Da fare a primavera, perché è più crudele

un racconto di Mattia Alari.

Si dice che i traghetti ancora passino o forse non lo dice nessuno.

Il molo oltre le reti piegate in avanti e completamente sradicate dai paletti è rosso di ruggine dov’era bianco. Tutto è fermo. Non ci sono navi se non un paio di vecchi rottami divenuti nidi di uccelli di mare. Un paio di pescherecci a pezzi, finiti dove c’era il vecchio parcheggio, sembrano quasi scheletri di astronavi precipitate da altrove e in fondo lo sono.

La giornata è serena e non vi è neanche la brezza fresca che spesso vi è sui moli.

Il mare sembra un familiare linoleum grigio perfettamente disinfettato. È ondulato controluce come il pavimento di quel lungo corridoio e penso che l’acqua sia strana, non fa quel giusto odore di porto che dovrebbe avere ma quasi quello che faceva il reparto. Non è un buon odore. Attorno però sembra tutto pulito, anche se lo è perché semplicemente non è più sporco.
Si potrebbe mangiare a terra, se non fosse per i calcinacci, i cumuli bruni di alghe più o meno secchi e la ferraglia sparsa qua e là, come se qualcosa fosse esploso. Si potrebbe fare, senza ammalarsi. Ma non è certo una cosa da fare. Il molo non è un piatto. Ma è vuoto come un piatto in attesa. 

Il momento migliore per visitare l’arcipelago di E. è certamente questa coda della primavera. Le stagioni da queste parti sono tre, la primavera solo alcuni anni, e diversamente da altrove i momenti dell’anno si somigliano come gemelle identiche con addosso vestiti diversi.

Le mie sorelle Ada e Livia erano uguali, a parte che per una differente sfumatura negli occhi chiari.

Solo la voce era di due persone completamente diverse e forse era giusto così ma al tempo stesso lo trovavo inquietante. Se penso come sono finite, ovviamente insieme, non mi meraviglia affatto che nella vita niente sia stato sufficiente a dividerle. Loro erano l’uovo rotto perfettamente a metà. Destra e mancina, le immagino schiacciate dalla Morte con un applauso in aria, come si fa con gli insetti molesti quando non fanno riposare in pace. In effetti le ricordo sempre parlare tanto, in continuazione.

La Morte somiglia molto a mia madre, che oltre una certa ora mandava tutti a dormire per forza. E dovevamo stare in silenzio, con gli occhi ben chiusi o aperti e ciechi, poi era una scelta. L’unica che ci lasciava.

Da anni pensavo sempre a comprare un biglietto per un giro nell’arcipelago. Un biglietto aperto, senza una data. Ma l’annuncio del matrimonio di Maria, la maggiore delle mie sorelle, avrebbe cambiato il mio programma in ogni caso.
Poi le cose sono andate come si sa e quindi ho dovuto rimandare il viaggio spostando la mia partenza a primavera, sicuramente il momento migliore.

Ho messo in valigia metà di un vestito elegante che ho trovato, ho indossato già la giacca, e quindi ho portato tutto ciò che resta al molo dei traghetti. Certo, arrivare è stato più difficile di quanto sarebbe stato prima e la differenza non è solo nella piega differente che ha preso ciò che indosso, ma non importa. Si fa come si può e alla fine si fa come si deve.


Una guida turistica di qualche anno fa direbbe che arrivati a S. si è accolti da un incantevole schiera di colorate case in stile isolano, che incorniciano il porticciolo in modo romantico. In realtà le case sono meno aggraziate di quello che sembra dalle foto e l’isola è piccola e non la più bella dell’arcipelago. Ma tutte queste cose sono secondarie e suppongo che sia una scelta sentimentale volersi sposare nel luogo in cui si è persa la verginità un pomeriggio in cui si pensava solo di voler dormire.

Il Quisisana è il vecchio ospedale dell’isola fondato dall’arciconfraternita degli Spagnoletti, poi cacciata via da S. perché accusata di essere un covo di pericolosi dissidenti. 

Negli anni Settanta dell’Ottocento, il Quisisana smise di essere un ospedale e diventò un albergo di lusso, rinomato a livello internazionale. La camera con vista mare, regolarmente con terrazzino, è normalmente al doppio del prezzo rispetto a quella con vista sul monte, ma credo sia stupido scegliere di fare economia all’ultimo momento. I soldi tanto non restano, neanche quando li hai ancora in tasca. 

In quella del mio cappotto restano cartacce varie e un bastoncino di cannella sbriciolato, qualche buccia da rosicchiare e una strana mela selvatica precoce, poco più di un fiore, come l’altra che ho mangiato. Forse ho due vecchie lattine di minestra nella valigia, ma sono perfettamente chiuse e non come le altre che erano in giro quando me ne sono andato. Risparmiare non è mai saggio, decisamente.
Ma a questo punto riservo l’appetito per la cena di benvenuto.

La tabella degli orari dei traghetti è piegata come un foglio di carta straccia ed era di spesso metallo e così le reti dei recinti abbattuti anche dalla rovina. Incastrate nelle loro maglie metalliche, come cuciture, delle ossa lunghe, e forse i calcinacci non sono solo tali ma ci sono anche denti, vertebre umane e frammenti e tutto ciò che resta anni dopo l’ultima partenza ufficiale da questo molo. Forse dentro la costruzione qualche corpo è rimasto intatto nel suo incastro originale, orfano solo delle sue parti molli, ma non mi interessa certo trovare qualcosa che non cerco.

Mi chiedo come mai c’è ancora tanto disordine e le cose piccole non sono già diventate sabbia o finite chissà dove, con l’acqua che si ritira.

Penso che la biglietteria stia per crollare ma probabilmente lo farà senza rumore. Ho un dubbio: non so se quello che vedo in giro c’è davvero o c’era. A volte io vedo cose che non ci sono da tanto tempo. 

Nella camera 45 del Quisisana, dopo la gita alla cava e il bagno in spiaggia, me ne andai a riposare da solo.

Salire e scendere dai lunghi gradini del borgo, e farlo sotto il sole, mi aveva affaticato molto anche se avevo quindici anni. Doveva essere primavera invece era già estate e l’estate isolana è calda in modo che ti apre come fa con le pietre. Ma un corpo non è di pietra e non è molle. E’ una strana via di mezzo. E quando Maria venne nella camera 45 a spogliarsi del suo costume bagnato d’acqua di mare, e molto più di sudore, non si fece subito la doccia ma mi spogliò del poco che mi copriva.

Si mise su di me, mise le mani sulla mia pelle e mi sussurrò dolcemente che ero bello. Scottava per il sole che aveva preso e l’aveva scurita facendole più bianchi gli occhi. Maria non disse altro, ma la sua bocca mi cambiò com’era già cambiata lei e mi ritrovai tra le sue cosce, a cercare affannosamente da dove proveniva l’acqua densa che la rendeva scivolosa e mi aveva già bagnato l’addome e il sesso. Quando le spinsi dentro mi feci male e ne feci a lei. Poi la marea salì, diventò rossa e tutto cambiò e ci piacque, tanto, nonostante tutto quel sangue sul letto e le nostre grida. E urlò anche nostra madre, entrando nella stanza, mentre le venivo dentro.

 A primavera c’era un’aria così ferma che quell’urlo durò sospeso per anni. Ne sono sicuro.

Almeno fu così nella mia testa, mescolato a tutto il resto e l’odore di ferro dolciastro che avevo avuto addosso, qualcosa che l’acqua non riesce a lavare neanche da questo molo e che resta, presente, come l’impressione che nonostante tutto il traghetto debba arrivare puntuale.
L’odore di disinfettante torna, non penso che sia il mare a farlo ma il mio cervello. Ho trascorso dieci anni rinchiuso da dove poi sono uscito da solo e perché le porte erano rimaste aperte mentre tutti scappavano.
A volte le storie non sono quelle narrate.

Il Quisisana rimase patrimonio di S. nonostante la cacciata degli Spagnoletti, che non erano affatto dei dissidenti. Sembra che una questione di debiti del viceré fece diventare il loro esilio un’urgenza politica. Altre volte però, le storie non sono raccontate affatto e diventano incubi.


Mia madre disse che avevo violentato mia sorella e lei tacque, come davvero le avessi fatto il male che dicevano.
Non ricordo molto dopo quella porta aperta. Ma nonostante per anni mi sia stato chiesto di tutto e soprattutto cosa fosse successo nella mia testa, io non ho mai detto niente di importante e quello che è successo davvero è rimasto tra me e Maria.

Penso che le mie sorelle volessero che nostra madre si uccidesse. Lo fece poco dopo e sono certo che per loro fu una liberazione. Dopo ogni cosa riapparve nostro padre, che per anni aveva assecondato la sua malattia mentale e le aveva permesso di farci tutto quello che riteneva giusto. Chiusi in collegi e poi nelle stanze di casa, noi eravamo i suoi eterni bambini. Sempre soli. Lei ci lavava anche quando non ne avevamo bisogno o non volevamo; ci controllava e ci rovistava dentro e fuori. E quando io reagivo con fastidio al suo toccarmi come faceva, mi puniva facendomi del male.

Le mie sorelle si consolavano baciandosi tra di loro.

Maria decise solo di baciare anche me.

Mio padre non ha mai voluto vedermi ma so che qualche volta sono venute a trovarmi Ada e Livia. Maria non l’ha mai fatto. La nebbia che sembrava avvolgere tutti i giorni si è mangiata anni e anni e quando mi sono specchiato, di nuovo cosciente, mi sono ritrovato di colpo un uomo che non mi sento di essere. Ho però ben ricordato le parole di Ada sul matrimonio di Maria ad S., proprio sull’isola, proprio al Quisisana. Ripensandoci sono sicuro che avesse prenotato anche la stanza 45, e molto tempo prima. Come avrei fatto anche io.

Poi il mondo ha iniziato a tremare, inclinarsi come fanno i ponti delle navi prima di affondare.

Non so se sia avvenuto di colpo, visto che non ricordo molto dell’inizio, ma è successo qualcosa dopo quel catastrofico terremoto. Pare dipenda dalla luna, non è più come prima anche se in cielo lo sembra. Le maree sono violente, altissime. E non sono prevedibili. Forse è la fine del mondo. O forse il mondo sarà diverso. Intanto la gente scappa in tutte le direzioni ma ovviamente mai verso i moli. Io però ho un biglietto che voglio usare e sono il testimone di nozze di mia sorella, anche se Maria non l’ha mai saputo.

La giornata è limpida come non è stata mai in questi giorni di viaggio. È un Maggio caldo, proprio come l’ultimo che mi ricordo e come è stato quello dell’anno scorso, a quanto pare.
Da qui non sarebbe possibile scorgere le case colorate di S. , ma se non vedo almeno il profilo della montagna di pomice è perché l’isola è sprofondata esattamente un anno fa.
Ormai le stanze del Quisisana sono tutte vista mare e a portata di chiunque decida di pagare pur di arrivarci.
Quello che ho attorno dice che da qui la gente è scappata, qui la gente è morta.
Non ho idea di dove siano finiti quelli che hanno preso le navi. Io penso solo che sono in ritardo e, in qualche modo, so che sotto il mare c’è anche Maria. Forse nella camera 45. Nuda sul letto.
Ma stavolta so bene che nessuno aprirà la porta.

Forse è un’impressione, ma c’è uno strano rumore che viene da lontano, sotto le grida acute dei gabbiani. Un suono cupo. La Morte somiglia molto a mia madre e forse questo è l’eco del suo urlo.
O forse sono le mie sorelle che continuano a mormorare.

Non so se ciò che sento sia vero o se è l’acufene che ho nelle orecchie da tanti anni, ma credo sia meglio finire di vestirmi, darmi una pettinata… Cercare di fermare le mie mani che tremano.
Mangerò la piccola mela, toglierò le bucce dalle tasche e sarò bello, come mi ha detto Maria quel giorno.
Sono sicuro che c’è abbastanza tempo per darmi una sistemata e smettere anche di piangere. Deve essercene.

È un bellissimo giorno di primavera. Ma forse è giusto che morire sia così crudele anche per me.


all pictures by Jan Khür.

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