Colorado

un racconto di Gabriele Rosato.

«Chiamami Colorado.»

Colorado è un nome da uomo. Colorado è un nome che ti scorre nelle dita, è un nome prepotente di persona. Colorado non ti si addice.

Erano le dieci del mattino, e il sole che batteva sui palazzi non aveva nome; avevo le coperte scombinate da bambina inquieta e un angolo di stanza da mettere in ordine.
Nessuno mi aveva insegnato come ci si chiama, quella era la mattina giusta per scoprirlo.

La persona che mi sonnecchiava accanto non aveva alcun nome, forse un concetto, sicuramente non un futuro. Per di più tutto il caffè di quei giorni era finito, convogliato in episodi di amore convulso a negarsi l’amore.

Era bastata l’intenzione di uno sguardo a farmi crollare, a mettere in discussione, tutta la storia precedente, che dai Sumeri mi si arrampicava addosso, e ora lì, accanto alle cose da mettere a posto, giacevano i resti di una sera precedente, di un’intenzione, di un esercizio ginnico.

Colorado però, mi bastava per avere la forza di spiegarti che era ora di uscire da quella bolla, era ora di tornare ognuno a casa propria e, io, ero già nella mia.

Toccava quindi a te andartene.

«Me ne vado così?»
«Credo sia ora.»
«Ok, allora ciao Ca…»
«Chiamami Colorado.»
«Colorado è un nome da uomo.»
«Lo so.»

Così un’altra anima varcava la porta della stanza, come sciacquata; come quando passi sotto uno scroscio d’acqua che parte dall’alto e le gocce sembrano pugni diretti al cranio.
Povera, la mia anima, a farsi liquida prendendo la forma del contenitore che prova a contenerla e beato il contenitore, felice di uscirne pulito, in quel disordine di stanza.

La metafisica acqua, però, rimaneva sporca.

La notte prima mi aveva lasciato in eredità poche cose sparse sul pavimento:
– Un paio di mutande color carne
– Le lenzuola
– I miei occhi

Mettevo a posto le prime due, con la disinvoltura di sempre, gesti meccanici e studiati per non sprecare il tempo e lasciar tempo agli occhi.
Gli occhi venivano apposti nelle loro rispettive orbite solo dopo un attento esame, solo dopo averli ripuliti, rettificati.

«Chiamami Colorado.»

Colorado è un luogo in America, non l’ho mai visto.

Ma l’America è un sugo di sogni, è la Meta.
Tu una meta non l’avevi, e te ne stavi andando. Volevo qualcosa a cui attaccarmi, per lasciare un’esca e far tradire un vago interesse.

«Hai letto Proust?»
«Non ho tempo di leggere.»
«Si può leggere lo stesso, senza sapere leggere, un libro di Proust, si fa presto.»
«E il lavoro? Me le paghi tu le sigarette?»

Le paga Colorado le sigarette.
Colorado sa come fare.
Colorado è il medico del mondo delle anime.

«Mi daresti un passaggio a casa?»
«Ho da fare delle cose, il treno, la stazione, sono proprio qui accanto.»

Non sentivi i muri che vibravano ieri? Non eravamo noi, non ero io.

Treni nella notte, a trasportare viaggiatori ignari dell’evoluzione che gli vola accanto.
Gesù Colorado, eri diventato così bravo a liberarti delle incombenze della “notte prima”; ti ho insegnato io o l’hai imparato dai film?
Ora varcavi la porta.

Quest’anima l’avevamo guarita per bene e se ne andava fiera.
Restava la mia, però, una mescita di acque reflue, mescolate l’un l’altra per assumere nuove consistenze, nuovi umori, nuovi sapori.
Ma da quel turbinio di mancate gestazioni, non nasceva nulla; altre mattine magari, altre sere, altri sguardi altri sogni accompagnati tutti per mano alla pensione.

«Chiamami Colorado.»

Ci nascono delle fonti in Colorado, vero?

Dal balcone ti potevo vedere andar via, come avevano fatto quelli prima di te e sognavo che un’illuminazione improvvisa nascesse dall’ abisso di anime che albergavano molte notti della mia vita, da un po’ di tempo a quella parte.
Prese in prestito e strappate ai loro naturali alberghi, stracciate e centrifugate nel contatto di corpi nudi e soli, che per qualche ora potevano far finta di non essere sconosciuti gli uni con gli altri.

Ma in fondo era solo un furto, un vuoto a rendere dopo essersi consumati come il fuoco consuma i fiori secchi.
Un furto, ben pianificato, prima di esitare sulla soglia a contarsi le stelle, portarsele dentro il petto per avere qualcosa di cui parlare dopo.
Si può essere soli anche in mezzo a una folla, diceva qualcuno, si può essere soli anche se si ha una folla dentro al petto.

Si può aver paura di essere abbandonati anche abbandonando e, qualche volta, abbandonandosi.

Ci sono campi di fiori colorati in Colorado?
Sì.
Davvero?
Sì, li ho visti in un film.
Quando?
Tanto, tanto, tanto, tanto, tanto tempo fa…

all pictures by Carlo Piro.

Leggi anche…

Cacocciola
Fine del sogno
Cartolune #1 | Giovanna Cinieri