loro sapevano che Marianna non era a casa sua. L’avevano portata via.
Lo Sgarbo si massaggiò il collo ed emise un fischio stridulo.
«Ce l’hai fatta».
«A fare?»
«E lo chiedi pure, coglione te? Vieni che ti porto in un posto».
«Livio e Testalunga?»
«Sono già lì».
Testa aveva un passato di forcipe. Era stato un parto difficile, erano anni in cui non c’era tanto da perdere tempo, si afferrava con decisione e si tirava. Il cranio di Ottavio Carpineti si era accartocciato, una strettoia all’altezza della tempia gli conferiva un’aria da film dell’orrore. I campi non aspettano travagli, l’orto nemmeno, aveva urlato il padre dall’altra stanza, mentre la madre si squarciava di dolore.
Proietti, invece, era un ragazzino tranquillo, l’aria imperturbabile, mai una parola di troppo. Si teneva sempre discosto, ma non era vero che non provava niente, era bravo solo a non darlo a vedere.
«Ce l’avete fatta», disse Testa strusciandosi le mani sui pantaloni.
Livio strappò un rametto da una pianta di finocchio selvatico e lo portò alla bocca.
«Pisciato dai cani, dritto su denti tuoi», disse lo Sgarbo e gli rifilò uno sguardo di compatimento.
Liviò sputò e si stropicciò le labbra sul braccio. «Maccheccazz», disse poi scaracchiando a terra.
Testalunga si passò una mano sul pacco. «Andiamo», disse.
«Cosa sapete che io non so?» chiese Giulio stringendosi nelle spalle.
«Cosa vuoi che sappiamo», disse Livio, «se ci diamo una mossa, lo sai anche tu, spurgo che sei. Sempre tardi arrivi».
«Ero a negozio».
«Ero a negozio», gli fece il verso lo Sgarbo, «seguitemi ora. Muoversi!» aggiunse secco e si incammino verso l’officina.
«Oh! Ma qua ci stanno i cani», provò a dire Giulio e si morse la lingua perché sapeva bene che certe cose era meglio tenersele in saccoccia.
«I randagi non fanno male a nessuno. Noi siamo più cattivi di loro, vero Testalunga?»
«Come no», fece quello tirandosi dietro Giulio per la manica del maglione.
Girarono intorno a quel che restava del fabbricato e si infilarono nei bagni esterni e confinanti con il bar tabacchi. Era buio, ma lo Sgarbo aveva con sé una torcia. Il fascio di luce beccheggiava tra i detriti, si infilava nelle bocche dei foratini, illuminava i sanitari incrostati di quelli che un tempo erano stati i servizi. C’erano due gabinetti, uno con la porta spalancata, l’altro senza. Lo Sgarbo rischiarò il primo e Giulio rabbrividì e cercò di coprirsi il naso con il collo della maglia. Era umido e freddo lì dentro, la lana ti si appiccicava addosso e l’odore di muffa una tagliola per le narici. Avrebbe voluto andarsene, ma ora era troppo tardi, non glielo avrebbero permesso.
«Per di qua» disse lo Sgarbo indicando il muro franato. «Usate gli occhi mentre scavalcate. È pieno di ferri arrugginiti, c’è rischio che ci lasciate una gamba.»
Usciti da quell’ammasso di inerti, l’ambiente si slargava. Il raggio di luce illuminò il vecchio bancone, la cassa, quattro tavolini di plastica, le sedie sfasciate. Sotto i piedi, cocci di bottiglie, bicchieri sbreccati, piattini e tazzine scricchiolavano cupe e facevano male, nonostante le suole, nonostante le scarpe.
«Dove stiamo andando?» chiese Giulio con la voce di chi sa che sarebbe stato meglio stare zitti.
«In paradiso», disse lo Sgarbo e direzionò la torcia.
Marianna Bindi era un’immaginetta senza corpo, pareva un santino. Una benda lurida le chiudeva la bocca, indossava ancora il grembiule di scuola.
«Cosa cazzo pensate di fare?» disse Giulio, fregandosene dello Sgarbo e di quei rinnegati degli amici suoi.
«Vola basso, ragazzino. Non te le hanno insegnate le buone maniere?» disse lo Sgarbo e gli puntò la torcia in faccia. Giulio si portò una mano agli occhi. «Me ne vado», disse, «dove cazzo pensi di andare, eh? Testa te l’avevo detto che messer coglione era meglio se restava a casa.»
Testalunga diede uno spintone a Livio che, per poco non finì lungo.
«È stato questo che ha insistito», disse.
Livio, come sapeva ben fare, rimase a bocca chiusa.
«Me ne vado.»
«Non ci siamo capiti, ragazzino. Tu non vai da nessuna parte, intesi?»
Giulio fece due passi storti verso la parete in rovina. Lo Sgarbo gli allungò un calcio di taglio sui reni e lo fece cadere in mezzo ai cocci.
«Cazzo fai, Sgarbo?» disse Testalunga.
Se avesse potuto metterla al dritto, gli era passata ogni voglia di stare lì dentro e di Marianna Bindi aveva sempre pensato che era una cessa. Non valeva la pena fare quella cosa là, non così. Mentre ci ragionava su, Livio, non visto, aveva raggiunto Marianna. Si era portato l’indice alle labbra e le aveva fatto cenno di stare zitta. Poi le aveva tolto la benda.
L’urlo fece trasalire lo Sgarbo, Giulio si portò una mano alle orecchie, Livio indietreggiò di due passi, quel vigliacco di Testalunga, approfittando del trambusto, si era bloccato davanti all’uscita. Poi arrivarono i cani.
tutte le fotografie di Lise Guillon.