un racconto di Edoardo Balacchi,
editing di Alessandro Tesetti.
Parlando al telefono con Nora mi era sembrata una buona idea. La coda, il semaforo, la voce disturbata: «Sono sicura che le piacerà».
Mentre guido rifletto sugli ultimi regali di compleanno che ho fatto a Valeria. Non credo di essere in grado di predire cosa le piaccia, da quando ci siamo allontanati. Ricordo a Nora la bambola dell’anno scorso, gli acquerelli.
«Sono sempre in ritardo».
«È normale, amore, crescono in fretta e se non sei lì con loro…»
Nora si accorge di aver parlato troppo, la sento titubare. Prova a cambiare argomento, la perdo. Inchiodo nell’esatto momento in cui una vecchia si butta in mezzo alla carreggiata per attraversare, appena in tempo per non travolgerla. Impreco. Lei mi guarda mentre sposta le sue antichissime gambe sotto una gonna ispida e avanza lentamente. Sento il suo sguardo dentro di me quando riprendo ad accelerare, la sento marcirmi dentro come una carie.
«Nora?»
Sono solo nell’abitacolo nella luce obliqua di un tramonto di marmellata.
Valeria mi sta aspettando sulla soglia, sua madre le pettina distrattamente i capelli con una mano ad artiglio, le sta dicendo qualcosa che non riesco a capire. Le chiude la giacca.
La chiamo dal finestrino: «Auguri, principessa!»
La mania delle principesse le è passata qualche estate fa, come i foruncoli: non so cosa la faccia impazzire adesso. Forse un cantante ragazzino, forse un attore.
Parcheggio sul vialetto e scendo, provo ad aprirle la portiera ma è già salita prima che possa dire qualcosa, ha le cuffie nelle orecchie, quelle wireless, costose, regalo di compleanno di qualcun altro, chissà chi.
Sua madre mi squadra senza dire niente, siamo fuori dall’auto, soli, sembra invecchiata tantissimo dall’ultima volta: cerchioni rigati e cicatrici di grandine sul cofano. Anche la mia ex moglie la guarda come una volta guardava le mie lattine di birra consumate, sfrattate dal frigorifero.
«Riportala per le sette. Al massimo».
«Va bene. Non ti preoccupare».
Annuisce, sta per dire qualcosa ma ci ripensa. Si avvicina a Valeria e le fa ciao con la mano attraverso il vetro, lei le risponde con un cenno impercettibile della testa.
«Come va la scuola?»
Valeria annuisce, si leva le cuffie a fatica come se fossero una parte del suo corpo: le estrae lentamente, le ripone nello zaino con una cura esasperante e matura.
«Tutto bene».
Il cellulare s’illumina, risponde. Provo a sbirciare chi le sta scrivendo, lei se ne accorge e diventa gelosa, inclina lo schermo. Non mi riguarda quello che succede lì dentro: è un mondo che non ha posto per papà e mamme. Lo capisco. Lo capisco, ne parlavo con Nora, anche noi lo abbiamo fatto.
«Qualche novità? Che mi racconti di bello?».
Valeria risponde a un messaggio, poi s’infila il cellulare nei jeans attillati e mi guarda con un’espressione che fatico a decifrare.
Davanti a lei il gelato si sta sciogliendo nella coppetta di vetro.
Venivamo sempre qui a prendere un gelato quando era piccola. Ricordo le sue manate sul vetro con i gusti schierati in una teoria colorata. Banana, lampone, fiordilatte, cioccolato.
«Ti ricordi quanto gelato mangiavamo quando eri piccola?».
Ora fa freddo, la gelateria sembra più piccola: il bianco delle pareti è ingiallito. Valeria invece s’è fatta più grande, più luminosa. La osservo piluccare la coppetta mentre sorride distrattamente, non sa cosa dire. Il gelato non le piace più, è evidente. Una frana, un’emorragia di fiordilatte. La pozza bianca si allarga sul tavolino mentre ci guardiamo in silenzio. Attorno a noi un bambino fa i capricci, vuole che sia estate, non vuole andarci a scuola, la madre gli tira uno schiaffo che risuona come uno sparo.
Secondo Nora dovrei smetterla di preoccuparmi. Per lei quando si ha un figlio scatta qualcosa di ancestrale e animalesco che ti rende automaticamente una persona diversa: è un amore chimico, un istinto invincibile. Parla così di sua madre, del loro rapporto. Alti e bassi. La sera quando siamo insieme a volte le telefona, litigano, si riappacificano. Mia madre è la persona che amo di più al mondo. Senza offesa. Te la sei presa?
Nora mi fa un pompino mentre fisso il soffitto bianco della nostra camera, la sua lingua, i suoi denti nel buio.
Te la sei presa?
Nora muove la testa più in fretta, cambia ritmo. Le affondo le dita nei capelli, le stringo la nuca come alla ricerca di una ferita nascosta.
Valeria odia Nora, dice che è una puttana. Inutile forzare un’amicizia, inutile provare ad avvicinarle. Si sono incontrate solo un paio di volte ed è bastato.
Adesso usciamo dalla gelateria, il freddo ci aggredisce come un graffio sugli occhi. Valeria mi sta avanti due passi, quando provo a raggiungerla sembra accelerare. Il nostro respiro nel freddo secco dell’inverno si fa nebbia e cristallo imprigionando la conversazione in un blizzard improvviso: «Come sta la mamma?»
«Che cazzo te ne frega?»
Una raffica ci sorprende.
«Io non ti ho mai insegnato a rispondere così».
«Tu non mi hai mai insegnato niente».
Valeria sorride in un modo affilato, da adulta, non gliel’ho mai visto fare. Sto per risponderle ma mi fermo, accanto a noi il semaforo cambia colore. Respiriamo a fondo finché il freddo non ci congela la testa.
«Sono sicura che sia un’idea deliziosa. Non ci vuole niente, vedrai! Alle ragazzine piace».
Mentre fumo sul balcone Nora seduta sul divano sfoglia un libro distrattamente, sento il rumore delle pagine farsi strada verso la portafinestra e grattare come un animale in gabbia.
«Non l’ho mai fatto prima, non vorrei farla vergognare. Fare la figura del coglione».
«Domani ci andiamo insieme e ti insegno io. Non ci vuole niente».
Nora mi raggiunge, mi abbraccia da dietro. Il suo alito sa di erba e grano. La sento stringermi attraverso la camicia, mi volto per baciarla. Una folata di vento mi avvolge nei suoi capelli.
«Ci andiamo insieme, domani».
Valeria ha dato il suo primo bacio, ha vinto un premio sportivo, è stata in vacanza con la famiglia della sua migliore amica per un intero weekend. Queste cose le so perché sua madre me le ha fatte sapere nelle comunicazioni stringate, mimando l’esistenza di una famiglia martoriata. Divorzio, avvocati, lettere, messaggi. Ora le cose sembrano più stabili, sembrano congelate. Lei sa sempre tutto, sembra che Valeria non abbia segreti con sua madre. Mentre la guardo adesso mi chiedo cosa tenga nascosto negli occhi che continuano a muoversi per il mondo con l’irrequietezza di due pesci rossi imprigionati in una boccia: boccheggiano, rimbalzano sulle mie rughe, sui peli che ho sulle nocche, sulla merda di uccello che decora il parabrezza, giocano con la condensa che ci stritola in un paradiso condizionato di ovatta calda, s’insinuano nel cappuccio alzato di un passante, nello sguardo assente del suo cane che sbava e tira il guinzaglio per raggiungere un albero scheletrito dall’inverno e pisciare.
Valeria registra ogni cosa, chiude tutto ciò che vede o sente da qualche parte inaccessibile oltre le ciglia che le sono cresciute lunghe e arcuate come quelle di sua madre.
Non so cosa sappia di me, di suo padre, non so nemmeno cosa le interessi sapere. La consapevolezza di essere marginale nella sua vita mi estenua e mi sfibra le braccia mentre provo a governare il volante.
«Hai voglia di vedere la tua sorpresa, principessa?»
Nora mi tiene le mani. Siamo in equilibrio per miracolo. Ha dita fredde e unghie lunghe che mi feriscono i palmi.
«È come andare in bicicletta. Un piede dietro l’altro».
Attorno a noi la pista di pattinaggio cresce come una giungla di cristalli, i bambini sfrecciano leggerissimi come folate di vento, le mamme, le ragazze azzardano qualche timida acrobazia, traballano. Poi ci sono i professionisti, come in ogni sala da ballo che si rispetti: una ragazza con lo chignon biondo e la giacca nera, il suo compagno barbuto. Volteggiano, si sollevano quasi dal ghiaccio. Non si staccano mai gli occhi di dosso eppure sembrano prevedere ogni ostacolo. Potrebbero pattinare anche ad occhi chiusi, anche al centro di una guerra. Volteggiare fra le esplosioni, i morti, i proiettili. Mi chiedo perché per qualcuno vivere sia così facile.
«Luna chiama Terra, ci ricevete?» – Nora mi stringe le mani per riscuotermi. – «Non ti distrarre adesso, se no finiamo per terrà tutti e due».
«Ci sono».
«Non devi avere paura. È tutto più difficile se hai paura. Vai, tieniti al bordo per cominciare. Un piede dietro l’altro. Come andare in bicicletta. Un piede dietro l’altro, così».
Arriviamo alla pista nell’esatto momento in cui il sole disegna strani ricami sul ghiaccio: c’è polvere bianca dovunque, le ferite inferte del divertimento dei bambini alla superficie altrimenti liscissima della pista disegnano un’eccitazione diffusa eppure ibernata sotto uno strano vociare concitato. Le lame dei pattini incidono traiettorie meschine: scontri, inseguimenti, paranoie si proiettano nell’andamento serpentino delle piaghe congelate.
L’importante è stare tranquilli. Non strafare, non bloccarsi. Come andare in bicicletta.
Cerco negli occhi azzurri di Valeria un moto spontaneo di gioia o almeno di sorpresa, ma non c’è niente. Stiamo fermi in auto qualche minuto, poi le sussurro: «Ti va di pattinare?»
Valeria ora sta guardando la pista, credo non mi ascolti. Le sue mani sul finestrino diventano quelle che da bambina posava sul vetro della gelateria. Davanti a lei bambini infagottati e ragazzi che ridono come gusti pronti ad essere divorati.
«Allora, ti va? Scendiamo?».
«Per prima cosa devi stringere bene i pattini, così. Vedi che coprono anche la caviglia? Così anche se cadi non ti fai nulla. Devi stare tranquillo. Cadere è normale, basta sapersi rialzare».
Vorrei che ci fosse Nora qui con Valeria, a controllare che ogni cosa funzioni. Mia figlia mi sorride, o forse sorride al freddo che le sta tingendo il naso e le guance di un rosso aggressivo che non le appartiene.
È pronta per raggiungere il ghiaccio, incespica con una grazia impacciata eppure stranamente elegante. Io la seguo, metto i piedi dove li mette lei, provo a imitarla in ogni gesto. Siamo sul ghiaccio, le prendo una mano, le stringo le dita che sembrano staccarsi come stalattiti quando i suoi piedi cominciano a muoversi.
Il ghiaccio soffre, si lamenta. Provo a infliggergli un nuovo sfregio insistendo col piede destro che non vuole scivolare, non sa come fare. Tiro una zappata alla pista e mi sbilancio in avanti, addosso a una ragazza con un cappellino di lana che mi afferra, barcolla, mi aggancia al bordo come un oggetto pesante e inutile.
Valeria ha già fatto un giro, mi sta guardando. La ragazza mi sorride: «Tutto ok?».
Con Nora sembrava più facile. Andava sempre a pattinare coi suoi genitori quando era piccola. Suo padre si muoveva lento e costante, andava dritto tranciando i percorsi degli altri senza curarsene. Nora mi ha mostrato alcuni vecchi video. Suo padre statuario e inaccessibile come un faraone, sua madre creativa e coraggiosa. Nel video rovinato le regalano un abbraccio stinto e lunghissimo mentre la accompagnano sul ghiaccio. Attorno a loro si solleva una tempesta di neve, forse è solo rumore bianco.
Vorrei essere come il padre di Nora: sereno e dritto, senza impennate.
Le chiedo com’è morto, anche se so che non ne parla mai volentieri.
Risponde: «Di notte, nel sonno, poco dopo Natale. Un infarto devastante».
Valeria mi raggiunge, ora forse le faccio un po’ pena. Forse si vergogna soltanto.
«Vuoi una mano?»
«Tranquilla, ce la faccio. Andiamo insieme fino in fondo, ti va?»
Mentre un gruppo di suoi coetanei ci sfiora con una leggerezza disarmante — odore di sigarette e di birra, vociare di bellazio, oh raga — Valeria mi trascina per qualche metro.
«Dai, papà», non capisco se sia esasperata o preoccupata. Dai, mi tira, mi butta in avanti. Quando arriviamo abbastanza vicini al bordo della pista improvvisamente mi scaglia verso la ringhiera di ferro e rimane ferma a guardarmi mentre sbatto la testa contro il corrimano.
Riesco a voltarmi, le ginocchia mi bruciano come sull’asfalto rovente eppure è tutto gelido e fermo. Qualcuno ci guarda, vorrebbe avvicinarsi. Valeria apre la bocca. Non capisco se stia ridendo o se il freddo bastardo dell’inverno le stia devastando i muscoli della faccia: è un ghigno, un ringhio animale.
Bum! Sei morto. Bum! Bum!
Nora sullo schermo è minuscola, ha una pistola giocattolo. Suo padre finge di essere stato ferito a morte, si butta per terra.
Sei morto! Sei morto!
Alla fine papà si alza sempre, la afferra e la fa volare. La pistola galleggia verso il cielo e finisce fuori dall’inquadratura. Stranamente non sembra tornare mai a terra, come se qualcosa in alto l’avesse catturata per sempre. Riguardo il video più volte.
Bum, bum, sei morto. La pistola riluce sotto un sole estivo dai colori sballati, il rumore bianco finge di essere neve, il papà di Nora finge di essere morto per farla ridere. Ridono, si sparano, giocano alla morte.
Mi rialzo e vedo che Valeria sta ridendo come non faceva da anni. Ha le lacrime che le escono dagli occhi, due righe di vetro perfette, si tiene la pancia. La raggiungo e le faccio il solletico come quando era piccola. Adesso non ha più la pancia morbida dei bambini, sembra una donna.
«Basta, papà, basta!» dice continuando a ridere. Mi allontana, poi mi volteggia attorno.
Io esagero due passi da caricatura e cado ancora, questa volta striscio sul ghiaccio e sento la pelle delle mani spogliarsi di uno strato dopo l’altro: la carne nuda riluce in due striature infuocate sulla pista, Valeria si piega a ridere, non riesce a trattenersi.
Io faccio finta di cadere ancora, mi tuffo nelle pose più assurde che mi vengono in mente: con la testa rivolta al cielo, a quattro zampe. L’unico suono che sento è la risata di mia figlia che si piega e sghignazza mentre mi si gonfiano le giunture e mi si annerisce lo sterno.
Nora mi chiede di starle vicino quando pattiniamo. Non so quanto si fidi, ormai sono bravo mi dice. Come mio papà.
Mentre mi muovo sicuro ma cauto sento che Nora mi perde di vista: c’è troppa gente, troppa nebbia.
«Aspettami.»
Continuo a pattinare, evito una coppietta d’innamorati che si stringono come se fossero dentro un bozzolo, avanzo verso il centro della pista dove stanno solo i professionisti con la loro tecnica invidiabile.
Nora mi chiama, mi dice di stare vicino al bordo, di non strafare.
Alla fine m’inchiodo come contro un muro invisibile. Quando cado vedo un lampo bianco, un pattino mi sfiora la testa. Nora mi si getta a fianco come per proteggermi. «Sei impazzito?»
Sono a terra, Valeria ride di cuore come quando da bambina la facevo volare. Guarda papà, ho le ali. Ora sono io che volo sul ghiaccio come se non avessi corpo. Sono disteso immobile quando un pattino affilato mi trapassa la mano, vedo il sangue sgorgare da un taglio netto ed allargarsi sulla pista. Qualcuno comincia a gridare.
Io ci provo ancora, mi rialzo e fingo di non saper pattinare. È il nostro gioco.
Bum, bum. Vado a sbattere con la nuca contro la transenna, altro sangue, altri sorrisi. Sono morto, sono morto.
Ora Valeria si sta facendo sfumata. La guardo ancora e vedo qualcosa di simile alla gioia, forse sta solo piangendo, forse è veramente felice.
Una parte di me vorrebbe sentirla dire basta, come prima, con il solletico. Basta, papà. Ripenso alla caduta con Nora e mi butto verso il centro della pista, il cimitero dei professionisti. Vecchi atleti in disarmo mi evitano come se avessi una malattia contagiosa. Sono un idolo polveroso, una statua mutilata. Arranco a passi decisi e tragici, dalla mano gocciola una strada rossa.
Alle mie spalle anche Valeria ride, non riesce a smettere. Io mi scontro con la ragazza con lo chignon, con il padre di Nora. I loro pattini mi smembrano, mi allargano lo sguardo oltre ogni limite così posso vedere tutto.
Vedo bianco, poi nero, poi una nebbia pesante che vela lo sguardo di Valeria: un ricordo sbagliato, le sue mani mi sono addosso, mi fanno il solletico, mi perquisiscono mentre provano a farmi riemergere. Io riesco solo a cadere. Sono morto, le dico ridendo, sono morto.
tutte le fotografie di Rebecca Miglino.