Il frizz

un racconto di Elisabetta Carbone,
editing di Benedetta Marinelli.

L’ora ideale in cui fare la spesa in estate è dopo pranzo, soprattutto perché i condizionatori, senza l’ingombro di troppe  persone, fanno tutto il fresco che devono fare.

Dopo corsie e corsie di detersivi e bagnoschiuma, finalmente i surgelati: d’istinto avvicino la fronte sudata agli sportelli verticali opachi di freddo. Prendo i ghiaccioli con il frizz, pago ed esco.

In auto, estraggo dalla scatola ancora gelida un ghiacciolo, che in un paio di strappi sguscia dalla carta collosa. Il sudore si addensa sotto le ascelle, nell’ombelico, nella piega bassa delle natiche. Metto in moto con il ghiacciolo in bocca: il rombo del motore riempie l’abitacolo e il ghiacciolo anestetizza lingua e denti diffondendo il gusto liquoroso dell’amarena. Riesco a mandar giù la saliva che si è fatta vischiosa.

Retromarcia, prima, seconda: nel traffico della provinciale la radio bisbiglia e il ghiacciolo si accorcia.

Mordo il ghiaccio sbiancato, lo porto sui molari e un brivido arriva alle tempie. Nell’abitacolo mi sembra di sentir affiorare il profumo tenue dell’ammorbidente: accidenti a tutte quelle che lo annusano prima di scegliere quale comprare e non riavvitano il tappo come si deve. La stoffa grossa del sedile accoglie il peso delle mie cosce e ne assume la forma, il pomello del cambio brucia sotto le dita.

Dove ho messo i punti della raccolta? E la scheda su cui incollarli?

Devo scegliere quale premio prendere: brocca, piatto da portata o servizio da pinzimonio? Una lama di luce intensa, caldissima, attraversando il parabrezza, rende così incandescente la plastica del volante che ho voglia di mollarlo.

Quando arriverò a casa, parcheggerò davanti al marciapiede, anche se è al sole. Non ci penso proprio, a fare la fatica inutile di mettere prima l’auto in garage e risalire lungo le scale interne. Lì c’è sempre qualcuno tipo la Pirani, che ci mette un secolo, ad arrivare al proprio piano.

Lo stridore di una frenata supera il fremito del motore e rimbalza da un finestrino all’altro mentre sulla lingua sfrigola il frizz.

Quando andavamo in vacanza a Pinarella, lo zio Pietro, il fratello di mia madre, veniva a trovarci. Stava con gli amici in campeggio e passava insieme a noi un paio di giorni.

L’estate dei miei otto anni, dopo pranzo, si era alzato da tavola e aveva annunciato: «Porto la bimba a fare un giro, Sandra. Dobbiamo smaltire.» Mi aveva preso il braccio come se fosse stato un salame e aveva finto di mordermelo. «Andiamo?»
«Dove?»
«Un po’ in giro».

Mi aveva portato in una pineta non lontano dalla spiaggia.

Il sole lì non batteva così forte, anzi, era quasi fresco. Lo zio Pietro prima si era guardato intorno, poi mi aveva preso una mano e se l’era posata al centro del proprio corpo, sui jeans. «Prendilo» aveva bisbigliato, anche se non c’era nessuno. Era difficile infilare le punte di pollice e indice per arrivare alla zip, anche se le mie dita erano piccole. «Dai» e mi aveva schiacciato la mano sulla patta.

Glielo avevo preso fuori: era caldo, liscio e durissimo. E rosso, e appena lo avevo liberato dalle mutande, per un attimo e solo in quel momento, avevo sentito odore di pipì, e avevo avuto paura di sporcarmi. Poi lo zio Pietro aveva messo la mano sulla mia per dettarmi il ritmo e la pressione da tenere. Aveva il palmo bagnato, molle ma anche calloso, le dita grosse e strette fra loro.

Dopo un po’ di avanti e indietro, mi aveva allontanato la mano e si era voltato, dandomi le spalle. Si era piegato leggermente su se stesso, aveva fatto un verso senza parole e poi aveva sospirato.

«Stai male, zio?»
«No».
«A me sembra di sì».
«Andiamo a prendere un gelato».
Al bar mi aveva portato davanti al frigo: il vetro era così opaco che non vedevo l’ora di aprirlo e sentire quel fiato gelido sulla mia faccia.

«Scegli».
«Tu quale prendi, zio?»
«Per me questo, che ha il frizz».
«Cos’è?»
«C’è dentro qualcosa che lo fa frizzare. Sembra che abbia delle bollicine che scoppiano sulla lingua, e il sapore diventa più forte. È buono, provalo».

Io gli avevo fatto di sì con la testa, sorridendo, e lui ne aveva presi due.

Arrivo a casa, parcheggio davanti al marciapiede. Prendo le borse della spesa e le allineo davanti al portone del palazzo cercando di tenere in piedi quella in cui ho messo l’ammorbidente, che non si era rovesciato, era solo un po’ aperto. Così avvito il tappo fino a quando sento che non gira più. Cerco nella borsetta i punti della raccolta e la scheda per incollarli. La brocca, il piatto da portata, il servizio da pinzimonio – tutte le ceramiche sono dipinte a mano. Li darò a mia madre.

La Pirani affiora dalla scala interna, mi vede e fa un cenno di saluto; io le rispondo sorridendo e aspetto che scompaia nell’ombra sonora dell’androne. Il rumore delle sue ciabatte sfuma lungo la scala fino a svanire sullo zerbino davanti al portone blindato.

Poi prendo la confezione dei ghiaccioli e la appoggio a terra: attraverso i bordi strappati la luce abbacinante picchia direttamente sugli involucri trasparenti di ciascun ghiacciolo. Mi sembra di veder ribollire il frizz.

Quando il tutto si sarà ridotto a un’unica massa liquida e appiccicosa, forse qualcuno lo toglierà.

tutte le fotografie di Sofia Zurlo.

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