Dopo la fine

un testo di Marco Parlato,
fotografie di Giorgia D’Emilio.

Il concierge accompagnò Vargas nella hall. Le chiamo un’ambulanza, ma no, per un mal di testa è davvero esagerato, mi metterò qui, un bicchiere di acqua e zucchero però lo prendo volentieri.

I turisti trascinavano i bagagli con sonnolenza, alcuni avvertivano la moglie o il marito di avere dimenticato qualcosa nel taxi; altri ancora si erano seduti al bancone del bar, dietro il quale un giovane riccioluto mescolava i cocktail con bravura inattesa.

Lo avessero portato all’ospedale, Vargas avrebbe perso la sua occasione, proprio ora che era alla fine. Rimase nella poltrona per alcuni minuti, il tempo di riprendersi dai giramenti di testa, dalle digressioni. Da quanto tempo si perdeva in digressioni? Qualcuno avrebbe dovuto scrivere una geografia delle digressioni, magari Anita lo avrebbe fatto, come gli aveva rivelato una sera sulla spiaggia di Positano.

Davanti al mare si tramano i peggiori propositi, sarà che il rumore dell’acqua sembra mormorare suggerimenti. E invece, a dirla tutta, il mare non ha niente da dire. La frase sottolineata, memoria visiva, quella di Vargas, era in un libro abbandonato nel sottopasso della stazione, la copertina nera, il titolo pigro Nel silenzio del mare, ma l’autore, l’autore bravo, non si fa trovare.

Si alzò con cautela, raggiunse le scale e al terzo gradino, facciamo anche il quarto, Vargas era un uomo energico quando serviva, inciampò e si ruppe i denti. Sangue nella bocca, voci e visi confusi, una sirena, il corridoio dell’ospedale.

Il concierge gli portò l’acqua e zucchero. Va bene anche di canna, vero?

Lo avesse visto il professore, con le sue idee sulla chimica, sul marketing gastronomico… Distratto dai pensieri e dall’ambigua amarezza dell’acqua, tossì più volte. Furono sussulti incontrollabili e violenti, difficili da sopprimere.

Dal bar alcuni si voltarono a guardarlo, mentre dietro al bancone il ragazzo con i riccioli era in difficoltà, non sapeva dove mettere le mani. I turisti trafelati facevano scorrere veloci i trolley, alcuni avvertivano la moglie o il marito di avere dimenticato qualcosa in camera.

Delle dimenticanze, Vargas ne aveva parlato con la madre a fine estate del ‘97.

C’era un film francese in tivù. Forse la discussione era nata perché Vargas ricordava benissimo i dialoghi, ma non la trama. Al contrario la madre avrebbe potuto anticipare ogni azione dei personaggi: il protagonista si sarebbe avviato su per le scale dell’albergo reggendosi al corrimano, pochi pensano a quanto sia invalidante una forte emicrania, e a metà della salita sarebbe crollato, per poi svegliarsi in ospedale, il mattino dopo, in un’altra città.

Accade con frequenza che quando stiamo male, invece di cercare rimedio, preferiamo infierire su noi stessi. Vargas avrebbe bevuto un bourbon, anzi uno per sé e uno per il mal di testa, che stava peggiorando.

Si rammaricò nel vedere l’angolo bar spento. Le vecchie bottiglie sulle mensole suggerivano un passato quantomeno dignitoso. Persino Vargas si stava addolcendo nell’animo mentre ricordava le sue prime esperienze dietro al bancone, c’era ancora il Presidente. Ricordò i colleghi che lo prendevano in giro per i riccioli spettinati, poi la donna che ordinava ogni sera un clover club, e che gli parlava degli inglesi. Dove abitava?

L’aveva seguita una notte d’autunno, camminando fino alla periferia oltre la stazione, mentre passavano le ronde degli insurrezionalisti. Era lo stesso periodo in cui aveva conosciuto Anita e il professore, ma ormai cosa poteva importare? Piano piano erano morti tutti. Sua madre, il professore, Anita, il Presidente, il concierge…

È che non ci conviene tenerlo aperto, señor Guzman, siamo un piccolo albergo, si scusò il concierge, che tirò fuori dalla giacca una fiaschetta. Guzman accettò, pur prevedendo che avrebbe bevuto di nuovo amaro. Ne aveva abbastanza.

Si trascinò su per le scale, due, tre alla volta, Guzman aveva le gambe lunghe quando servivano. Arrivato nel corridoio raggiunse l’unica porta aperta. La porta di uno scrittore è sempre aperta.

Stesa sul letto la donna beveva clover club e leggeva un saggio dal titolo Per una nuova Corona.

Guzman si avvicinò alla scrivania dove stava lo scrittore. Allungò le mani verso di lui e gli chiese di mettere fine al suo tormento. Ma il tuo tormento non posso fermarlo. Passeranno giorni, nella migliore delle ipotesi anni. Poi una sera, attorno a una tavola, la brace ancora calda, tra bicchieri nei quali già scroscia la grappa, una voce chiederà della storia di Guzman; un’altra dirà che era Vargas, impegnato a superare il confine, nel fango e sotto la pioggia; oppure infiltrato nell’albergo della fazione nemica, il tritolo sotto la giacca, una goccia di sudore che gli lecca la guancia… Nulla finirà nemmeno ora che mi stringi le mani attorno al collo. Come vedi ho già smesso di scrivere.

Lo scrittore lasciò cadere la penna sulla moquette. La donna sul letto voltò pagina.

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