La città tra i due fiumi

un racconto di Silvia Penso,
tutte le fotografie di Linda Leveghi.

Anni dopo, lei, l’avrebbe chiamato Lo Strappo.

Era accaduto mentre in sottofondo la voce della giornalista annunciava l’ennesimo genocidio, popoli senza valore, sacrificati agli interessi, alla terra, alle risorse che altri desideravano. I corpi magri immolati alle bombe, le ossa divelte, squarciate, fuoriuscite, le viscere esplose, la vita sepolta sotto il cemento spezzato dai colpi, la fame, la sete, usate come una forma di tortura.

Prima ancora lui se n’era andato. Lei, in principio, era stata felice delle giornate da fare o disfare, da sola, a piacimento. Poi erano subentrati il senso di perdita, quella che chiamano malinconia, la paura sociale della solitudine, l’ansia di sprecare i giorni, quella somma di ore già sgretolate dagli obbligatori riti quotidiani, abdicate alla volontà.

Era avvenuto allora, Lo Strappo.

Una sensazione di follia, di ossessione, di tarlo nel cervello che le aveva fatto sbattere la testa contro il muro, urlare senza voce, soccombere pur detestando la resa, partire, conquistare distanza al di là degli oceani. Lasciare tutto, per non lasciare niente: d’incompiuto, d’intentato, per poter dire C’è stata una volta che.

Tra le costruzioni basse e i confini a perdere della jungla intricata, la realtà aveva riacquistato un suo senso, o almeno l’accettazione della sua assenza, e avuto indietro il tempo riconsegnato alla libertà del corpo, dilatato alla vita. Luang Prabang, in mezzo ai due fiumi. L’immenso aggrovigliato Mekong, il Nam Khan. 

La casa era bianca, due piani, ampie finestre di luce, vasi alti come persone posti negli angoli, mobilia e dormeuse d’altri tempi, enormi zuppiere d’argento massiccio dietro vetrine art decò, pavimenti a scacchi neri e bianchi, porte scure intarsiate di madreperla, scene d’amore e di danze, di guerre, rilievi scolpiti sulle nervature del legno a tratteggiare le forme di re, sudditi e ballerine uniti insieme in epiche trame, immortalati nella fissità del disegno. La stanza profumava di sandalo e il giardino di manghi, di pepe, di un effluvio sconosciuto e soave, fiori bianchi, Frangipane Plumeria. Ogni sera la pioggia ne staccava steli e petali che si posavano, librando nell’aria, sulla terra e nell’acqua davanti alle imposte e stropicciati dallo sconquasso di gocce emanavano sentori di sesso, di vita, di macero, collegati per sempre al rumore attutito su foglie dello scroscio repente.

Nel giardino rigoglioso gli ospiti si riunivano al tramonto per cenare, zuppe piccanti e coriandolo, noodles scuriti dalla soia, erba cipollina, spiedini indorati di cardamomo. Il capitano, La vecchia con i suoi turbanti, la bruna Mary capelli alla maschietto. Se ne stavano sotto il grande albero e sotto la malia delle voci salmodianti dei monaci provenienti dal vicino Wat Xieng Thong, circonfusi dei roboanti cantilenii che riempivano l’aria di Ohhhhmmmm ancestrali e ritmici, mistici, perforando densi il caldo umido della sera, la pesantezza acquatica dell’aria, e morendo in finali, dispotici gong. Poco più in là vibravano inconsueti e gutturali i suoni provenienti dalla strada principale, sede del mercato notturno, epicentro della città.

Il vociare sovrapposto di contrattazioni, la merce esibita, urlata, accenti nasali farsi megafono della riffa.

«Capitano, racconti» chiedeva La vecchia «racconti alle ragazze dei tempi di Ho Chi Minh e della strada da cui facevate passare i rifornimenti» e quello narrava, arrotolando fumo e parole, con alito d’alcol, «Ancora un goccino?» lo interrompeva La vecchia, e intanto gli posava davanti al viso di rughe verticali un liquore d’un giallo intenso, d’urina, dove affogava, lingua in fuori, un serpente. E l’uomo, il capitano, mesceva liquido e trama, storie d’imboscate e di notti senza luna, notti in cui gli era capitato, diceva, di «camminare sui cadaveri, nei villaggi, tutti bruciati, poveri Cristi, coi pezzi di stoffa ancora attaccati a quella che un tempo era stata la loro pelle», pelle amata chissà da chi, pelle che non avrebbe avuto più carezze, pelle persa, riarsa, pelle-carbone, per la guerra degli altri «è sempre una guerra degli altri, figlia mia», finiva La vecchia, quando gli occhi di Chiara si facevano lucidi per i racconti, il sonno, il liquore di cobra, il cobra stesso, povero cristo anche lui.

La vecchia invece era nata a Ginevra da famiglia italiana, aveva viaggiato attraverso i deserti vestita da uomo, tunica e turbante a coprire i capelli biondi, cavaliere del deserto al seguito del suo amante Slimene. «Com’era bello» ripeteva sognante La vecchia, occhi al cielo, sguardo perso nelle sue rimembranze, «bellissimo, capelli crespi e occhi neri dalla forma della mezza luna, quello sì che era amore», sospirava, «sotto le volte stellate, tra le dune, lui intimava e io non potevo che obbedire», socchiudeva le palpebre immergendosi forse ancora dentro un piacere specifico, anelato, solo suo, dentro visioni, di loro nudi a rotolare al crepuscolo nell’ocra del sole, sul calore che man mano abbandonava le sabbie, abbandonati anche loro, «era un sortilegio, era stato di sicuro un sortilegio» che l’aveva rapita alla sicurezza della casa paterna, al collegio. Slimene occhi di fuoco nel deserto. «Poi, come per tutte le cose» continuava nelle serate di nostos «ciò che ci accade comincia lontano, non lo puoi vedere, è ananke. Fato. Necessità» diceva «per noi era iniziato giorni prima, quel fato, sulle montagne dell’Atlante che non avevamo mai visto, dove piogge infernali come nastri ingrossati di acqua erano convogliate fino a ingravidare il fiume che scorreva vicino alla nostra casa, in cui finalmente, dopo tanto aver vagato attraverso le oasi del Souf, avevamo trovato la pace». Era morto così, Slimene, affogato nel deserto, piegato ad un amniotico destino. E lei poi andata via, impazzita. Solo qui, nel sudest del mondo, aveva riconosciuto infine qualcosa che assomigliava alla serenità, alla calma, non alla vita. Mary invece non parlava mai. Sembrava assente, eppure aveva occhi neri intelligenti e mobili e pensieri scattanti sotto le ciglia, pupille di brace. Non sapevano niente o poco di lei, nella casa, ma a volte provenivano rumori dalla sua stanza e colpi e vociare che avresti detto di uomini. Era stata lei ad avvicinare Chiara dicendole «Vieni con me a vedere la questua dei monaci». Era il calar del sole, cominciavano i canti e l’aria era, come sempre la sera, densa di acqua, profumi, e i suoni ripetuti, ossessivi, straniavano in testa pensieri e umori, sentori di una dilaniata sensualità. 

Insieme erano salite sul colle dove secoli prima era stato eretto uno dei tanti templi della città e da lì avevano guardato le stelle nominandole, indicandole. Avevano condiviso ricordi e riconosciuto un’essenza, un nucleo centrale nel mezzo delle rispettive diversità o forse semplicemente un odore, una biologia. Le cicale stridevano nella notte ferma dentro cui Mary l’aveva baciata, e sotto le foglie giganti le mani s’erano toccate e poi erano andate altrove, in cerca di un piacere che Chiara non aveva mai sospettato, rinvenendo in se stessa una ragazza nuova, che mai s’era saputa. Mary, sapiente, le aveva aperto le gambe e affondato il viso senza chiedere, senza dire, ma sapendo come farlo, scoperchiando della vita un segreto che era quello di vivere, vivere e basta e provare, andare, e non avere paura mai più. La lingua di Mary, la mano di Chiara sui capelli di Mary. Il buio appartato. I contorni d’ombre. Gli ansiti soffocati. Le preghiere a far eco lontane dentro le stanze ariose dei bonzi. Lumini sulla strada in salita.

All’alba, i primi monaci erano scesi dalle porte dei templi alla spicciolata, in fila indiana, lenti, mantra sulle labbra, tuniche arancioni, lunghi rosari di legno sui petti e in mano le ciotole vuote che attendevano il riso dei cuori caritatevoli, come ogni giorno, come ogni aurora. Li avevano seguiti durante il percorso, in mezzo ai clic dei turisti che rendevano scontata anche la magia di quel rito. Foschia. La pioggia sottile tamburellava sui tetti, sulle foglie, sulle teste rasate dei monaci, su Chiara e su Mary, creando tonalità differenti e dipingendo ricordi futuri in quadri atmosferici. Avevano allungato il passo al fine di raggiungere asceti fanciulli avvolti nel saio, per donargli caramelle e quelli a loro sorrisi sdentati. E avevano riso, Chiara e Mary, rincorrendosi, come fossero anche loro bambine risucchiate alla spensieratezza perduta, prestate all’infanzia del giorno non ancora arrivato, acerbo anche lui come il sapere degli uomini.

Era così che Lo Strappo, avvenuto lontano come le piogge sui monti dell’Atlante, aveva creato un pieno, che erano Chiara e Mary e Luang Prabang, la città tra due fiumi.

editing di Alessandro Tesetti.

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