Un racconto di Sibilla.
Io e una pistola.
Io e lei.Sospese in una dimensione aliena allo scorrere del tempo.
Io e una pistola e la voce di una donna, nella mia testa.
Suoni vuoti, crepati, sezionati, esposti, puri. Vuoti come in una valle di vetro.
In una valle di vetro ogni minimo urto corrisponde a un suono limpido, definito, a un dolore definito, a una crepa definita. Ogni suono è frammentato, schegge di una valle di vetro. Ogni urto è amplificato. È la mia voce quella che si sente. Nella mia testa. Il rifiuto.
Immobile. Scruto la folla e non posso abbandonarmi e ripenso solo con orrore all’orrore, guardo la moltitudine che si aspetta qualcosa. Non c’è niente se non suoni, etere, vapore sapido e inebriante nelle narici, poi nei polmoni: tutta la materia è andata distrutta.
Non si vede se non dietro a un vetro. Puoi guardare attraverso, ma tutto quello che vedrai sarà distorto. Anche la musica si è distrutta, si è infranta al suolo in mille cocci aguzzi e taglienti che schizzano sulla folla colpendo maldestramente spettatori incauti.
Io continuo a percepire quell’unica voce, nella mia testa. Mi parla di me, della pistola, del momento in cui mi sono distrutta, del niente che sono e del niente che siamo, e di tutte le cose insignificanti a cui non posso rinunciare perché perderei me stesso, ancora della pistola, della pistola che non voglio puntare, della prigione e del carnefice che amo.
Mi chiedo se sono, se sarò solo una vittima.
Non guardo mai niente. Non guardo più niente. Non guardo nessuno. Il mio sguardo freddo si è perso tra la folla, è di tutti e di nessuno, è mio ma non mi appartiene più. Mi abbandono, non ho sensi, mi muovo nell’aria, una scheggia di vetro sulla tempia, il sangue freddo e caldo scorre sulla pelle, mi muovo più quieta, più vuota, i capelli sulla schiena, il contatto viscerale e involontario con gli altri.
Vorrei cercare Dio, ora più che mai. Non il vostro, il nostro. Vorrei cercare il mio Dio, ma non voglio trovarlo, non voglio fermarmi. Sono sicuro che è nella sua ricerca, almeno in parte.
Vorrei scendere dall’altitudine vertiginosa della quotidianità e cercarlo. Vorrei trovare il mio Dio e chiedergli di riscrivere tutto daccapo, in una lingua comprensibile e meno dura, vorrei non dover leggere tra le righe. Lo cerco nella violenza dei suoni, nella prontezza delle immagini, nella schiettezza dei colori che sfuggono, nella folle massa di corpi brulicanti che mi risucchia come in buco nero, annullandomi.
Ma intanto mi ritaglio uno spazio di un’ampiezza singolare.
Ci si può solo muovere nello spazio. Non lo si possiede mai.Nemmeno la sicurezza di poter premere il grilletto di quella dannata pistola ti rasserena. Essere solo, in mezzo a tutti, è l’ultimo dei drammi. È essere sospesi, è sempre essere sospesi, fluttuare sugli altri e sulla loro insufficienza, leggero, anche mentre i suoni distruggono la tua mente e ti svuotano, è sempre quell’unico tassello dei tanti tasselli che costruiscono i momenti a scavare quella voragine infinita nel mio petto.
È la completa assenza di empatia, il senso di isolamento, non è mai solitudine, la solitudine arriverà dopo.
Quella pistola non l’ho nemmeno mai cercata, ma so che è lì e mi appartiene, ha il mio nome muto e silenzioso inciso sul calcio.
Vorrei cercare Dio, solo per dirgli che si sbaglia, su di me.
Tweet
Che per me forse c’è ancora tempo. Che ancora non posso sparare. Che quella folla mi mantiene irrimediabilmente viva, che il suono è vivo e mi mantiene viva, che il mio sangue scorre, denso di significati, scorre impetuoso come un fiume in piena, travolgendomi. Devo dirgli che la musica è ancora troppo forte, troppo piena, troppo intensa, che voglio i suoi proiettili in tutto il corpo, che posso tenere la pistola in tasca, ma solo se è scarica.
Resterò fino al mattino. Il grigiore domenicale mi ferirà le pupille.
Dimenticherò la pistola. I capelli pesanti mi cadranno sugli occhi chiusi, mi accarezzeranno il viso tra i sobbalzi del pullman. Il sonno arriverà come un macigno, come un regalo, come la morte.
Vorrei cercare Dio e contrattare.