un racconto di Apolae,
editing di Tommaso Contò.
Una delle mie sfighe più grandi è stata nascere in inverno, capricorno disgraziato, che le donne girano tutte coperte nei dintorni dell’Arena, ghiaccio al mattino sul parabrezza, pioggia su temporali e poi séparé di nebbia fino a notte fonda, talvolta spruzzate di neve, quindi i piedi covano nello scarponcino, le caviglie al caldo sotto i cento denari, di polpacci manco a parlarne, se non per leggings aderenti che concedono i contorni della forma. Stessa cosa per cosce e culetti, con sparuti episodi di scollature nel tepore degli uffici o un piede ossuto svelato da una slingback. Beata sia la palestra, amen, consacrata a caccia e pesca, anche soltanto a un discretissimo girl-watching, ed ecco carni pallide e sudate torcersi e flettersi, appiccicate a tessuti tecnici tra una ripetizione e il minuto di riposo speso a guardarsi attorno, magari un po’ sul vago, infoiate ma sobrie, attorcigliando una ciocca di capelli sull’AirPod spenta.
Miglior sorte pare toccata alla mia leonessa, criniera fulva e zanne spuntate, nata a fine luglio nel pieno del calore e allora privilegiata dalle pelli bronzate, scoperte in riva all’Adriatico, ogni anno estate a Pescara perché ormai lei ne ha uno fisso, l’ho viste le sue spalle capaci, il petto a due ante, la testuggine incastrata nello stomaco e chissà là sotto, cristosanto, mia moglie è esigente e non mi tradirebbe mai per meno di 20-22 centimetri. Le piace fare robe che io non riesco, ci ho provato, ma le voglio troppo bene e ho paura di toppare. Ne ho preso atto. Lei sotto il cerchio della palma Harmony e occhiata rapace, io la lascio fare, gonfio il materasso e via bagnetto coi nostri bambini, Ma dov’è la mamma papà, Arriva amore arriva, E quando arriva, Aspetta aspetta viene.
Una notte Roby s’era inventata questa storia dei compleanni speciali, astuzia diabolica, che onestamente sa sfruttare molto meglio di me. L’aveva buttata lì nelle secche di una scopata fiacca, Ma una scappatella ogni tanto che ne dici, Scusa in che senso, Nel senso che hai capito. Sapeva che avrei detto sì mentre mi stringeva le palle tra le dita e mi premiò con un servizietto di fino, fissando pensosa le tende grigie della camera. Quella notte recuperammo una scheggia della nostra libertà, barattata con un paio di macchie nere sulle caselle del calendario. Due finestre scure nelle quali non ci era dato sbirciare. Lei qualcuno già l’aveva in serbo, credo.
O forse voleva solo il mio permesso di regalarselo, quel grosso pacco estivo.
Io trovai il mio presente alle poste di Porta Vescovo, in una fila estenuante per pagare dei MAV. Aspettavo accanto al totem dell’ingresso e al touch screen s’accostò una signora fisico asciutto, caschetto platinato e labbra procaci, Che bilieto devo prendere, Dipende da cosa le serve, Devo mandare soldi a mia familia, Guardi prema qui Effettuare Vaglia, Lei è molto gintile grazie. Aveva voglia di attaccare bottone, Mara, che di quelle operazioni ne aveva fatte a dozzine pure se fingeva, male, di essere spaesata. Viveva a casa di una vecchietta col Parkinson. Passeggiatina e tv, pannoloni e telefono, fine settimana al parco con le altre badanti per tornare a parlare nella sua lingua, se scappava giusto una pizza in un posto economico, riassumeva loquace puntando la patta dei miei jeans quando era sicura che me ne sarei accorto, il suo occhio di steppa sulla curva della mia patta, il mio sguardo caduto nella sua bocca, occhio e patta, occhio e bocca, occhio, patta, occhio e bocca. Mi lasciò il suo numero al termine della fila, Prendi mio numero, Ti chiamo presto, Volintieri. E così quell’inverno mi scaldai coi baci a strozzafiato di Masha, che sparse la voce tra le amiche sedute in panchina, membra intorpidite alle quali bastava una scintilla per riaccendere il fuoco sotto la cenere. Uno spritz o una vodka per cominciare, a volte dritti a casa saltando i preliminari, come con Alyona e le sue spagnole debordanti, i pompini vischiosi slappati da Vesna, le seghe a martello specialità di Tatiana, le cavalcate telluriche con Larissa in sella, le frustate imperiose che Oksana mi ha sferzato. Sono entrato nel loro giro e una volta l’anno mi faccio vivo, a volte strafaccio e mi prendo il bis, se c’è una nuova arrivata mi propongo Cicerone. Alcune sono stagionate ma portano in dote figlie superbe, stangone inarrivabili, che lusingo ma non ho il coraggio di abbordare.
E no, non me la prendo più. Ci passo sopra.
Mia moglie mi punzecchia davanti ai bimbi ipnotizzati dalla tele, lei ci gioca sul fatto che tendo al possessivo, Tanta roba il mio regalo grazie, Ma scherzi te lo meriti amore, Non vedo l’ora che torni l’estate, Smettila su non farti sentire, Dai Sergio a gennaio tocca a te, prima di mettere in tavola qualcosa da mangiare, imboccare Bea di pappa verdastra e chiedere a Leo com’è andata a scuola. La cena scorre liscia, il cibo è perfino buono, nulla da lamentarsi. A fine pasto sparecchiamo tutti insieme, ci teniamo moltissimo. Anche la piccola sfila il bavaglino in autonomia e lallando picchia il cucchiaio sulla ciotola. Io e Roberta scrolliamo la tovaglia dalle briciole e scambiamo un sorriso complice.
tutte le fotografie di Mia Battimelli.