un racconto di Earnest Fitzgerald Salina.
George si risveglia dopo un sogno peculiare, che sembra appestare le sue notti da un po’ a questa parte.
Sta guidando lungo l’autostrada, verso l’Università. Da ore. Per ore. Intorno a lui la California ha perso la sua struttura, è illuminata da geometrici tagli di luce metafisica. Quando si sveglia, la sua comune routine di umanizzazione è impedita da un’inusuale immobilità dei suoi arti. Dalla mancanza di indolenzimento che, necessariamente, con l’età, solitamente segue certe attività.
Kenny. Scomparso trascinandosi via piccoli detriti della sua esistenza come un’onda dal bagnasciuga.
Ogni mattina, George si sveglia e impiega cinque minuti a diventare George. Chiunque sia prima è quella cosa che siamo tutti prima di essere, quello che siamo nei jumpcut che collegano la nostra performance di scena in scena, di camera in camera.
Sono anni che George ha smesso di essere una camera per mancanza di profitto ed eccesso di spese.
Ultimamente la sua filmografia è amatoriale e rilassata: il proprio volto la mattina, nuovamente
umano; la sua macchina, i suoi colleghi, la meticolosità con cui certe lezioni vanno ripetendo gli stessi concetti negli stessi modi. Non c’è più nulla di professionale nella registrazione di questa vita, se non la disperata voglia di un vecchio di lasciare un’eredità. A chi, ci si potrebbe chiedere.
George è solo nella casa e, malgrado il suo lavoro, nella dottrina.
Chi ritroverà i chilometri di girato prodotti dalla sua mente sarà un estraneo e li guarderà con occhio professionale, quando sono fatti per essere compianti e forse un po’ compatiti. Eppure. A una certa età si può dare sfogo a certe forme di eccentricità.
L’immobilità sembra risolversi ma il problema resta, in un mancato ticchettio interno di arti e ossa che non funzionano bene. Come può indossare il suo abito umano se l’abito umano stesso si va anchilosando in un cigolio animatronico?
Il fetore arriva subito dopo.
Deve essere stato il movimento elettrico dei suoi arti a far salire l’orrendo puzzo estivo cimiteriale dalle pieghe delle lenzuola. George conosce bene di cosa si tratta perché è l’ultimo ricordo materiale che ha di Jim. È una di quelle cose che relega a quei momenti tra le scene in cui è senza essere. In questi momenti il puzzo lo assale come se Jim fosse ancora di fronte a lui, in una piccola foto di ceramica, in un caldo californiano che evapora i sensi, in una finta città di marmo con case di famiglia e file e file di appartamentini e l’onnipresente odore dolciastro della morte.
Quando i pochi che si curano di queste cose, si curano di questa cosa in particolare, lui risponde sempre che “il suo ultimo ricordo è una vita”, ma quando lo dice è George. Il vero ultimo ricordo aspetta che George gli scivoli dalle ossa per assalirlo agli angoli, tra i movimenti di camera.
E, con una puntualità assurda, assieme al ricordo arriva la rabbia, perché, come ripete nelle le sue amatoriali video-lezioni che si alternano meccanicamente a rota, crescere nell’odio non genera che altro odio.
Odio che a stenti cerca di essere produttivo come quello che l’ha generato, quindi pure un odio di scarso valore. A nessuno interessa particolarmente l’Odio di Zio George e va bene così. Neanche a George interessa così tanto. Ci vuole un po’ perché accetti di essere morto. Per qualcosa che ci viene detto essere la morte più misericordiosa, si sta tirando un po’ troppo per le lunghe. Gli erano stati promessi ancora pochi istanti di spasmi muscolari ma, a quanto pare, era una promessa vana: il corpo è ancora qui, cadaverico, motorio, umano per abitudine. Solo.
Si alza, si veste.
Indossa fieramente il suo nome come un soldato indossa l’uniforme per un ultimo saluto. Il feretro di George Falconer resta in piedi davanti alla finestra per guardare un’ultima volta gli Strunk. Quella che spera essere l’ultima volta, perché se no si rischierebbe di scivolare nel ridicolo.
Gli Strunk. Saranno loro a trovare il suo cadavere, forse.
George non può saperlo, perché a quel punto non sarà più neanche quello che è quando non è. Li immagina quando il puzzo immondo raggiungerà la strada e li attirerà fuori dalla loro scrupolosa tana. Forse è questo il peggio. Perché morire, è una cosa che succede. Lasciare un’eredità di esperienze ineditate, un armadio di frame e fotografie mosse, documenti da mani tremolanti, ultimamente pure fuori fuoco, è il dramma di chi resta. C’è chi muore e chi scrive della morte altrui, e per quanto George potrebbe scrivere della morte propria, sembra quasi scortese struggersi delle proprie pene.
George e la sua Gente hanno imparato a loro spese che il tempo della commiserazione non è a loro disposizione.
Sembra quasi ridicolo – per non dire umiliante – piangere e struggersi sulle proprie pene dopo aver attraversato Berlino nel ‘33: non si può essere chi non si è, in ogni momento della nostra vita siamo solo esattamente chi siamo. Quindi no, né George, né chiunque sia George quando non è George, piangeranno sulla propria morte. La possibilità documentaria non sarà un tributo struggente, solo l’ennesimo sguardo dalla finestra sulla casa gotica, americana degli Strunk.
E gli Strunk non si struggeranno.
La signora Strunk rimarrà pallida a fumare al tavolo della cucina mentre il marito, brillo, blatererà a vuoto opinioni vuote sulla casa vuota del loro vicino. Benny, forse, sfrutterà questa pausa dal controllo della madre per massacrare altre bilance dietro i bidoni della spazzatura. Benny, forse, ne parlerà dallo psicologo tra quindici anni e questa sarà la sua eredità.
Perché George, in fondo, non è preoccupato della propria eredità. Il mondo e Charley sono la sua eredità, ed i suoi studenti e la sua Gente, e chilometri e chilometri di bobine di sguardi dalle finestre. La rabbia resta sull’inutilità dello sforzo giornaliero di indossare le vesti dell’Umano quando nella morte a trovarlo saranno le vittime delle sue inumane fantasie.
La morte gli offre una nuova prospettiva sul suo vestito George. Morire dopo la giornata di ieri sembra ancora meno dignitoso che morire Umano. Non che gli interessino le altre offerte della morte: il panismo storico con cui lo sta tentando, stuzzicando le papille dell’autore e del professore e dell’egocentrico.
Ma la sua mente è occupata dal suo nome.
George è qualcosa di cui va incredibilmente fiero. Un abito su misura, se vogliamo, in taglio anglo-americano, intento a proteggere e armare quel grumo di impulsi elettrici e cavi consumati che costituiscono la sua inumanità.
È mezzogiorno e George prova a mangiare e poi ci ripensa: sembrerebbe sciocco sporcare una morte più pulita del sesso. E poi prova a volare, con scarsi risultati. Prova a modellare il proprio corpo ed è deluso dalla scoperta che la mollezza dei suoi arti non è molto cambiata. Una morte noiosa, quindi, come i suoi incubi di eterno pendolare. Un giusto contrappasso per aver avuto la presunzione di narrare la propria vita come se fosse interessante.
E poi finalmente cede alle lusinghe della Storia e si lascia dare una sbirciata al Passato, alla tavola sinottica del mondo. La apprezza immensamente, per essere uno che ha passato la vita a documentare i fotogrammi della Storia stessa. Questi sono più professionali, ma i suoi sono intimi quindi forse va ancora meglio. Tutto in tutto, la Storia si rivela essere scritta in Polari, quindi è nato un po’ troppo tardi per capirci qualcosa. Le immagini però sono carine.
Intorno alle sette di sera, George si ricorda di essere in decomposizione e comincia a chiedersi se stare fermo al Sole non velocizzi il processo.
Ma poi il Sole tramonta del tutto, e George è lasciato, per la prima volta, senza il bisogno di essere George per nessuno, ad aspettare la Fine. Improvvisamente, George sembra uno spreco di tempo. La fatica messa nella manifattura della propria felicità sembra quasi ridicola quando la sua vita finisce nella solitudine e nell’attesa. Quando la sua eredità è già in piedi, e per la gente importante questo giorno non è mai esistito. Certo, sempre meglio che essere dottori o rendere fiera la propria madre.
Il feretro di George viene deposto assieme ai suoi vestiti alle nove di sera, e ciò che George è quando non è George lascia la sua abitazione con addosso un lenzuolo. Ha brevemente considerato la possibilità di indossare quei pochi abiti di Jim ancora stipati al fondo del suo armadio, ma poi era troppo ridicolo. Quasi irrispettoso.
La Storia si è rivelata essere noiosa qualche ora fa, e adesso il suo cervello in cortocircuito sta pensando solo a una giusta morale per la sua storia. Forse è a questo scopo che gli sono state date queste ore in più.
A vuoto: George è troppo vecchio per le morali.
La sua vita finiva perfettamente, pateticamente, gloriosamente ieri notte nel suo letto, per ictus. Tutto questo esperimento, di chiunque sia stata la colpa, sembra piuttosto futile, così George, o chiunque sia George quando non è George, nel suo lenzuolo, prende la macchina e guida verso l’alba.
all pictures by Jennifer Latour.