Colpire duro

un racconto di Giorgia Mosna.

La prima volta ti ho vista in stazione. Chinata sul libro, masticavi la gomma della matita come alle elementari.  Quello spazio aperto tra i denti era un invito. Mi sono seduto accanto a te e ho accettato il libro.

Cosa mai avresti potuto leggere di così complicato che non potessi anche io.

Invece mi ci sono scervellato, addormentandomi che mia madre il giorno dopo me ne aveva dette, a colazione. La luce, la luce, aveva detto. A me era piaciuto che qualcosa di tuo mi impedisse il buio, la notte, il dolce peso delle pagine sul petto. Ricordare i capelli chiari scostati dal passaggio del treno che nessuno dei due aveva poi più preso.

Ti ho restituito il libro, mi sono scusato.

Avevo la sensazione che ti sarebbe piaciuto, questo tipo di uomo, capace di dire che non era capace. Tu hai fissato la siepe stringendoti  il libro, come  se fosse più delicato del mio cuore.

Hai spinto la lingua in mezzo agli incisivi, e mentre mettevo a fuoco le papille lustre di saliva la scolaretta spariva. Eri tu, ma così distante da come ti avevo inquadrata.

Nascosto in una fetta di buio ho fissato le luci del palazzo: accese, spente, di nuovo accese. Ho capito così, dov’era che abitavi, al quarto piano. Quattro finestre, il balcone, le tende color miele. Hai spento la luce all’una, quella sera.

Ho ricomprato il libro. Non riuscivo a ricordare il titolo. Ci ho provato sbagliando più volte, arrossendo, fino a quando il commesso ha aperto la bocca in un’unica vocale di grande stupore.

Sotto il giaccone ero un bagno di sudore, sapevo che mi sarei ammalato uscendo fuori, si era messo a nevicare. Ho perso tre giorni di lavoro per quel po’ di raffreddore. Ma sono stato chino sulle pagine, come te la prima volta.

Anche io con la matita. Fino a completa guarigione.

Avrei dovuto fare più attenzione ai particolari, al taglio nuovo, al modo insolente che avevi di staccarti dal mio sguardo all’improvviso, senza mai rispondere davvero alle domande.

Ti voltavi a guardare gli altri tavoli e ti dissolvevi nel lampeggiare isterico di un neon da riparare. Non avrei dovuto bere e parlare. È stata quella leggera ubriacatura che mi ha confuso. O forse tu, era come se tra noi non fosse mai successo niente.

Ora dimmelo, ti ricordi la nostra sera Rachele?

Ti ricordi la nebbia? Non ne avevo vista mai da queste parti. Era stato bello ciondolare assieme alla ricerca di un caffè, io che stringevo il libro sottobraccio, fiero, tu finalmente aggrappata a me.

La strada si rivelava a un solo palmo dal naso. Ricordi? Ci siamo stretti forte prima di baciarci. Io me lo ricordo bene, Rachele, e tu? Cosa è successo poi?

Dopo di te, in libreria non ci sono più tornato. Ho preferito la palestra. Prendere a pugni mi faceva stare bene. Penso che ti piacerò, senza debolezza. Puro e genuino. Sincero, ha detto mamma. Così io capirò. E anche tu potrai. Perché questa cosa del senso, sai, non si fa da soli, ognuno chino sulle proprie pagine a sé stanti. Esattamente come in un combattimento: mentre le prendi, deve anche stringere le dita per colpire duro.

Ecco Rachele come si assomigliano la guerra e l’amore: a ogni colpo ben assestato si assottiglia il confine.

A volte scompare, e pare di prendersi a pugni allo specchio. Mi è capitato anche di vedere il tuo riflesso, di sfuggita. Uguale a come ti avevo incontrata. 

Hai ritmi diversi di un tempo. Rientri alle undici ogni notte. Anche con i capelli cortissimi fai sempre quella mossa di guardare verso il cielo prima di infilare la chiave nella toppa. Io te lo dico, e tu vallo a trovare uno così trasparente: ogni notte ascolterò il canto del merlo, lo stridere dei vagoni della ferrovia, solleverò il bavero per non far passare vento e aspetterò che il profilo della montagna si stagli contro l’alba. Poi mi attaccherò al campanello. Se non ti mostrerai, tornerò domani e poi ancora. 

Alla fine le luci si sono tutte accese.

Ho allargato le braccia spostandomi sotto il lampione, togliendo il berretto per farmi vedere bene. Sono qui, Rachele, ti vedo a dispetto dei muri: indossi un pigiama a fiori. Grido almeno una volta ancora sempre. La mia voce si perde in fondo al viale, nello stesso esatto  punto di silenzio da cui nasce azzurra la sirena. Armeggio con il pollice sull’accendino, ferendomi la pelle screpolata per un fuoco che non esce mai.

Non avresti dovuto chiamare nessuno, non come se fossi uno qualsiasi, che nemmeno conoscevi, passato per caso, un viaggiatore qualunque venuto dal niente. Per questo d’ora in poi tu ricordalo sempre, questo rumore di sirene, la forza che ho dato al tuo nome prima delle urla e dei manganelli, prima che mi piegassero nel cellulare e sbattessero le portiere, prima che le ruote stridessero sull’asfalto.

Tornerai indietro, a quel giorno, alla stazione. Basterà sfiorare con i polpastrelli il punto alla base del collo dove ti baciavo, basterà quello per ricordare a memoria e rifare tutto, ancora una volta, tutto daccapo.

tutte le fotografie di Cinzia Laliscia.

Leggi anche…

Cartolune #1 | Giovanna Cinieri
La Gardiniza
L’ora dei corpi