un racconto anonimo.
C’è gente che dice che vuol lottare e poi confonde il fischio d’inizio della partita con quello dell’ultimo minuto, e va a casa.
Stefano Benni
È aprile, e c’è nebbia. Non fuori – d’altronde, fuori chi ci sta? -, ma sul comodino e sul sofa.
La signora Armandi passa lo spolverino tutti i giorni, ma un po’ di nebbia rimane sempre incastrata fra i libri e gli scaffali, o peggio, sul fondo delle pentole. È da un po’ che si chiede che cosa sia, quel nuovo sapore nel riso, nel pesce. Lo devi assaggiare, per capire che è peggio del peggiore dei gusti: non sa di niente.
Questa nebbia, non ti fa vedere i contorni delle cose, né i programmi in tv.
In questi ultimi mesi, il signor Armandi è stato più volte sul punto di dichiararsi cieco, e spesso è corso dall’ottico: talmente spesso, e inutilmente, che al signor Armandi, i cui occhi funzionano alla perfezione, sono stati regalati degli occhiali, senza lenti. E una finta ricetta, per assicurargli che sì, è astigmatico.
A casa, la signora Armandi pensa che potrebbe appiccicare dei post-it, per ricordarsi com’è che si vive.
Per ricordarsi com’è che ci si sentiva, quando ancora si era svegli. Ma poi non riuscirei a leggerli, non li troverei in mezzo a tutta questa nebbia. È tutto sfocato, come nelle foto mosse. La soluzione al mistero è proprio quella, che tutto è in movimento. È lei, è la vita, che corre ovunque e le tocca la spalla. Le sfugge, va avanti, e lei proprio non riesce ad andare con lei. Sente dentro di sé tutto un movimento inespresso, una spirale che gira all’infinito, un potenziale che è “bravo, ma non si applica” proprio come suo figlio Gino.
Decide che si iscriverà a quella classe di zumba online, di cui le ha parlato la sua collega. Che si sa, che il movimento fisico fa dormire meglio la notte.
E Gino, invece, davanti ai limiti fisici del suo appartamento, ha scelto di non uscire mai dalla sua stanza. Almeno, quello è un limite su cui è lui ad avere il potere. Una volta era uno studente di ingegneria astronautica al politecnico, ora la roccia che c’è nel parco vicino alla fermata della metro gli interessa tanto quanto la cometa di Halley. Anche quello è uno spazio lontano, accessibile solo con una maschera che se levata, provoca morte istantanea.
Gino continua a chiedersi perché da mesi qualcuno lo stia obbligando a leggere una pagina bianca, quella che di solito quando apriamo un libro, saltiamo per correre a leggere le cose vere. Gino vorrebbe un titolo, un sottotitolo e un testo qualunque, ha persino smesso di desiderare le immagini.
Come se dovesse poi trovarci qualcosa, in quella pagina bianca.
Magari delle ambizioni, del tempo per riflettere e per capire cosa vuole davvero nella vita, come suggerisce un filosofo su instagram? Come se potesse dimenticarsi, che per crescere bisogna vivere.
Gino poi soffre per il futuro anteriore, per quei fatti che sono nel futuro, ma che siamo certi che si compiranno. E ne soffre perché non riesce a capire come possa ancora esistere un tempo del genere, il tempo di un sé futuro che avrebbe fatto, avrebbe vissuto se…
È difficile lasciarsi indietro il passato, ma molto più complicato lasciare andare tutte quelle forme future, inespresse, che un giorno sarebbero state, forse.
Magari.
E si chiede, come già qualcuno si era chiesto prima di lui: come si può guarire, se non si sente il tempo?
La signora Armandi lo vede giù, e si preoccupa. Forse quando lo avrà finito, potrà prestargli il libro che sta leggendo, il nuovo bestseller edito da Mondadori: “5 modi per capire se sei zen o apatico”. È a pagina settantuno, e gliene mancano altre cinquecento. Chissà perché non riesce a spingersi a sollevarlo dal comodino. Ma la differenza già la immagina, è la differenza fra marzo e novembre: tutta la differenza del mondo.
E intanto, i giorni passano e la nebbia non scompare.
Qualcuno l’ha chiamata “l’incapacità di ricordare”, perché il nostro cervello non ha più nulla da mangiare per cena. Ma non è affamato, e non serve a niente impiattare il nuovo album del nostro gruppo preferito, o tirare fuori dal forno quel film candidato agli Oscar: ha perso l’appetito. Il servizio meteorologico in tv dice che questa nebbia è nelle case di almeno tre persone su cinque, e che non durerà per sempre. “Forse domani riusciremo a liberarcene”, dice il presentatore. Il signor Armandi si alza dalla poltrona per prendere il vocabolario, vuole scoprire il significato di quella parola ormai lontana nel tempo, caduta in disuso: “domani”. Era un avverbio, e indicava il giorno seguente a quello di oggi.
Vorrei che oggi avesse la durata di questo racconto, per passare subito a quel domani.
Ma questo oggi si prolunga, e finisce per superarci. Noi moriamo, e oggi è l’anniversario della nostra morte.
La fine del mondo non è un meteorite, o un tornado: è la neve che cade lieve, giorno dopo giorno, coprendo ogni cosa.
Come la nebbia.
tutte le foto di Regina.