un racconto di Tarek Komin.
Tutto è giallo. Il colore della cucina l’ha scelto lei. Mi alzo e controllo la moka sul fuoco. Lei si accende una sigaretta. Ripete è finita. Non mi va il caffè. Impotente torno al tavolo giallo. Odio questo colore. Le sillabe sono un gregge spaesato nel mio cervello, non formano parole. Ho la gola chiusa.
Siamo qui da due notti appena. Mi sblocco, la mia voce è incerta.
Lo so.
Cos’è successo?
Niente.
Che cazzo è successo? La calma mi abbandona, lo stupore no.
Niente, è finita. Aspira.
Silenzio.
La mia gola brucia, orfana di ossigeno. Devo controllarmi, non essere patetico.
La chiamavi la nostra casina, smaniavi per traslocare qui. Mi sono indebitato per questi cazzo di mobili. Gialli.
Fuma, la bocca dischiusa. Le stesse fossette di quando sorride. Un veleno.
Sabato, dopo l’orgasmo, piangevi qui, su questa spalla. Mi colpisco troppo teatrale, sono ridicolo. Ma insisto.
Dicevi: non sono mai stata così felice.
Le cose cambiano.
In tre giorni?
Anche in meno.
Respiro. L’odore di caffè tostato è violento. Mi tremano le labbra.
Sei l’unica con cui ho desiderato un figlio, con cui non ho paura. Mi dicevi di venirti dentro.
Prendo la pillola.
Cosa? Dicevi di no.
Mentivo.
Perché? Non mi spaventa un bambino con te.
Non succederà. Si alza. Uccide la sigaretta nel posacenere, giallo.
Aspetta. Balbetto.
Me ne vado.
Resto seduto mentre si chiude la porta alle spalle. È un incubo, irreale. Lo stomaco latra, mani cagnesche mi scavano dentro, rivoltano le mie viscere. Non può essere successo. Poi urlo, finalmente. Scaglio il posacenere sul pavimento, schegge gialle e polvere.
La moka gorgoglia cupa. Ho messo su il caffè senza preparare le tazzine. Erano nere, almeno. Un presagio. Nessuno l’avrebbe bevuto. Con una manata la caffettiera va a terra. La piastra resta accesa. Respiro. Il ventre contratto è l’unico dettaglio che mi ricorda di esistere. Non è accaduto, non esisto. Mi chino. Avvicino lento il volto alla fiamma. Non sento calore. Sono già bruciato.
tutte le fotografie di Marika Pitti.