un racconto di Francesco Noferi,
editing di Alessandro Tesetti.
L’appartamento è stato un sonnecchiante borghese per gran parte della sua vita. Ora, invece, tre donne inusuali si aggirano al suo interno, tre come le camere da letto. Le stanze affacciano tutte sul grande salotto con angolo cottura, cuore dell’appartamento; il quale a sua volta si allarga nel cuore del palazzo. C’è una vetrata e un bel balcone. I rumori della città, sotto, sono attutiti dagli alberi che ricoprono il viale; chi si affaccia non vede che un fiume di foglie mosso dal vento, e intuisce appena il serpente di traffico che striscia sotto. È ampio, ma non ce la fa a essere davvero lussuoso, l’appartamento. Uscito dal fulgore degli anni Ottanta, con ambizioni fuori misura rispetto alle sue possibilità. I precedenti proprietari, è chiaro, non si erano mai mossi da quel decennio, e l’arredamento riflette la speranza che i giorni felici possano tornare, evocati dal mobilio. Tutti i pavimenti sono lucidi, di un marmo dubbio, c’è un grande caminetto a gas, un pianoforte verticale, molti soprammobili.
Gisela esce dalla sua camera e attraversa il salone fino al divano. Si sdraia, poi allunga un piede per aprire la porta a vetri del balcone, facendo entrare l’aria della sera; si sistema la vestaglia e accende la sigaretta elettronica. Il sole è tramontato dietro i palazzi. L’omino del lunedì esce dalla stessa camera, chiudendosi il colletto della camicia. Borbotta qualcosa sui bottoni troppo piccoli e si infila la giacca con le tasche penzolanti. Si congeda da Gisela con un cenno del capo; lei soffia fuori il fumo e solleva una mano. L’omino si chiude la porta d’ingresso alle spalle, piano piano. La serratura fa un dolce clac e Gisela alza le gambe poggiandole sul tavolino, accanto a una gondola in vetro. Tira un’altra boccata di svapo, e nota che l’unghia del suo indice, un bel viola laccato, è crepata in mezzo.
La voce della Rosa arriva dal balcone: «Finito per oggi?». Appoggiata alla balaustra, osserva il fiume degli alberi e le dà le spalle. Gisela dice che sì, ha finito. Guarda la Rosa, fasciata da un tubino troppo stretto. Si è vestita, come al solito, ma non ha clienti, come al solito. La Rosa ha dato tutto quello che aveva da dare, e non c’è un modo più carino di dirlo. Altra generazione, modi tradizionali, gusti più semplici. Le hanno dato pure la camera più bella, ma non è servito. Da quando si sono trasferite lì, tutte e tre, la Rosa ha visto appena una manciata di clienti. Passa il tempo a pulire, fare la spesa, alla tv. A mangiare, e dio sa se non dovrebbe. Gisela la osserva e si sente triste. Non è una di lacrime facili, lei: non si è commossa quando è morta sua madre, e di certo non quando è toccato a suo padre. Non ha pianto la sua prima volta, non le si è incrinato il viso quando a scuola l’hanno tormentata, o quando l’hanno guardata male perché si vestiva da femmina. Non ha mai battuto ciglio, Gisela, quando l’hanno picchiata. È una colonna di pietra che conosce il suo posto nel mondo.
Se mai ha provato qualcosa che somiglia alla pena, però, è stato per la Rosa e per il suo tramonto infinito.
Chun-Li esce dalla sua camera proprio in quel momento, accompagnando sottobraccio il tipo delle diciotto. Un ragazzo sorridente, alto, con giacca e pantalone sartoriale. Gisela li guarda attraversare il salone in penombra. Parlottano. Si fermano davanti alla porta d’ingresso, vicino al ficus. Anche la Rosa si è affacciata, con la testa che spunta dalla porta a vetri e il culo a prendere aria sul balcone. Chun-Li si congeda dal cliente, sfiorandogli il risvolto della giacca con le dita sottili; apre la porta e inclina la testa per salutarlo.
«Diocristo». Gisela alza gli occhi al cielo.
Chun-Li squittisce ancora un poco mentre chiude la porta. E dopo il clac, Gisela rutta.
«Scusa», dice. «La vodka».
Chun-Li la guarda con gli occhi socchiusi, affilando il musetto e agitando una mano davanti a sé: «Una casa è bella quanto il suo mobile più brutto. Sai cos’è? Proverbio cinese!», sibila. «Vuol dire che se mi fai fare una figura di merda, ti taglio le palle mentre dormi». E si mette a sedere sullo sgabello, davanti alla penisola della cucina.
Gisela alza le sopracciglia. È quasi certa che li inventi, i proverbi. Spegne lo svapo e la raggiunge. Chun-Li sta sotto i faretti della cucina, un’isola di luce nella penombra del salotto, una santa medievale davanti a Dio onnipotente, con la sua veste bianco perla, e la pelle che saetta brillantini.
Eccolo lì il motivo per cui la Rosa non lavora più. Chun-Li non è il suo nome, glielo ha dato Gisela, memore delle partite a Street Fighter nella sua gioventù da maschiaccio. A Chun-Li era piaciuto; a sentire lei, significava guerriera di luce. Certamente falso, come i proverbi. È una professionista, lavora sui siti, sculetta sui social.
Si è svincolata dalla mala cinese e forse è davvero una guerriera di luce.
«Era l’ultimo?» chiede Gisela. Prende un barattolo di olive e si mette a mangiarle una alla volta.
Chun-Li apre un sacchetto di carote e se ne ficca una in bocca. «Ultimo di persona. Dopo cena faccio online».
La Rosa chiede se vanno bene le lasagne congelate e le altre dicono di sì. Le mette direttamente nel microonde, che si avvia con qualche sussulto. La luce del forno rende la stanza meno fredda. Dovrebbero comprarne uno nuovo, ma esitano. È l’unica cosa che si sono portate dietro dal vecchio appartamento. Questo lo hanno comprato all’asta, già arredato, e non hanno avuto bisogno, o voglia, o coraggio di toccare niente. Tutto è rimasto com’era quando i proprietari sono falliti, o morti in un incidente, o vaporizzati dagli alieni. Le loro foto, cari vecchietti, incorniciate d’argento e adagiate sul camino a prendere polvere. Lui cavaliere del lavoro, lei ritratta con una scolaresca. La loro vita è tutta lì, sul camino. Famiglia, cani, Cortina, matrimoni, genitori, figlio, inaugurazioni, gonne plissettate, cravatte, Craxi in visita alla fabbrichetta. Il figlio suonava il pianoforte. In una foto si esibisce nel salone e i genitori dietro di lui sul divano, rapiti.
Un figlio viziato, in una foto è sommerso dai giochi, solo la testa spunta fuori.
Perché nessuno ha reclamato la vostra vita?, pensa Gisela mentre pesca con le dita l’ultima oliva dal barattolo. E perché noi non abbiamo fatto piazza pulita?
Forse perché hanno l’impressione che tutto, lì dentro, sia pronto a raccontare. E che basti zittirsi un attimo e gli oggetti, le stanze, comincerebbero a parlare. Tutto è sospeso, trattiene il fiato, in attesa del silenzio giusto. Non è un pensiero rassicurante, le poche volte in cui si trova da sola. Per questo tiene le cuffie e mette la musica. Perché forse non le va di sentire quello che le stanze hanno da dire.
La Rosa estrae le lasagne dal forno e bestemmia per il calore. Sporziona nei piatti di porcellana e aggredisce la sua fetta.
Poi il campanello suona. Gisela resta con un’oliva tra i denti. Si guardano. Chun-Li raggiunge il citofono ma esita un istante. «Chi è?», chiede poi. Qualche momento di silenzio. Aggrotta le sopracciglia e solleva leggermente lo sguardo. «Sì», dice alla fine, incerta. «Sì, è il posto giusto». Alza lo sguardo verso la Rosa e con un dito la indica. Le sue labbra si muovono senza voce, componendo la frase Per te. «Terzo piano, prima porta a sinistra».
La Rosa molla la forchetta con la lasagna e la prima cosa che fa è tirarsi su le tette. Gisela la guarda scattare in piedi e corre in camera sua. La segue e la vede afferrare di corsa il flacone di plastica a forma di madonna di Lourdes che ha sul comodino, svitare il tappo e versarsi sul palmo il profumo che ci ha messo dentro. C’è una madonna come quella anche in camera sua, ma lei l’ha riempita di vodka. Le sistema i capelli sulle spalle e sorride.
Quando tornano nel salone, Chun-Li ha già fatto entrare il cliente e sta chiudendo la porta. Un ragazzone di quarant’anni, sovrappeso, pochi capelli, un impermeabile sgualcito, sudato per le scale o per la paura. Ha un borsone in mano e ne stringe forte i manici. Si guarda intorno con gli occhi sgranati come un turista nella cappella sistina.
«Ecco, Rosa è lei», dice Chun-Li sorridendo.
Rosa avanza ancheggiando. Allunga una mano e tocca il risvolto dell’impermeabile. «E tu?», chiede.
L’uomo si irrigidisce. «Walter», dice, guardando in basso.
«Ebbè, Walter? Un caffè? Un alcolico?»
Potremmo dargli la mia madonna, si trova a pensare Gisela.
«Sono a posto», farfuglia lui. C’è però qualcosa che non va. Gisela lo vede subito cos’è la scenetta che ha davanti. Un capolavoro di Chun-Li. Il povero Walter non ha chiesto della Rosa, al citofono; voleva una qualsiasi, ma grazie alla prontezza di Chun-Li è diventato cliente della loro amica, il primo da tempo, senza neanche accorgersene.
I due se ne vanno in camera e la Rosa chiude platealmente la porta a chiave. Anche Chun-Li si ritira soddisfatta e Gisela rimane da sola, seduta sullo sgabello della cucina, con le lasagne fredde e una strana sensazione addosso. C’è un silenzio irreale, ora. La casa ha cominciato a parlare, e lei non ha le cuffie.
Walter posa il borsone vicino alla porta e si ferma a guardare la camera da cima a fondo, da destra a sinistra. La Rosa non ha un gran vocabolario ma le viene in mente la parola avidità. Sembra che se la voglia mangiare, quella stanza. Lei sta semisdraiata sul letto, con il suo materasso ad acqua. Oddio, pensa, questo è strano forte. Ma se c’è una cosa che il mestiere t’insegna, è non mettersi a giudicare. E il povero Walter, sudaticcio nella sua giacca larga, non entra nemmeno nella top ten delle cose più strane che la Rosa ha visto in tanti anni.
«Allora, Walter. Ti metti comodo?», dice lei, facendo tap tap con la mano sul materasso.
Walter si riscuote e siede sul bordo del letto.
Questo non vuole chiavare, si dice la Rosa. Ormai li riconosce. È uno di quelli che vuole parlare. E vabbè, si dice, almeno speriamo sia uno di quelli che vuole pagare.
Walter fa per aprire bocca un paio di volte, ma si ferma. Ha la faccia di uno di quegli animali lenti attaccati agli alberi. Animali poco svegli, non perdete il prossimo Geo&Geo. «Io», dice infine, asciugandosi la bocca con la manica della giacca. «Vivevo qui».
La Rosa spalanca gli occhi, ma lui non la vede perché ora guarda il soffitto. «In questa camera ci dormivano i miei».
Dio signore gesù giuseppe e madonna santa tutti insieme a pranzo. La Rosa attacca a sudare. Questi sono i casi in cui vorrebbe un pulsante sotto il letto per chiamare la polizia, come le banche.
«Sono rimasto sempre qui, anche se ero lontano», dice Walter senza guardarla. «Non ce la facevo a tornare».
La Rosa si fa forza, chiede: «Loro sono…», che cosa stupida che sta per dire «…morti?». Walter annuisce. La Rosa prende a scivolare in posizione seduta, pronta a scattare verso la porta. Scattare se i tacchi, la forma fisica e l’età glielo permettessero.
«L’unica cosa che mi è rimasta di loro», dice Walter indicando il borsone con cui è entrato. La Rosa perde sensibilità nelle gambe, la testa comincia a girarle e si sente formicolare la pancia. Il suo unico pensiero è: se mi piscio addosso, almeno non macchio il materasso, è impermeabile.
Walter si alza a fatica, raggiunge il borsone, lo prende e lo posa piano piano sul letto. Tira la cerniera e lo apre. «Li ho riportati a casa».
Gisela è seduta davanti allo specchio, in camera; si sta struccando, e si ferma all’improvviso. Prende un sorso dalla madonna di Lourdes e torna a guardarsi. Sì, è una ruga nuova, non può far finta di no. È la sua seconda, la seconda di quelle serie, insomma. La prima è sempre un incidente di percorso, un difetto di nascita, un vizio di forma. Ma la seconda no. La seconda vuol proprio dire qualcosa.
Prende di nuovo la madonna e la guarda prima di avvitare di nuovo il tappo. «Sarai sempre giovane e bella, tu», le dice. «È una fortuna non esistere». Poi un suono la tira fuori dai suoi pensieri. Qualcuno ha messo della musica classica. Ma non è un disco, viene dal salone. Si alza di scatto, spaventata e incosciente al tempo stesso. Spalanca la porta. Chun-Li è sulla soglia della sua stanza, come lei, ed entrambe guardano la scena. L’uomo della Rosa sta suonando il pianoforte con trasporto. Dietro di lui, sul divano, tanti giocattoli in fila che lo guardano con i loro occhi fissi. Un cowboy, un soldatino, e poi peluche a forma di dinosauro, coniglio, scimmia, un clown, una bambola, e la Rosa lì in mezzo, con un borsone vuoto in grembo e lo sguardo fisso. Poi l’esibizione finisce. Gisela è incapace di muoversi, ferma sulla soglia di camera sua. La Rosa applaude e Chun-Li la imita debolmente.
L’uomo, Walter, si volta con un sorriso: «Troppo buone». Poi guarda i giocattoli sul divano, che non applaudono. «Li ho riportati a casa», dice. «Vorrebbero che restassi anch’io». Gisela guarda Chun-Li e le vede lo stesso pensiero negli occhi. «Ma io li lascio qui. Siete brave persone, trattateli bene».
Solo Chun-Li ha la forza di parlare. «È la nostra specialità».
Poi Walter guarda la Rosa e dice solo «Grazie». Si china a baciarla sulla guancia, le prende il borsone vuoto dal grembo, lo chiude e se ne va. Clac, fa la porta, e l’appartamento torna a zittirsi.
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