Il corpo che non sa

un racconto di Laura Scaramozzino.

Il gatto muore. Con dolcezza, la testa gli cade sul petto.

Lo reclama la terra. Il buco, la profondità.
Di notte sogno spesso di precipitare. Un mulinello mi risucchia e mi porta verso il fondo. Volare non è altrettanto divertente. Il vuoto mi espelle in un’azzurrità posticcia.

Ora lui giace sul tavolo inerme, ha gli occhi e la bocca dischiusi.

La donna che non è mia madre distoglie lo sguardo e singhiozza.
La stanza odora di secrezioni; sudo e non mi muovo. La luce del giorno si è intorpidita. Esala il sentore calcinoso dei biscotti del discount.
La donna apre le mani e mugola: «Che cosa facciamo?»

Annuso il puzzo acre generato dallo scontro tra la gravità e la sua assenza. Esamino il cadavere che s’impietrisce e la donna persa nell’esitazione.
Nella stanza, il sole entra e smalta il profilo del letto. Il tepore arancia la coperta in un accenno di vivacità oscena.

«Dobbiamo portarlo al mare», mormoro «Voglio metterlo sotto la sabbia».
Lei lascia cadere le braccia e mi fissa con un sospiro. «Al mare? Perché dovremmo portarlo al mare? Credo che sarebbe meglio chiamare il veterinario».

Mi stringo nelle spalle. «Mi hai chiesto tu che cosa fare».

La prima volta che ci siamo visti, il gatto mi ha soffiato. Mi ha gettato in faccia una zaffata di crocchette sottomarca. C’è voluto un po’ per vincere la reciproca diffidenza. Dopo il soffio, sono arrivate le corse scattanti, i miagolii guardinghi e i piccoli denti bianchi a puntellare i polsi. Avevo otto anni. Adesso ne ho quindici.

Quando ero a pezzi, mi avvicinavo al gatto e al muso affondato nella ciotola.
Terminato il pasto, lo prendevo in braccio. Lo stringevo forte contro le costole e attendevo la sua reazione. Non appena schiudeva le fauci, ne annusavo il fiato, l’odore della carne che si decomponeva nel calore acido della bocca.

Colto dal dolore, scioglievo la stretta e lo lasciavo andare. Mi gettavo a terra e guaivo. La donna, attirata dal piagnucolio, mi trovava rannicchiato e madido sul pavimento. Si piegava e, con un gemito rantolante, mi domandava che cosa avessi. Io non rispondevo e mi godevo il benessere che giungeva dallo svuotamento del liquido in eccesso. Il corpo è semplice, tutto sommato. Basta togliere quello che è di troppo.

Ora non penso più al fiato assente del gatto morto. Nella stanza, l’aria immobile scolpisce gli oggetti e svapora sulla figura della donna. Il suo sguardo non abbandona il cadavere, il corpo che non sa ancora se diventare sasso o ectoplasma.

«Dobbiamo andare» le dico «Bisogna seppellirlo al più presto, prima che irrigidisca».
Lei mi fissa con gli occhi cerchiati e le palpebre viola. «Devi dirmi perché. Non credo sia una cosa che si potrebbe fare».
Mi stringo nelle spalle. «Al mare non ce l’ho mai portato. Credo che gli sarebbe piaciuto».

Nonostante le abbia intravisto un sorrisetto nervoso, non obietta. È sabato e non lavora. A pensarci bene, io non ho mai visto nessuno portare un gatto morto dal veterinario.

La donna va a prendere una scatola colorata nello sgabuzzino. Torna nella camera e si blocca. Penso ai cartoni della pizza. Penso alla fame, ai crampi e ho voglia di cadere. Non vuole metterlo nel trasportino. Non riesce a vederlo morto.

L’idea del veterinario mi dà una scossa sottopelle. Mi avvicino alla donna e, per poco, non la faccio inciampare. Non c’è bisogno di parlare. Sistemiamo il cadavere nella scatola con gesti leziosi. Scruto gli occhi del gatto. La beatitudine e lo sforzo si fondono nello sguardo nebbioso.
La scatola pesa molto, il rigor mortis ha cominciato il suo processo di solidificazione.

Arrivati al mare, il gatto smetterà di essere un gatto per sempre.

Siamo pronti. Scendiamo e raggiungiamo il posteggio. Sistemiamo la scatola e una borsa per il mare nel portabagagli. Saliamo sulla Punto grigia. Sotto la camicetta avorio, la donna indossa un bikini azzurro. «È soltanto maggio, ma andiamo pur sempre al mare», si giustifica.

Durante il viaggio, mi addormento. Il rimbrotto dell’aria, contro il finestrino, ha un effetto ipnotico. M’invita a scivolare nel sonno, ad abbandonarmi sul sedile che odora di plastica e cellule morte.

Nel dormiveglia vedo la donna tuffarsi fra le onde.

Il costume azzurro sulla pelle di gesso. Vedo l’acqua scivolarle addosso e le braccia salire verso l’alto.
Quando mi sveglio del tutto, stiamo per lasciare l’autostrada e prendere la provinciale. La luce si è addensata, prefigurando il coagulo rugginoso in prossimità della pineta.

La voce della donna tradisce una sorda eccitazione: «Dovremo stare attenti al guardaspiaggia. Se ci becca, potrebbe farci una multa».
Evito di guardarla. Appena sveglio, potrei confondermi e cercare in lei i tratti dell’altra. Della donna che era mia madre. «Nessuno ci darà fastidio», sussurro.
«Nessuno tranne il guardaspiaggia» lei insiste «Dobbiamo tenerne conto, sai. Ciò che stiamo per fare non si potrebbe proprio».

Alzo le spalle e mi lascio cullare dai sobbalzi dell’auto. Arrivo a pensare che potremmo fermarci qui per un po’. Per superare la cosa, s’intende.
Il paese sfila via con i suoi negozi bassi, ombrosi come grotte.
Nei sogni il mare arriva al termine di un declivio, è un punto basso e rovinoso.

Il buco in pendenza di un flipper gigantesco.  

La donna cerca parcheggio in una delle vie interne. Si sistema il cordoncino del costume dietro il collo e scende dall’auto senza guardarmi. Un olivo ornamentale ombreggia l’area squallida del posteggio. Aspiro un odore fatto di latitanza e lattuga guasta.

Mi ricordo del gatto. Non che l’avessi dimenticato, ne avevo soltanto accantonato l’urgenza.

Nel portabagagli, accanto alla scatola, la borsa da mare è un’apparizione. Estraggo il flacone di crema solare incrostato di sabbia. Afferro il telo e lo dispiego. Apro la scatola e mi soffermo sugli occhi vacui del gatto. La donna mi poggia una mano sulla spalla. Avvolgo il cadavere nel telo e lo sistemo nella borsa.

«Sarà più facile trasportarlo», le dico ignorando la pressione delle sue dita. «La scatola è scomoda».
«Hai ragione».

Annuisco e le passo la borsa.

La donna fa scivolare i manici lungo il braccio, fino alla spalla, con un gesto pigro.

C’incamminiamo verso la spiaggia e attraversiamo il sottopassaggio pieno di scritte oscene e riverberi. All’uscita proseguiamo e affianchiamo il lungomare, la successione ordinata dei lidi bianchi e azzurri. Oltre le file delle sdraio, e degli ombrelloni chiusi, il mare scintilla e sciaborda sulla sabbia.

Accanto a me la donna osserva gli stabilimenti. Ha la stessa espressione delle bagnanti che restano sedute per ore nei chioschi di paglia. Mi tornano in mente i succhi di frutta ghiacciati e le impronte sabbiose sulle assi di legno. L’unica canzone perfetta di Bruno Martino e gli spaghetti con le vongole.

Nella memoria, le labbra unte di mia madre sono microlesioni sulla pelle abbronzata.

Finalmente imbocchiamo la passerella che divide un lido privato dalla spiaggia libera. Non c’è nessuno, a parte una vecchia con un cappello enorme, che affonda il sedere sul bagnasciuga. Un camicione chiaro le scopre i polpacci lucidi e gonfi. Non bada alla nostra presenza. Non guarda il mare, non fa niente. Come le donne nei chioschi, come mia madre.

Il guardaspiaggia non c’è. La donna appoggia la borsa sulla sabbia tiepida e le mani sui fianchi. Non sembra stanca, piuttosto a disagio con i vestiti addosso.
M’inginocchio e comincio a scavare con le mani. Ogni volta che da piccolo arrivavo alla sabbia bagnata, lo stupore mi rendeva inquieto.

Scaviamo una buca profonda e ci seppelliamo il gatto. La vecchia ci sta guardando. Intorno ai suoi capelli stopposi la luce è più bianca. Potrebbe essere lei il guardaspiaggia. Magari chiamerà qualcuno o sarà lei a farci una multa.

Nella conca umida il cadavere del gatto sembra finto, una riproduzione grossolana. Mentre lo ricopriamo con ampie manciate di sabbia, ricordo mia madre. Il gesto riluttante con cui mi passava il secchiello. La fatica che le rallentava il polso.
La donna non mi è di molto aiuto. Le tremano le mani e piange in silenzio. Tira su con il naso.

Da qualche minuto si è alzato il vento.

Le ombre si stanno allungando e il sole si scompone basso fra le onde. La vecchia continua a fissarci e inclina la testa sul collo. Sprofonda nella sabbia. Luminosa. Sorride e non contrae un muscolo.
Do un ultimo sguardo alla fossa che abbiamo riempito. La donna si siede sulla sabbia e raccoglie le ginocchia contro il petto. Fissa il mare e la vecchia con espressione torva.

«Vado a fare il bagno» dico. Mi spoglio e resto in mutande.
«Dovremmo andare» replica la donna con voce stanca «Sta venendo sera».
Faccio spallucce. «Solo un tuffo».

«Una cosa rapida» mi concede «Se non ce andremo a breve, resteremo qui tutta la notte. Sono esausta».
Faccio sì con la testa e corro fino alla riva. Oltrepasso la vecchia e ne intuisco il movimento del capo. Forse è un cenno di approvazione.

Prima di avanzare nell’acqua, mi volto e osservo le due donne immobili come animali spiaggiati.

L’acqua è fredda. Procedo un passo per volta. Ci sono cose a cui ci si può abituare.
Mi mordo il labbro e stringo i denti. L’acqua ormai mi arriva al petto. Nel giorno che appassisce sembra mercurio.

Ci vuole così poco, in fondo. Il gatto me lo ha mostrato. Mia madre no, invece. Non l’ho vista gettarsi di sotto. Perdere per sempre i tratti e il sangue che condivideva con sua sorella, la donna che non è mia madre.

Sott’acqua chiudo gli occhi e godo del silenzio cupo che implode nelle orecchie. Soffro del peso indicibile del mare e di me stesso, eppure resisto.
A un tratto, una voce buca l’acqua. Rompe la crosta che allontana i vivi dai morti. La riconosco. Tra gli schizzi e lo sciaguattare dell’acqua, le sue braccia mi afferrano e mi costringono a emergere.

Torno all’aria e alla luce. Tossisco e sputo senza sosta.

La donna vorrebbe portarmi all’ospedale. Sta piangendo. Ma io non ho bevuto così tanto, non ho fatto in tempo.
Sul bagnasciuga, intanto, la vecchia non c’è più. L’impronta del suo corpo è scomparsa.

all pictures by Robert Rieger.

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