Città Pasolini

una raccolta di Antonella Giannaccaro.

SAN LORENZO

Che strana cosa,
la geometria dell’uomo.
Nell’abitato arredo
si affaccia il quotidiano
- lo sventolare bianco
di lavatrice fresca,
la pianta un po’ morente,
caracollando pare esca.
Sfacciata, si affaccia
e prega un po’ di sole.
E anche le figure
- un vecchio con il sigaro,
un bimbo che si sporge.
Da un palazzo all’altro,
telefono senza fili
le donne a chiacchierare.
E le finestre,
aperte a raccontare
che cosa accade dentro.
Eppure, tu vieni da un bombardamento
quartiere sia di centro
sia di borgata,
per strada, gli spacciatori negati dai poeti
a spendere un denaro per il fumo,
tra gli studenti chiusi in capannelli
- lo scandalo!, urlavate, il tradimento
dell’intellettuale minaccioso e puro
che denunciò ammutinamento
contro radice e mondo antico,
il fragile reale,
(di forza armata contro gioventù borghese)
rivendicato sopra quelle scale
in cui son rovinati morti
di parte e parte
ma senza storia e senza sorte.
È questo, che ci dà
il mondo nuovo. La lacrima, la morte
non il perdono.

Lungotevere

Io so
che quando mi affaccio
e ti vedo scorrere
-  da un ponte o una riva
mi ghiaccia la viva presenza
di certa indipendenza che possiedi
la tracotanza placida
che guizza tra sponde
-  le onde ammalate
dai nostri padri, da noi figli
che non cambiamo l’eterno modo del nostro stare 
- al mondo l’errore è non sognare
incespicare
nel brutto, nel grigio,
l’asfalto rovente
serpente lambisce i tuoi fianchi
ma tu vai avanti,
iroso e maestro nel tempo glorioso
-  ammiro, se posso
l’andare traverso
tagliare in un verso
Roma, urbana, intera,
frenare la corsa, tornare alla quiete
sotto i muraglioni
coperti di muschi e gabbiani
trovare quel ficus ruminalis
e, novelli gemelli, succhiare 
zucchero dolce
e riparare
da ogni alluvione 
-  diluvio umano, ma tu sei anima
e freni il corpo, tu sei titano.

SANTA MARIA DELLA PIETÀ/CC

Basta. 
Adesso, basta. 
Lo dico, guardate: basta.
Mangiare le mani, le unghie consumate,
la pelle rotta - pensare.
Mi si fa incontro il fogliame
la strada diritta, perduta tra i cedri
e cipressi, i pini, gli eucalipti odorosi
fino al padiglione 26, quello al centro
dove c’erano i primi elenchi 
di quello che chiamavano
“Hospitale de’ poveri, forestieri et pazzi dell’Alma Città di Roma”
-  lo hanno fatto per noi, che dite? I pazzi,
gli alienati, tranquilli sudici semiagitati, prosciolti
-  sorvegliati.
…che hai da guardare? Non siamo più disperati
di quelli come te
che la domenica delle salme vanno
in quei casermoni di periferia
contenitori immondi dei vostri desideri
-  stolti, non vedete 
che siete prigionieri più di noi
del nostro denunciare 
che vi fa male, vi mette
in quella condizione per cui scappare
nei centri commerciali, a spendere le voglie
le soglie a chiudersi, i sogni
a morire.
Noi almeno, qui al Santa Maria,
cantavamo quello
che voi avete perso.
Le vostre voci, invece,
son tutte in saldo. Altro, non dico.
Qui rimango. E riprendo
il flusso dei pensieri.
Ieri, è concluso. L’oggi,
è deluso.

PRENESTINA, CENTOCELLE, PIGNETO

La lamiera scricchiola
Borbotta
Come caffettiera di poco conto
Srotola lingua metallica
Vena scoperta 
Tra gli scheletri delle officine
Più lenta, vai lenta
Attraversa quartieri d’inchiostro
Tra sacchi abbandonati e case basse
Che rase, tagliano spiragli di cielo
Telegrafato
Da geometria nell’etere
Conduttori pendini pantografi elettrici
- anche gli uccelli, han bisogno di pause.
Tor de’ Schiavi, Casilina, Prenestina, Centocelle
Lo senti, odore di pelle
indiana, magrebina,
da Ucraina e Cina
di passante passeggero passabile
 - ma passabile de che?, ti direbbe
Passabile per questi occhi stanchi
Che dondolano con testa e fianchi schiacciati
Su sedile duro anteguerra
Anteguerra è la terra su cui passiamo
Sotto il cavalcavia, i calcinacci appesi
Nella mitologia del neo realismo
Tra le baracche, le forme tetre
Ma di colori accesi, selciati e croste
Su muri di rimpiazzo 
Ma senza più le occhiaie
È il nuovomondo dell’intellettuale
Che sceglie di restare
Comprare, fare cose
E far famiglia
In quel Pigneto sopravvissuto
A quella mutazione antropologica
Che batte ogni frangente.
E in esso, si contende
la bella nomina
di non periferia,
di casa nostra, di casa mia.

VERSUTA

Da ragazzi, ricordo,
crediamo tutti
all'amore unitario, 
alla pazza purezza.
Da ragazzi, mi sembra, 
siam tutti uguali
nella fame di corpi
 e di aggrappati ardori.
Il mondo ci pare all'altezza
delle nostre passioni
e lo spirito chiede
lontananza
da ogni educazione al timore
- non è appropriato, per chi attende 
la vita in pienezza, né si arrende
alla tristezza che la miseria
circonda e agita, togliendo forme 
all'erotismo dell'ascesa, 
dell'assoluto, del pianto che si avvera
in ogni petalo, nel tiepido riserbo
della sera.
Così io credo
di ritornar presente
se in questo modo parlo
di te, nel tuo ossario
fatto di versi rotti,
parole andate, privilegiato essere
il cui pensare rimane ancora
a chiedere, pretenderei
il nostro rovistare nella nascita
di quello che è per sempre
stupendo e misero, 
ancora lì, ancora da accadere.
Di quello che io scelgo di scavare
nel tuo essere poeta e scrittore
in quello che, per me, rimane,
eterno tuo comizio, eterno amore.

OSTIA

Io non ti conosco
non so niente
e niente vorrei sapere
se in te la morte accade.
Tu, che poggi fianco e dormi, in riva al mare
-  nella risacca, la vita piena arriva
e poi rientra, una nuova soluzione
-  ma non sulle tue dune,
né su le case piccole
salate, nel bianco arrugginito
di abusi condonati,
tra vecchi dalla pelle ormai essiccata,
bruciata da quel sole
che annega,
come sgonfio, nel porto litorale.
Ostia,
tu hai fatto cimitero
involontario, tu hai trovato
la mano insanguinata,
la costola rotta, spezzata
il naso tumefatto,
la guancia che affonda
in terra fradicia
di macchia e verità mai dette
-  io non so niente.
Ostia, 
non so quello che canti,
bisbigli, sul fare della notte
l’aspetto che tu assumi
da una rotonda all’altra,
coi fari sempre accesi
a fare da controllo,
con spiagge scure,
villine urbane, e lecci a dominare
-  conosco il tuo idroscalo
ma non so i tuoi bambini, 
se giocano a campana
o se passeggiano,
tenendosi per mano
o se per spaccio, e povertà
mafia e omertà
si voltano di spalle
udendo appena il grido
strozzato, rincagnato,
persino rassegnato
dell’uomo dissimile
a quello che di atroce raccontava
nei film, nelle interviste,
nei libri, l’aria triste
eppure battagliera, fiera
di chi non muore mai
neanche se per sbaglio,
sperando nelle ore
di qualche amore,
ha preso infine abbaglio.
Città piccina,
malgrado tuo diventi
un simbolo di lotta
e cambiamenti. In te finisce
la vita sua, umana
ma inizia quella nostra
di pellegrini in terra, nella cultura
che dura, resta, germoglia
nel cuore e nella voce
di chi si prende croce
e canta il suo vangelo
di anticonformista, cattolico, marxista,
di genio, di ribelle 
ma con lo sguardo su,
ad ammirar le stelle.

tutte le foto di Chiara Gasbarro.

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