DADP – Cronache di dignità autonome prostituzionali

un racconto di Vincenzo Carriero,
editing di Alessandro Tesetti.

Guarda me, o forse guarda solo verso di me, non saprei dirlo. Dà le spalle a una finestra, con il mare e l’ombra del Vesuvio che ci passano attraverso, la città che dorme, millemila luci di palazzi e lampare. È tutto rosso qui dentro, stesso colore della tuta che indossa, rigida di plastica, che stritola le curve, i fianchi, il seno piccolo, le braccia sottili; fa così caldo che l’aria è densa e si attacca alla pelle, e lei si muove, leggera che non sembra accorgersene. Mi fissa ancora, la mano aperta, il palmo a controllare se sta piovendo. Sorride appena. Tre dollarini, dice, è questo il suo prezzo. Tariffa ufficiale di cronache autonome di dignità prostituzionale. L’arte si paga, ammonisce, che poi Papi magnaccia sta fuori e aspetta. Severa, quasi alterata incazzata con chi insiste e spera di tagliare, sfruttare, scroccare, le prestazioni mercanteggiare. Funziona sempre e proprio così. Guarda me, verso di me, adesso è certo. C’è un abisso nei suoi occhi truccati sfumati affamati, lo stesso buco, lo stesso specchio in cui ogni sera anch’io mi specchio. Un passo, mi sfiora, si struscia, alla fine mi abbraccia, mette una mano nella mia tasca, il suo odore dolceamaro arriva e sa di mandorla. Ha gocce nere sulle guance, ci sono due centimetri che mi separano dalle sue labbra. Ci penso, si smarca, ripete le sue moine con gli altri. È un movimento lento, sicuro, i denti bianchi sbucano, scappano e ciao, dice, ciao. Lo dice a tutti, uno per volta, ciao, ciao, ciaociaociaociao. Nessuno risponde. Recita la parte di una puttana, talmente bene che tutti la trattano proprio come se lo fosse. Una cosa senza anima, solo corpo, un bel corpo da toccare, sfruttare, tagliare, scroccare, buttare. C’è uno che si rifiuta, non vuole proprio pagare. Stallo messicano, fine contrattare, fa una sorta di segnale, Papi che entra e via, il tipo a rotolare giù dalle scale. Urlare, n’è vero, fa male?, dice e guarda di nuovo il mare. Eggià, sussurra, mentre si gira e smiccia tutti, ti dico ciao e so già che cosa pensi; al modo più semplice e veloce che hai per cacciare il cazzo dalle mutande. E farmelo assaggiaretoccaresentire. Non vedi l’ora. Ti dico ciao per educazione, e tu pensi che io sia un bel troione. Funziona così, pure al ristorante, che sono col mio uomo, cameriere, ordinazione e ciao, dice e si inceppa, sgrana gli occhi, si porta le mani alla bocca. Non lo avessi mai detto, sussurra. A casa sono botte e due parole messe in croce. Puttana, mi urla, come se bastasse un semplice ingenuo innocuo ciao per farlo cornuto. E mentre sono a terra, che l’uragano passa e mi travolge e mi stecca, ammacca, e dopo un poco mi lascia, ci sono le coccole, le parole dolci di scuse, e il sesso che aggiusta tutto, per lui, che mi chiedo, ma è lo stesso di prima? O era un altro? Mica l’ho mai capito.

Invece, dimmi, e guarda me, se fossi un cesso? Ti dico ciao e pensi, che cazzo vuole questa?

La tenerezza. Non spengo mai la luce, sai?, ché il buio mi spaventa. Da quando, quella sera, in un tunnel fumoso di metropolitana, ciao, gli ho detto, e lui mi ha preso, e io non voglio, gli ho detto, non voglio. Ma lui voleva poteva prendeva. E mi ha lasciata così, come una carta sporca. E delle carte sporche, lo sai? non frega a nessuno. Avevo la minigonna, forse bevuto, fumato, chissà. Non ricordo. Ricordo solo il suo alito, e le mani, il sangue, la gente che passava e non chiedeva. Se ti devo dire chi mi ha fatto più male, beh, ho una bella difficoltà. Il giorno dopo sono tornata al lavoro. Di quello che è stato, non ne ho parlato a nessuno. Ciao, ho detto a tutti, che stavano con la testa sugli schermi a scrivere spiare sbavare, mai pensare. Eggià, le relazioni, ormai sono delle prestazioni occasionali. Avevo dei progetti, ma da quando ho un contratto a progetto, pagato meno di quello del mio collega con l’uccello, il mio progetto è diventato quello di avere un progetto.

Che poi un progetto ce l’avevo. Quando mi sono accorta di essere incinta, oh, all’inizio mi ha fatto un po’ paura, te lo confesso, ma poi, non lo so, sarà stata una cosa naturale, che forse avevo l’età giusta, un compagno da sposare, insomma, credevo di sognare. Disegnavo il suo profilo su di un foglio bianco, immaginandolo. Il taglio degli occhi, il naso all’insù, eppoi le mani, piccole, curiose, da esploratore. Chissà perché, sentivo fosse un maschio. Come te, come voi. Sempre figli di donne siete, anche se a volte ve lo dimenticate. La prima volta che abbiamo ascoltato il suo cuore, io ti giuro, è stata una cosa irreale. Ho cominciato a credere nei miracoli. I miracoli danno speranza, cos’è la vita senza speranza? Quando ho dovuto abortire, la speranza l’ho persa. A cinque mesi, che il mio bambino era tutto bello e fatto, fatto pure il corredino e la sua stanza, me lo ricordo lo sguardo, che il dottore la speranza l’aveva persa da un sacco di tempo. E pure la carità. Mi hanno tagliato, me lo hanno strappato. Avevo il seno gonfio di latte. Sai cosa significa averne e non poterne dare? Puoi immaginare il dolore? Che il seno ti scoppia, e ti scoppia anche il cuore. Le pillole, ne ho prese tantissime, per farlo sparire, il latte, il dolore. Ma quello resta, per sempre.  

Silenzio, se ne sta immobile per qualche secondo, sembra un manichino.

Ciao, dice a un certo punto, e mi stringe la mano. Ciao, dice ancora, e la stringe a tutti, uno per volta. Ciao, che sono madre, sorella, moglie, amante, amica, compagna. Ciao, ti dico quando ho bisogno di farti capire che esisto. Ciao, quando l’unica cosa di cui avrei davvero bisogno è un abbraccio, ciao, quando una parola mi basta, ciao.

tutte le fotografie di Marika Pitti.

Leggi anche…

Fine del sogno
Cartolune #1 | Giovanna Cinieri
La Gardiniza