Conseguenze e arbitrarietà

un racconto di Tarek Komin.

Conseguenze e arbitrarietà. Dovessi sintetizzare in due parole la descrizione del mondo in cui vivo, come fosse un esercizio con cui valuto gli alunni, probabilmente userei queste.

Almeno per questo esatto momento.

Soffocato dal fazzoletto che mi chiude la bocca riesco a malapena a respirare, figuriamoci a parlare o scrivere. Le ginocchia sul selciato, fatico a stare immobile come dicono. Mi muovo, anche se tutto sembra avvenire in modo rallentato.

 Ed è forse questo a salvarmi dalla paura che avverto pronta ad aggredirmi se solo abbassassi la guardia. No, devo continuare a osservare, a registrare nella mente ciò che accade intorno. È sempre stato il mio modo per distaccarmi. E adesso mi ci aggrappo.

Del resto cosa deve fare uno scrittore se non osservare?

Ma non riesco a stare fermo. Dannata sindrome di Osgood-Schlatter, ho sempre pensato fosse un nome del cazzo. L’ho sempre chiamato l’osso in più del mio ginocchio, così, forse per sentirmi speciale.

Il dolore sale. Le mattonelle sono umide e mi manca l’aria. Un uomo mi scuote di nuovo le spalle per farmi sollevare il busto. C’è molta gente intorno, cupa cerimonia pubblica. Qualcuno deve aver iniziato ad alimentare il fuoco perché la luce riverbera sul lastricato e arriva anche un soffio d’aria calda sulla punta delle dita che cerco di allungare verso la fonte di calore da qualche parte, dietro la mia schiena.

Non so di preciso dove sia e le manette che mi serrano i polsi sopra il culo non agevolano i movimenti. Però, prima che mi facessero inginocchiare l’ho visto, sembrava un braciere medievale.

Conseguenze e arbitrarietà. Quanto tempo sarà trascorso da quando mi hanno condotto qui? Stanno iniziando ad allontanare i curiosi da me. La polizia crea una sorta di cordone. Lo so perché l’agente esecutore, come lo hanno definito al processo, mi ha strattonato trascinandomi sulle mattonelle per avvicinarmi al fuoco che sta rintuzzando.

Ho dovuto per forza alzare il capo e guardarmi attorno.

Anche il giudice è arrivato a presiedere e vicino alle due auto delle forze dell’ordine lampeggia un’ambulanza. So cosa accadrà, mi è stato descritto al processo. E da lì mi sono imposto di osservare. Il tempo sarebbe rallentato ma forse avrei sofferto meno. Per ora funziona a metà.

La paura c’è e da qualche parte dentro me ha iniziato a recitare il suo monologo. Processo, poi. Lo chiamano così. Perfino i nomi sono arbitrari in questo mondo dove occorre prestare molta attenzione alle relazioni e alle loro conseguenze.

Come siamo arrivati a questo? In passato era diverso ma oggi funziona così, altrimenti non sarei inginocchiato vicino a queste fiamme che il custode sinistro stenta a mantenere dome. Sta armeggiando con dei ferri. La paura è più forte e la piazza più silenziosa. Non devo agitarmi, mi ripeto, ma mi manca l’aria con questo affare in bocca. È difficile. Qualcuno mormora un oh di stupore.

Mi volto a sinistra, verso il giudice. È arrivata.

Sarebbe naturale odiarla. E io la amo. L’avessi abbandonata, tradita o perfino maltrattata, qualcuno ancora lo fa, tutto ciò sarebbe giustificato, sensato e perfettamente logico per le leggi che governano la nostra società. Non si può far soffrire la donna in una relazione, ci sono conseguenze, lo so.

 Deve essere lei a decidere se e quando farla finita, solo così l’uomo è libero e salvo dalle conseguenze, so anche questo. Ma io la amo, non l’avrei mai lasciata. E non per il terrore del processo. Quando lo ha fatto lei è stata una deflagrazione improvvisa.

Come se la mia anima fosse un bosco e il suo abbandono un ordigno esagerato e repentino. Mi sono sentito raso al suolo, cancellata ogni forma di vita. In quel dolore ho pensato solo al dolore. Il processo, nel nostro caso, era insensato e innaturale.

Sapevano bene che eravamo una coppia.

Abbiamo dormito insieme un paio di notti soltanto. Indimenticabili. Ma i nostri nomi sono stati registrati, le posizioni codificate. Eravamo una coppia. Gli organi di controllo lo sapevano. Bene, benissimo. Una coppia giovane, felice. Una fiammata incontrollabile. Un pugno di settimane, poco meno di tre mesi di estasi. E poi l’abbandono improvviso, l’ordigno fatale.

Conseguenze e arbitrarietà. Mai avrei pensato però potesse trascinarmi in questa situazione. Ma l’arbitrarietà è un principio altrettanto importante oggi, purtroppo. Neanche una volta sono venuto a conoscenze di donne che ti lasciano trascinandoti a processo. Accade quando è l’uomo ad agire, anche se sono rare le condanne pesanti come la mia.

Ma le leggi e la loro interpretazione sono parziali. Il potere è fazioso, nascere donne o uomini oggi è vitale per questo esercizio. Buonsenso, a quello avrei dovuto appellarmi? Dopo la deflagrazione della mia esistenza che ha frantumato quel breve assaggio di felicità, cosa ho fatto per meritarmi questo? Non le ho più parlato né potuto sentire la sua testimonianza.

L’udienza è stata breve. In metà pomeriggio tutto è stato deciso.

La pena immediata. Come da norme lei è arrivata ad assistere. Cerco i suoi occhi, distoglie lo sguardo dal mio parlottando con il giudice. Dio, quanto è bella. Forse troppe volte gliel’ho detto facendo l’amore. Si è semplicemente stancata anche se affermava il contrario? Ma perché punirmi?

Le voci del pubblico iniziano a crepitare, come il fuoco che richiama la mia attenzione.

L’agente esecutore ha afferrato l’asta di ferro con il marchio e ne ha immersa la punta nel cuore delle fiamme ardenti. La polizia fa avvicinare il personale medico. Non riesco a stare fermo. Tremo. La paura ha preso le redini, lasciandomi un filo di lucidità.

So che quelli con il camice bianco interverranno quasi subito, che non morirò qui in questa piazza indifferente, sul lastricato umido. Ormai non si muore più dopo i processi. Non morirò, ma sarà terribile. Respiro a fatica. La guardo. Adesso anche lei ricambia. Il mio aguzzino ha sollevato lo strumento incandescente dalle fiamme.

Mi ha levato il fazzoletto. Non ho fiato per urlare. Non ho aria, né voce. Non è stato un gesto di misericordia. L’uomo ha liberato il mio volto, la mia faccia, studiando la carne. Lascio andare verso lei, disperatamente e per un’ultima volta, l’occhio che forse non sarà recuperato. La mia faccia. È qui che sto per essere marchiato. 

all pictures by Dino Kužnik.

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