Il giorno in cui sono diventata una donna

un racconto di Artemisia Buonerba
editing di Alessandro Tesetti.

Ricordo con precisione il momento in cui sono diventata una donna: era un tempo dal sapore dell’infanzia, che nella mia memoria coincide con quello di strudel appena sfornato e Apfelsaft rigorosamente contenuto in bottiglie di vetro, in cui le giornate si stemperavano nella sera senza noia né imprevisti. Il corso dell’estate si srotolava fluido con la monotonia che solo i bambini possono apprezzare. L’evento che spezzava lo scorrere inalterato delle cose era il sabato, giorno che attendevo con trepidazione a partire dalla domenica di ogni settimana. 

Era infatti in quell’occasione che venivano a casa gli ospiti più venerati: gli amici di mio fratello.

Essi erano per me Divinità minori, splendenti nei loro vestiti trasandati, nelle loro risate baritonali, persino nel loro odore acre di adolescenti. Li adoravo con la discrezione e la deferenza derivanti dalla mia condizione di sorella minore, mi bastava il ruolo di spettatrice trasparente per aderire alla mia concezione di felicità. 

Talvolta qualcuno, più per fare bella figura con la padrona di casa più che per reale interesse, mi rivolgeva qualche qualche pallida domanda. Quelli erano i momenti più belli ma anche i più temuti, perché non appena provavo a rispondere la bocca mi si riempiva di sabbia, le guance mi si accaloravano e la lingua mi sembrava una biscia inerme nella cavità della bocca. Come quella volta che Matthias (il mio preferito non di meno) mi aveva chiesto: «Qual è la materia che ti piace di più?» e io sono rimasta muta come un pesce. 

“Maledizione, la so questa!” avevo pensato detestandomi, “Italiano! Italiano!”

Niente da fare, tutto ciò che ero riuscita a produrre era un belato balbuziente che io stessa non sarei riuscita a decifrare. Ma il ragazzo (che a dire il vero, aveva a malapena prestato attenzione alla sua stessa domanda, figurarsi alla mia risposta) era già tornato a giocare ai videogiochi con i compagni.

Non ero uscita dalla camera per diversi sabati, dopo quella figuraccia. 

Ma quell’anno no, quell’anno non sarebbe successo. Avevo stilato tutte le possibili domande che avrebbero potuto farmi e mi ero ripetuta allo specchio tutte le risposte. Volevo dimostrare che adesso ero grande, sarei andata in seconda media a settembre dopo tutto, ancora un anno e poi sarei stata liceale come loro. 

Domanda ipotetica 1: “sai chi è il presidente della Repubblica?” 

Risposta ipotetica 2: “Napolitano” (Appunto: aggiungere sguardo molto serio) 

Domanda ipotetica 2: “Cosa stai leggendo adesso?” 

Risposta ipotetica 2: “Il Barone Rampante di Calvino” (Appunto: enfasi su “Calvino”, solo il cognome, per rendere evidente la familiarità con l’autore — di cui in realtà non sapevo nulla se non che il titolo della canzone Il sentiero dei nidi di ragno di Low Low derivava da un suo libro) 

Ne avevo stilate più o meno 70 di quelle domande-risposte, le avevo ripassate per giorni per tutta l’ultima settimana di scuola. Ero pronta per l’inizio delle vacanze, ma, soprattutto, ero pronta per quel primo sabato di fine giugno. 

Quell’estate faceva un caldo tremendo — come sempre a Bolzano —, i flebili aliti di vento che avrebbero potuto darci un briciolo di sollievo dall’afa del giorno si arenavano alle montagne, disposte a cerchio intorno alla città, il caldo quindi la faceva da padrone insidiandosi, subdolo e appiccicoso, fin dentro le stanze delle abitazioni. Le strade erano per lo più deserte, la gente preferiva rintanarsi in casa davanti ai ventilatori, gli unici coraggiosi uscivano al massimo per una rapida commissione al supermercato o alla farmacia, rimandando tutte le commissioni non essenziali alla mattina presto del giorno seguente. 

Quel giorno in particolare, quel sabato, l’aria ristagnava pigramente nelle stanze lasciandoci la bocca asciutta e l’animo fiaccato. Mio fratello ed io avevamo presto rinunciato alla cosiddetta decenza tanto predicata da nostra madre, e ci aggiravamo per casa coperti con non più del tessuto necessario per evitare i rimproveri. Cresciuta in una famiglia fortemente cattolica, ci ha riempito le orecchie fin dalla prima infanzia con termini come pudore, devozione e compassione, che aveva addirittura imparato in italiano per essere sicura che li avessimo ben a mente. 

Per casa girava sempre truccata, vestita di tutto punto (“non si sa mai chi potrebbe suonare alla porta, non possono mica trovarmi in pigiama”), non si faceva mai sfuggire un’imprecazione, né in tedesco, né in italiano. 

Finalmente arrivarono gli amici di mio fratello, non stavo più nella pelle per l’emozione. Come al solito, dopo un veloce saluto a me e mia madre, si fiondarono rumorosamente in salotto. 

Io mi accucciai strategicamente nell’angolo della stanza, apparentemente intenta a leggere un saggio (quanto volevo che mi vedessero come una ragazzina intelligente e colta) ma in realtà con l’attenzione ben incanalata verso il loro Olimpo di patatine, bibite e videogiochi. 

Rumore di una birra sbattuta con decisione sul tavolino. Risate di approvazione degli altri, altro clangore di bottiglie. 

Anche questo mi riempiva di ammirazione: il loro uso esperto delle parole italiane proibite, per me simbolo evidente della loro appartenenza all’inaccessibile mondo degli uomini. A volte me le rigiravo in bocca, provavo a ripeterle a fior di labbra, nella speranza di assimilare per osmosi un po’ di quel mistero fascinoso che esercitavano loro su di me. Le ore passavano accompagnate dal ronzio petulante del ventilatore acceso a quattro. 

Mutti e Andrea erano usciti (tra sonore proteste del secondo) per comprare il pane di segale per la cena alla Backerei dall’altro lato della strada. Il tempo per me invece era scandito dall’attesa delle 17, orario in cui avrei finalmente potuto mangiare la merenda (momento altamente clou della mia giornata). 

“Um 17 Uhr, net friar mochn, schuscht isches ni worm” (=Alle 17, non prima, che sennò è troppo caldo e ti fa male) si era raccomandata la mutti. 

Mi mordicchiavo le unghie, fissando l’orologio. Era un periodo in cui la fame pungeva a tutte le ore e dovevo trattenermi per non ficcare la testa nel frigo ogni mezz’ora. 16:57 16:58. Già pregustavo la croccantezza della sfoglia assortita con la morbidezza delle mele cotte. 16:59. Acquolina in bocca, occhi sulla lancetta dei minuti. 17:00! 

Mi alzai di scatto, affrettandomi ad attraversare il soggiorno senza perdere di vista l’obiettivo: la cucina. Passai. 

Nel movimento, la canottiera si sollevò quel tanto che bastava per scoprire una striscia di pelle abbronzata appena sopra l’orlo delle mutande. Non ci diedi peso, chissà quante volte era già successo, senza contare il fatto che ero abituata ad essere una presenza appena registrata passivamente dagli amici di mio fratello. 

Prima avvertii il silenzio, poi dal divano alle mie spalle, una frase a mezza voce: «Sai che mi sa che il gol mi va di farlo ma non a Fifa?» 

Chiaramente non capii il riferimento sessuale, ma, per la prima volta, le loro risate che scoppiarono, complici, dopo la battuta, mi giunsero alle orecchie non dolci e fresche come al solito, ma sguaiate e minacciose. 

Mi fermai, incerta. Una sensazione di disagio sconosciuto mi si arrampicò dalla schiena alla nuca, all’improvviso la stanza divenne molto più calda di come la ricordavo e soprattutto ebbi la netta sensazione di essere guardata. 

Non solo vista di sfuggita, come ero abituata, ma propriamente guardata, soppesata, immaginata, sventrata con sguardo attento, famelico. 

Era quello sguardo corale, che ormai percepivo come cosa fisica e tangibile, che mi faceva formicolare tremendamente la nuca, che mi faceva venire voglia di farmi piccola piccola, di scomparire. Mossi la testa di scatto come per scacciare una zanzara nel tentativo di eludere quell’orribile sensazione. Fuggii in cucina, dove il formicolio si dissolse presto con la gioia dello strudel. 

Il tutto non era durato più di una manciata di secondi, il tempo necessario per incatenare il tempo della purezza di bambina all’angolo del soggiorno, poco prima delle 17.

tutte le fotografie di Elisabetta Nari.

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