un racconto di ???.
Penso che la ucciderei se le dicessi che non mi diverto granché quando vengo qua. Mi fa paura l’idea: sembra così fragile, a quest’ora della mattina.
Ha già sistemato la tazza da tè di sua nipote rivolta verso di me, per lei invece solo un bicchiere d’acqua e un porta pastiglie decorato.
Mi chiama sempre “giovanotto”, anche se ogni tanto le scappa il nome di Carla e diventa rossa dall’imbarazzo. Le manca più di quanto manchi a me. Ha la pelle raggrinzita sotto gli occhi e sulle dita delle mani.
Credo salti i pasti da un annetto a questa parte, è difficile ricordarsi certe cose dopo un po’.
Non pesa più di 20 scatole di scarpe impilate e non raggiunge la metà dell’altezza della pila. La sua colonna vertebrale è sempre più curva e si sta spegnendo giorno dopo giorno, ma penso che non le dispiaccia.
“Allora giovanotto, come va la scuola?”
Le ripeto che a scuola non ci vado più, che l’università costa troppo e che lavoro in una pizzeria del corso principale per mantenermi la stanzetta del cazzo dove dormo. Lei fa sì con la testa come per mostrare di aver capito, per poi chiedermelo un’altra volta. Io accenno un sorriso e le dico che devo scappare, che ho un pranzo importante e bla bla bla. Lei mi guarda strano e dice che va bene, per poi ricordarmi di tornare a trovarla la mattina seguente.
Andiamo avanti così da quando Carla non c’è più, ormai saranno due anni.
Mentre abbottono il cappotto provo a mettermi nei suoi panni. Smetto subito dopo. La saluto e mi richiudo la porta alle spalle.
Fuori fa un freddo cane e comincio a chiedermi il perché di quella balla del pranzo, almeno si stava al calduccio dalla nonna.
Decido di andare a mangiare in un fast food della zona di cui non farò il nome, ma una volta arrivato sul posto leggo con rammarico che il McDonald’s è chiuso per “ristrutturazione degli interni”. Che palle. Opto di ripiego per il digiuno: il kebabbaro più vicino sta a un chilometro e piove troppo forte, sono anche senza ombrello.
Muovo le gambe fino alla macchina un isolato più in là e apro la portiera, poi mi fermo, in piedi.
Carla sarebbe di sicuro orgogliosa.
Entro in macchina, chiudo la portiera e accendo la radio, che riceve solo piccole stazioni locali, come sempre appena esco dal centrocittà. Guido fino al mio condominio, apro il portone, salgo le tre rampe di scale che mi separano dal pianerottolo e finalmente varco la porta.
Come ricordavo, in casa ho finito sia pasta che scatolette di Rio Mare. Sono a secco, ma di sicuro non andrò a fare la spesa con questo tempo. Tolgo le scarpe e le lancio via: la scarpiera è troppo lontana, poi ha quel difetto per colpa di una vite, mi rovescio tutto addosso ogni volta che la apro. Cammino come uno zombie tra bagno e cucina, mentre faccio rimbalzare una pallina verde per terra e contro le pareti.
Sono appena le due di pomeriggio.
Mi siedo per terra, poso la pallina e mi gratto la testa.
Decido di mangiare e mi lancio verso il freezer, quindi scongelo nel microonde due etti e mezzo di piselli che mi ha regalato la nonna di Carla un mese fa circa. Li lascio nel microonde per molto tempo dopo i tre bip.
A dire il vero, tirerò i legumi fuori da lì solo due giorni dopo e li getterò per la puzza. Scusate, la mia malattia è molto noiosa. Esco in balcone e mi siedo a cavalcioni sulla ringhiera, ancora bagnata dalla pioggia.
Ora è uscito il sole, e tutto è verde.
Come la pallina, come sempre.
tutte le foto di Arch McLeish.