Fine del sogno

un racconto di Giulio Iovine,
tutte le fotografie di Andrea e Francesco Segreto.

Ci siamo conosciuti al liceo, ci chiamiamo io Paolo e lei Francesca, il gioco sembrava fatto fin dal primo giorno. E infatti ci siamo sposati. Non subito dopo il liceo, eh, lei ha voluto prima inserirsi in università (è arrivata alla cattedra di Istologia) e io ci ho messo un po’ a seguire le sue istruzioni su cosa studiare e dove cercare lavoro. Devo dire che senza Francesca a spiegarmi le cose me la sarei passata proprio male. Per fortuna è sempre molto paziente con me. E acuta! Per esempio, ha capito al volo che non ero fatto per un mestiere a contatto col pubblico. Quando ha visto come tenevo in ordine i quaderni al liceo, anziché chiamare i miei genitori come aveva fatto il prof di italiano, mi ha detto: perché non vai a fare l’archivista?

Aveva ragione: il mio lavoro all’archivio di stato mi piace. Soprattutto perché ognuno fa quello che sa fare: i colleghi curano i progetti con le scolaresche e parlano con gli storici, io tengo aggiornati i cataloghi e in ordine i fondi. Sono molto affezionato a questa tranquillità, specie dopo gli anni di patema quando Francesca doveva laurearsi, poi prendere il dottorato, poi i contratti di ricerca e le richieste di fondi, insomma quella carriera che ti spreme come un limone — e bisognava vederla in quegli anni mia moglie, le notti in bianco, le giornate in laboratorio, le gare a chi pubblicava prima i risultati dell’esperimento, i convegni in posti inculatissimi tipo Bogotá o Singapore. Viaggiando con Francesca per conferenze ho visto mezzo mondo. L’altra metà la conosco attraverso i suoi amici, tutta gente molto sveglia, sintetizzano una proteina nuova ogni mese ma vanno anche al cinema, leggono — ogni volta che andiamo a un aperitivo con loro mi sembra di tornare a casa con un’altra laurea sul groppone. Francesca ci si mette d’impegno a consigliarmi quel particolare film, quel libro dove potermi documentare, quel documentario che non avrei dovuto perdermi,  altrimenti sarebbe davvero difficile inserirsi nella conversazione . Esco anche con i colleghi di archivio — Francesca mi ha spinto molto perché, ha detto, era giusto che avessi anche cose mie, dove lei non c’entrava. E in effetti lavorare con i cataloghi, negli anni, può farti venire una certa timidezza — farti perdere, se non ci stai attento, un po’ di dimestichezza con gli altri esseri umani. Ma Francesca non me lo fa mai pesare.

Francesca non è stata cattiva con me un minuto della nostra vita insieme.

Ovviamente si è resa conto lei, per prima, di essersi ammalata. Che ne capisco io di certi segnali — se non tossisci e non hai dolori che devi avere? Ma lei è un medico e non la freghi. Mi ha dato la diagnosi dopo avermi fatto sedere sul letto, ci tenevamo le mani. 

«E ora cosa succede?»

«Non è terminale, Paolino. Non ancora. Lotteremo».

«Ne uscirai?»

«Credo di sì».

«Ma sicuro», ho risposto io; e ci credevo, perché lo diceva lei. Mi ha spiegato come si assiste una persona dopo la chemioterapia, cosa può mangiare, quanto può affaticarsi, la sarcopenia e le nausee; e io giù a prendere appunti. Sono molto metodico su queste cose, e poi mi distrae. Non ho creduto subito al dottore quando mi ha spiegato che quello scorso era l’ultimo ciclo e non c’era altro da fare — ho dovuto sentirmelo dire da Francesca: mi guardava dritto negli occhi, spiegandomi che sarebbe morta.

Nei miei appunti non mi ero segnato nulla per quella possibilità.

Francesca sembrava temere che io facessi una scenata. E in effetti da qualche parte nella mia testa, la tentazione c’era. Ma è curioso come certe consapevolezze facciano giri tortuosi. Il cervo che fissa i fari della macchina che sta per investirlo evidentemente non ha capito la situazione, anche se tutto sommato gli elementi ce li avrebbe. Io sono rimasto così, immobile a fissare le luci gemelle della morte. Francesca non è voluta andare in hospice e io l’ho accudita. L’ho vista coprirsi di macchie, come la vite con la peronospora, poi ingiallire — aveva appena le forze per ricordarmi quante dosi di quali oppioidi metterle in flebo. Però riusciva ancora a parlare. Quando ha iniziato ad avere difficoltà, ecco che anch’io ho manifestato certi sintomi — nausea, spossatezze improvvise — la pesantezza di mettere un pensiero davanti all’altro — e non so come, ma proprio in queste condizioni mi è venuta un’idea. Sono scappato in archivio, nei sotterranei, un fondo che conosco solo io perché sono l’unico che ha catalogato fin laggiù. C’era un fascicolo con certe formule e me lo sono portato a casa, con l’idea di fermare la morte di mia moglie: o meglio, finché possibile, di mesmerizzarla.

Se avete letto quella cosina di Poe, quella sul caso Valdemar, non vi devo dire altro. Avrei chiesto il permesso a Francesca, ma era in agonia. Ho posto le mani sulla sua testa, ho cercato i suoi fluidi magnetici, e l’ho fermata sulla soglia.

«Come stai, Francesca?»

Dopo qualche minuto, le sue labbra si sono aperte:

«Dormivo. Ora sono morta».

«Non sei morta, cara. Ti ho presa per i capelli. Ora staremo sempre insieme».

Non ha reagito, quindi ho iniziato subito con le domande. C’era un mucchio di cose da fare e non esisteva che le facessi senza essermi consultato con lei. A parte le scemenze tipo se passare o meno a Vodafone, c’erano problemi concreti: ci scade la cedola per l’assicurazione in banca — che facciamo, reinvestiamo o intaschiamo i soldi per rifare il sottotetto? All’ultima riunione di condominio tutti hanno votato per una sanzione a quello del quarto piano che fa schiamazzi — io cosa devo votare? Hanno messo lo ZTL sul nostro quartiere e le telecamere dove abbiamo il garage, bisogna compilare i moduli per avere il tagliando, come si fa? A questa e altre domande mia moglie rispondeva con poche parole ma molto precise, intervallate da un respiro rugoso — gli occhi socchiusi nella fantasia mesmerica.

Le cose si sono un po’ calmate dopo qualche mese.

Ma la vita è una questione complessa e ogni giorno devi decidere qualcosa. Esempio: perdo i capelli. Non ho ancora quarant’anni e il fatto mi devasta. Sdraiato sul letto accanto a mia moglie, ho discusso con lei per ore se fosse opportuno cacciare i soldi e farmi fare un trapianto. Lei insisteva che era una cazzata. Poi c’erano i suoi amici che adesso, per gentilezza, mi stavano molto vicino. A volte qualcuno mi parlava di problemi suoi personali e io non sapevo che dire. Giorgio dovrebbe rivelare a Sandra di tutti quei soldi che ha perso? Andrea dovrebbe accettare di diventare poliamoroso con Lucia? Mirella è veramente felice di avere due fidanzati, o si sta solo leccando le ferite dopo il trauma di sua mamma? Raccontavo in dettaglio a Francesca le confidenze e mi consultavo su cosa suggerire. Poi c’è stata quella settimana in cui hanno occupato l’archivio e l’università perché il rettore non prendeva una posizione sulla guerra — io di politica non ho mai capito niente, ci voleva Francesca a spiegarmi che posizione era opportuno che prendessi.

Era passato un anno di trance, e stavo accanto a lei a raccontarle che non sapevo se arrischiarmi a compilare i moduli per il mio secondo scatto stipendiale, quando improvvisamente ha inspirato con forza e mi ha detto:

«Paolo, non ne posso più».

Ho deglutito.

«In che senso non ne puoi più, amore?»

«Non ne posso più. Me ne vado».

Volevo far finta di non capire, ma era impossibile. Ho provato ad arginare il fenomeno:

«Non puoi andartene, cara. Ti ho sottratta alla morte. Nella trance mesmerica puoi vivere per sempre».

«Ma questa non è vita», ha gracchiato lei, «Sono un cadavere intrappolato in un sogno perenne. Ci sono cascata all’inizio perché avevo paura di morire, e paura per te, della tua sofferenza. Ora basta».

«Ma come puoi pensare che io ti lasci morire».

«A parte che sono già morta, non devi farlo tu. Se mi concentro, posso uscire dalla trance».

Era troppo in troppo poco tempo. Non riuscivo nemmeno a piangere dal terrore.

«No. Ti prego, no. Non mi lasciare solo così. Siamo stati insieme tutta la vita. Io non so neanche lavarmi i denti da solo. Non so cosa dire al commercialista. Francesca non andartene, ti scongiuro».

«Paolo, mi hai mesmerizzata. Capisci che c’è più forza di volontà in te, più spirito, di quanto credi?»

E qui finalmente ho pianto.

«Ma chi lo vuole lo spirito. Io ho te, mica mi serve altro. Noi ci amiamo e tutto va bene. Sei tu quella intelligente, sei tu quella che bada a me, io in cambio ti voglio bene e ti curo, è così che funziona».

«Spero che un giorno mi perdonerai», ha sibilato lei, «di averti amato così male. Ma non ti chiedo scusa di questo addio. Onestamente, me lo merito».

Si è inarcata, percorsa da un crepitio — come un fantoccio di stoffa pieno di grano secco e stoppie — dagli occhi e dalla bocca sono usciti liquami putrescenti — mi sono buttato sul corpo urlandole di rimanere — e mi si è sciolta tra le braccia in un trionfo di gas e di percolato.

editing di Fabrizio Pelli.

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