Falene 1 – un’aleatoria discesa

un racconto di Sibilla.

Non so cosa scrivere.

Sul serio.

Non so cosa scrivere.

Non parlo della mancanza di argomenti.

Perché io ho cose da dire. Ho così tante opinioni che a volte mi ritrovo a interrogarmi sulla loro effettività. Sulla loro necessità. 

È necessaria un’opinione politica, un’opinione sulle istituzioni, un’opinione sulle persone, un’opinione sulle droghe, un’opinione su altre opinioni. Questo è quello che chiamate importante, sbattendovene allegramente del significato che possa avere il fatto in sé di avere un’opinione, pensando che aver da ridire su ogni minima stronzata possa voler dire essere umani che oltre a usare i polmoni per respirare, fanno anche uso della loro materia grigia. Pensando che vi dia un tono, personalità. Avere opinioni su grandi questioni è la norma, la banalità, la Noia.

Mettiamola così allora: voglio elevarmi.

Sì, al diavolo le farneticazioni sull’uguaglianza, che vogliono sminuire il superbo concetto di superiorità. Al diavolo.

Io voglio andare oltre.

Dicevo che gli argomenti non mi mancano; difatti non nego di avere la piccola stupida pretesa comune di pensare il comune. Ma sono anche un umano così contorto da ritrovarmi ad avere un’opinione sul futile.

Trovatemi qualcuno che abbia un’opinione sul nulla, avanti. Mettetemi in fila tutti quelli che trovate, voglio ascoltarli per gustarmeli mentre si strozzano con la loro mediocrità.

Adoro concentrarmi sul particolare: su quelle cose di cui non ti accorgi minimamente dell’esistenza.

Immaginati una scena come questa.

Cammino. 

No, nulla di che. Vado a prendere il 58.

Buio, abbastanza da ricordarti che adesso le giornate durano sì e no dieci minuti.

Non riesco ad avere la testa vuota. Il mio cervello, compresso nella prigione del mio cranio, non può vagare come vorrebbe, nemmeno il mio sguardo: insieme sono focalizzati sull’obiettivo da raggiungere. Facile, no?

No. Ho già detto che sono un umano contorto. La mia mente non vede l’obiettivo. Mi lascio alle spalle una casa di una borghesia ostentata e mentre cammino vedo uomini, donne, foglie, strade, fumo, sconforto e stasi. Mi concentro su tutto, vedo terribili occhiali rosa, vedo foglie cadute, vedo volti scossi freneticamente dalla percezione. Ogni singolo millimetro di questa realtà fottuta sembra avere vita. Incredibile, sto immaginando ogni storia. Sto realizzando che ogni ridicolo atomo è capace di movimento. Visualizzo ogni minimo particolare di piccole esistenze.

Ho detto stasi?

La stasi è mia e solo mia. Perché non è vero che non ho un’opinione, ho cose da dire. Ma sono capace di essere solo spettatrice. Io sono in bilico sul filo spinato del reale, e guardo tutto muoversi attorno a me, e incurante di me, a velocità straordinarie, disumane. Masse informi sfrecciano in direzioni opposte. Non posso fare a meno di esserne affascinata, il loro essere senza peso, la noncuranza, l’affanno. Io sto in equilibrio, lenta e viscosa, come il tempo. Io e il tempo siamo simili. Sappiamo tutto passivamente, siamo lenti e inesorabili, e fini a noi stessi. Nessuno ci comprende, siamo parte di tutto inconsapevolmente, sappiamo essere solo drastici e fatali. Niente mezze misure.

Tutto o niente.

Vuoto o pieno.

Bianco o nero.

Stento a capirmi. Io stessa, che penso di essere così piena di opinioni, mi rendo conto di quanto sono ferma e non so spiegarmelo, o spiegarvelo. Certo, posso provarci. Potrei provare a spiegare come ci si senta impotenti davanti all’inevitabile fluire, potrei spiegare cosa voglia dire essere estranei al susseguirsi degli eventi, essere passivi a sé stessi, essere riluttanti verso la piattezza che si trova in ogni dannata cosa, essere grati all’assenza negli animi altrui che ti regala spazio e solitudine, bramare la solitudine, e poi rigettarla. 

Potrei spiegare. Ho le capacità, e l’esperienza minima necessaria. Ma non ho i mezzi. Non ho gli strumenti per farlo. Non so cosa scrivere. E spesso, cosa dire. La mia avversione verso il vuoto, e la mia macabra ossessione verso di esso, mi costringono a sentire per liquidi minuti nient’altro che la matita scorrere ruvida sulla carta, che sembra prendere vita sotto le mie mani, come un automa, ma l’automa sono io, una macchina ferma incapace di fermare la propria testa. Vomitando fuori tutto ciò che elaboro nel modo peggiore, mentre prendono forma creature che non hanno nemmeno lontanamente le sembianze di quelle riesco a scorgere in ogni angolo. Visionario. 

Mentre simultaneamente, il pudore di me stessa mi limita.

Riempio lo spazio e il silenzio e la solitudine per sentirne la mancanza ancora. Autolesionismo, necessità, impulso umano, chiamatelo come vi pare. 

Dovreste esprimere un’opinione adesso. Sentitevi in dovere di farlo, sentitevi in dovere di speculare su tutto questo mentre la vostra pochezza esala da ogni vostro pensiero. 

Non lo farete, vero?

Avete più paura di diventare come me, o di esserlo già? 

Noi siamo vuoto. E senza vuoto, tutti noi, tutto, sarebbe infinitamente piccolo.

tutte le foto di Brooke DiDonato.

Leggi anche…

Cacocciola
Fine del sogno
Cartolune #1 | Giovanna Cinieri