un racconto di Fabio Loperfido,
editing di Alessandro Tesetti.
Suona la sveglia ed ecco servita l’ennesima colazione di ghiaccio e pane. Il panorama è sempre lo stesso: anche stanotte la terra non è esplosa. Era stata anzi una notte particolarmente calma, avevo sognato mia madre in un bellissimo vestito a fiori. Unica pecca era che in quel vestito a fiori, i fiori erano già appassiti. Mi mancava. Non tanto la sua figura, il suo corpo, il suo vestito, quanto piuttosto l’idea che avevo di lei: il caldo di un termosifone delle scuole elementari, con fuori l’inverno, e dentro la vita: vita che non ho avuto più modo di incontrare. Prima del fronte, chiaramente.
Erano bei termosifoni. Era bella, mia madre. Caldi il giusto, duri anche troppo quando la vita ti faceva sbandare e allora era anche loro sacrosanto dovere farti male. E che male. Chissà se mia madre mi pensava con la stessa frequenza. Chissà se quello che pensava era suo figlio o l’idea di suo figlio. L’idea di un figlio, quello mai avuto e quello segretamente rimpianto. Quello che io e i miei disgraziati fratelli non eravamo mai riusciti a essere. Ovviamente una madre non può dire certe cose. Però le pensa, e nei sogni rimpiange e piange per quell’idea di un figlio che potesse darle quello che invece non avrà mai.
È dura qui al fronte. Sempre le solite cose, le solite chiacchiere, i soliti visi.
Nessuno che abbia mai il buonsenso di farsi saltare la testa per evitare di rivedere le solite facce ogni maledetta mattina. Un benedetto funerale ogni tanto è proprio il diversivo che fa amare un po’ la vita al fronte. Anche il detersivo la fa amare, a dire il vero. Il detersivo della lavanderia è di quelli industriali. L’odore ricorda il rabarbaro . Ma non l’erba. D’altronde chi mai potrebbe avere in mente il sapore del rabarbaro? Dai su siamo seri. Ovviamente ricorda il suono della parola. Una delle parole più brutte e al contempo più sottovalutate della lingua italiana. Dovrebbero farci una catena di gioielli con quel nome. O almeno qualcosa che vende sdegnosamente tanto, una di quelle piccole cagate da gente ricca o almeno gente che vuole sentirsi ricca. Tipo chi mangia le mele. Solo gli idioti e chi è in disperata ricerca di fama mangia le mele. Fanno davvero schifo.
Comunque si parlava di detersivo. Il detersivo ricorda il rabarbaro perché è un intruglio senza fine, quando affondo le mani nel saccone mi sembra di tornare bambino nella vasca delle palline colorate. Quella vasca sembrava infinita, e il bello stava proprio nel lasciarsi sprofondare credendo di poter non riemergere più, godendosi poi la sensazione di risurrezione quando riappariva la luce. Come morire e poi rinascere in soli 4 secondi. Da bambini era davvero tutto più semplice. Ugualmente la mano affonda nel rabarbaro e riemerge, credendosi di nuovo viva dopo essere stata sepolta e aver vissuto nel suo piccolo il buio eterno. Ecco diciamo che succede più o meno la stessa cosa, solo che serve un po’ più di immaginazione. Purtroppo la lavanderia è aperta solo tre giorni a settimana: gli altri quattro mi tocca guardare questi visi smunti che aspettano soltanto un proiettile per potersi immergere nel rabarbaro. A livello definitivo però.
Dopo la colazione, quando non c’è il sollazzo rabarbaresco, si inizia la routine carnevalesca. Con anacronistico orgoglio si grida il nome del proprio battaglione e a turno si alza il pugno al cielo. Mi ricorda gli antichi romani, anche se rispetto a loro penso che il confronto non regga. Assomigliamo molto di più ad una banda di selvaggi nei pressi dell’odierna Tarvisio circa 2000 anni prima di Cristo. Ululiamo credendo di sentirci più forti rispetto al nemico. Parentesi molto divertente, che in realtà non è nemmeno una parentesi ma proprio il succo concentrato di questo concentramento di gente al fronte: il nemico nessuno l’ha mai visto. Ce lo descrivono nelle sessioni di educazione politica subito dopo la routine carnevalesca, però non abbiamo la più pallida idea di come potrebbe apparire.
Le sessioni di educazione vengono chiamate tra di noi anche sessioni di masturbazione.
Principalmente, il motivo è che molto semplicemente in queste due ore ci si esalta a vicenda come scimmioni nella savana, o come bodybuilder davanti ad uno specchio (esiste davvero una differenza?). Non mi dispiacciono, alla fine è bello lodarsi a vicenda attraverso l’annientamento di un qualcosa che forse nemmeno esiste. Arriva poi il momento del rancio: zuppa di legumi, torta di formaggi e pane in cassetta della Conad: più o meno quello che ho mangiato per tutta la vita. E che vorrei mangiare per tutta la vita. Sfido chiunque a trovare un pasto tanto lauto quanto mai stancante. Forse solo la zuppa del volga ci si avvicina. Dopo mangiato ci si avvia a fumare almeno tre sigarette di fila: non ci sono quasi mai momenti per fumare e quindi è necessario approfittarne. Qui al fronte arrivano solo sigarette di merda c’è da notare, ma i nostri polmoni sono talmente stanchi di respirare aria desertica che preferiscono inquinarsi per non pensare. Esattamente come le nostre stanche teste! Così come le nostre stanche madri, però meglio non pensarci.
Segue poi la lunga guardia. Avanti e indietro per la steppa con una baionetta. E li si dà il via al grande torneo dei rovelli scacciapensieri. Musica: vietata. Radio: bandita. E allora ci si arrangia come meglio si può. Chi impara a memoria la divina commedia, chi canta album interi di Lucio Battisti (anche se da quell’orecchio non sento). I più sfortunati cadono tragicamente vittime di sé stessi. Tragicamente per loro, meno per noi: magari domani si varia con una bella celebrazione.
Arriva poi il rancio serale, ancora fagioli, questa volta con la cipolla. Suor Ernesta e Padre Alberto quando sono di buona giornata ci mettono pure l’aceto: Oh che goduria l’aceto di Suor Ernesta! Poi ogni tanto ci cantano qualche canzone popolare, come Yo no Puedo Mas oppure A te te sembra un ciambellone. Impazziamo tutti, entriamo in un turbine euforico che si spegne soltanto quando le luci della mensa cominciano a diminuire d’intensità. Allora scendiamo dai tavoli e ci avviamo verso le nostre brande. Tempo delle ultime tre zaitelle prima di abbandonarci ai nostri soffici cuscini.
Questa è la nostra vita da sei mesi a questa parte. E probabilmente non avremo occasione di chiedere altro al misericordioso e buon Dio: la guerra non dà cenno di fermarsi, anche se qui nessuno ha mai sparato un colpo. Probabilmente noi del gruppo “Pomicotti al fronte” abbiamo stabilito ogni tipo di record. Il più clamoroso è senz’altro il numero di morti senza aver combattuto: già 12. Gianni, Tommasone, Trikicco e Gianviscetta, ne ricordo solo alcuni.. Non si compiangono troppo, come ho già detto la morte è occasione di svago. Per loro e per tutti. È come se ci fosse un tacito accordo per mantenere alto il morale: ogni tanto qualcuno è tenuto a creare un diversivo. Che fine però. Alla fine ad ogni modo si sta compiendo il fine per il quale siamo partiti: morire per la patria e per tenere in vita i nostri compagni. Solo che nessuno si sarebbe mai aspettato questa modalità.
Dal segretario del gruppo “Pomicotti al fronte” è tutto, spero che abbiate potuto gradire l’aggiornamento: i figli, e i figli dei vostri figli non stanno morendo invano. Stiamo preservando il benessere di questa nazione. È un duro lavoro, ma qualcuno lo dovrà pur fare. Qualcuno dovrà pur morire.
tutte le fotografie di Elisabetta Gatti.