un racconto di Stefano Bonazzi,
editing di Alessandro Tesetti.
Ad attirare la sua attenzione fu un gigantesco cumulo di dolciumi riverso in un angolo della sala. A quell’ora il museo d’arte contemporanea era deserto e il ragazzo poté avvicinarsi per leggere il testo di spiegazione. L’opera era un’installazione concettuale che l’artista dedicava al suo compagno malato di Aids. Il peso di quella montagna di caramelle equivaleva a quello del suo corpo, ognuno poteva avvicinarsi e prenderne una, in questo si realizzava la metafora della malattia.
Il ragazzo si guardò attorno, ne prese una manciata abbondante e se le infilò in tasca.
Uscì dal museo e dal conforto dell’aria condizionata, camminò sotto i portici, deserti anch’essi ora che la città si era svuotata dagli studenti, l’estate al suo culmine si portava appresso una scia infinita di serrande abbassate. Resistevano solo i minimarket dei paki e un frinire di cicale imbestialite, a tratti assordante, lungo i tratti più alberati.
Mentre saliva i gradini del condominio il brusio di un un climatizzatore sparato al massimo della potenza e il vociare di una telenovela si contendevano la quiete del vano scala.
Attraversò l’appartamento deserto, il corridoio mangiato dalle ombre, le porte delle camere dei compagni appena socchiuse. Le sessioni d’esame erano terminate e tutti erano scesi per la pausa estiva. Raggiunse la sua camera, mise le caramelle in un vasetto di vetro sopra il davanzale, alzò la tapparella di qualche spanna e un refolo bollente lo colpì in pieno volto. Si stese sul letto. L’applicazione non smetteva di pulsare per le notifiche dell’unico ragazzo che non aveva ancora bloccato.
«Ci sei?»
«Ero uscito».
«Ok. Ci vediamo?»
«Fa caldo».
«A cena?»
Tornò indietro alle foto del suo profilo. Il ragazzo abbracciato a un cane, in spiaggia, di spalle ad affrontare le onde, con un’amica all’ultimo Pride, arcobaleni stampati sulle guance, sorrisi. Lasciò cadere il cellulare sul letto e si diresse in bagno.
Davanti allo specchio si tastò le spalle. C’era un punto, poco sotto la clavicola, in cui gli pareva che indice e pollice potessero toccarsi. Afferrò un lembo di pelle, tirò con forza. Il tessuto si fece trasparente per poi ritrarsi di colpo formando una chiazza rossastra. Aveva smesso di sudare da giorni. Sul petto gli stava crescendo un ciuffo di peli, alla base del collo un’arteria verdastra sporgeva scendendo fino al bicipite. La pelle, nella penombra della stanza, appariva meno pallida. Gli sfoghi cutanei a malapena si vedevano, a uno sguardo distratto sarebbero potuti sembrare delle voglie. Tornò in camera e rovistò tra i panni a bordo letto. Scelse una maglia fucsia con scritto “Fuck you very much” in stampatello, più in basso il logo di qualche manifestazione a cui non ricordava di aver partecipato. Gli stava larga, un paio di taglie oltre la sua, le maniche lunghe a coprire i gomiti. Riprese il cellulare.
«Dopo cena», scrisse.
Neanche il tempo di bloccare lo schermo, arrivò la risposta.
«Ok, a dopo».
Si ritrovarono seduti ad un tavolino sghembo ricoperto di ruggine. Il locale si chiamava Ruggine, l’aveva suggerito lui. «Ti piacerà, se non sei allergico alla ruggine», aveva aggiunto. Aveva ordinato un Moscow Mule per entrambi ma lui non l’aveva bevuto.
«Non ti piace?»
Gli aveva risposto di avere un po’ di nausea in quei giorni e il ragazzo l’aveva guardato senza chiedere altro.
Gli era parso meno carino rispetto alle foto nell’applicazione, forse per colpa del caldo. Un accenno di stempiatura, occhiaie da afa, un grosso neo alla base del mento da cui sporgeva un pelo irto che non riusciva a smettere di fissare. Sorrideva spesso, nel mentre, le domande classiche del primo appuntamento. Cosa studi, perché sei rimasto in città con questo caldo, che progetti hai dopo la laurea. Gli rispose che studiava informatica e che per lui quello era il momento migliore per restare in città.
«Niente traffico, niente coda nei negozi. Le persone sono esauste, non fanno caso a te».
«Non ti annoi?»
«Mi annoierei anche in vacanza».
Risero, il ragazzo gli chiese se poteva ordinare altri due Moscow Mule e lui rispose che preferiva finire quello che già aveva. Verso l’una il locale iniziò a sbaraccare, non si era accorto di quanto tempo fosse trascorso, gli piaceva quella compagnia. Non c’era pressione nei suoi modi, nessuna aspettativa. Due ragazzi che si erano ritrovati nel mezzo di una città deserta. Due ragazzi che ora si stavano alzando per fare due passi sotto i portici.
«Sicuro che non vuoi nient’altro? Non hai bevuto nulla».
«Sono a posto così».
Attraversarono un parchetto, sotto le luci dei lampioni si raccoglievano manciate di falene impazzite. Anche a quell’ora della notte le cicale non avevano smesso di frinire.
«La gente pensa che sia un richiamo per la pioggia ma si sbagliano. Lo fanno per attirare le femmine, per accoppiarsi».
«Non ti danno fastidio?»
«Cosa? Le cicale?»
«Non si fermano mai. È assordante».
«Ti posso accompagnare a casa?»
«Sto dall’altra parte della città».
«Mi piace camminare».
«Non posso farti salire, ci sono i miei coinquilini».
«Chi vuole salire?»
Lungo il tragitto si fermarono ad un chiosco, il ragazzo ordinò una birra e un amaro, lui nulla. Quando raggiunsero la porta del condominio l’altro era madido di sudore, la camicia aperta fino al torace, chiazze scure sotto le ascelle e capelli schiacciati sulle tempie.
«Mi fai salire un secondo?»
«Ti ho detto che non posso».
«Devo pisciare».
Nel vano scale era rimasto solo il ronzio del climatizzatore. Una luna fioca sbiancava il marmo dei battiscopa. Raggiunsero il quarto piano con il fiatone, infilò la chiave a la girò con lentezza.
«Non dobbiamo svegliare nessuno».
Al ragazzo scappò una risata che bloccò con il palmo della mano sudata, barcollava appena.
«Il bagno è l’ultima porta a destra».
«Grazie».
Lui rimase immobile nell’oscurità del corridoio, ascoltando il getto d’urina che scrosciava nel gabinetto, poi quello del rubinetto.
«Dio, stavo scoppiando».
«Ora dovresti andare».
«Posso vedere dove dormi?»
«No».
«Perché?»
«Non mi sembra il caso».
«Eddai».
«Sono stanco».
«Ci rivediamo?»
«Forse».
«Ma perché non posso restare?»
«Ti ho detto che non sono solo. I miei coinquilini stanno dormendo».
«Balle».
«Cosa?»
«Ho sbirciato nelle camere mentre andavo al bagno, non c’è nessuno. Tranne in questa».
Il ragazzo indicò la porta alle sue spalle.
«Che hai fatto?»
«Niente. Ho solo dato un’occhiata».
«Ma come ti permetti?»
«Non ho fatto apposta. Stavo sbagliando porta».
«Sei ubriaco».
«Forse».
«Adesso te ne vai».
«Stai con qualcuno?»
«Eh?»
«Perché non mi fai entrare in camera tua?»
«Mi stai spaventando».
«Voglio solo vedere».
«No. Ora te ne vai».
«Fammi vedere!»
«No!»
«Non entrare!»
«Non farlo!»
«No!»
La sporta spalancata.
La luce dei lampioni attraverso i buchi della tapparella.
Occhi che ora guardano senza comprendere e un silenzio che ingoia ogni domanda.
La puzza, soprattutto la puzza.
Poi, il caos.
Cumuli di panni sporchi ammassati sul pavimento. Un letto sfatto, sfondato, lenzuola vomitate in terra. Scrivania, scarpiera, libreria, ogni superficie pareva ricoperta di masse scure, informi. Il ragazzo tastò la parete, trovò l’interruttore, schiacciò la superficie unta, una lampadina spoglia al centro del soffitto illuminò la stanza di una luce giallastra.
Ovunque, cartocci di salume annerito. Pacchetti di plumcake squarciati, uno strato di muffa biancastra sulla crosta dei panetti esposti alla calura. Due vaschette di gelato sciolto, uno strato di polvere lungo i bordi, frammenti di cioccolato molliccio, abbandonato sulle mensole, colato sul pavimento, calpestato e portato a spasso, a chiazzare il cotto sbrecciato delle piastrelle. Una decina di vasetti di Nutella senza coperchio, alcuni cucchiai infilati dentro, ad uno era appeso un calzino scucito.
Oltre al ronzio della corrente elettrica, al ragazzo parve di riconoscere altri rumori, un lavorio sotterraneo di mosche e minuscoli insettini affamati.
Un passo avanti per vedere meglio, cracker frantumati sotto la pianta delle scarpe.
Accanto al letto, un secchio col fondo scuro. Un altro passo dentro la camera e un nuovo fetore a molestare le narici. Nel secchio c’era del piscio, due, tre dita al massimo. Un altro contenitore era chiazzato di macchie scure. Vomito, merda, forse entrambe. Trattenne il respiro. I Moscow Mule, la birra, l’amaro, un gorgoglio nello stomaco in attesa di eruttare. La scrivania era cosparsa di briciole, bottiglie vuote, fogli accartocciati. Nessun computer, solo pagine strappate dai libri e schiacciate a forza negli intermezzi tra il mobile e la parete. Una photos rinsecchito sulla mensola.
L’aria trattenuta era svanita, dovette ispirare. Gli girò la testa, si voltò a cercarlo.
Lui era immobile. Nell’oscurità del corridoio non si era spostato di un centimetro. La sua arma di difesa, sempre la stessa. Fingersi morto, come quegli insetti che, una volta scoperti, si mettono a pancia all’aria e non si muovono più.
Era diventato bravo, gli veniva naturale.
Da quel primo esame andato male, da quel secondo finito peggio, da tutti quelli che seguirono. Dalle chiamate con i suoi, dalle continue domande sui voti, da quel modo, sempre più fisiologico e spontaneo, di lasciarsi svanire tra le menzogne.
Avrebbe voluto dirglielo, senza far scenate o magari sì. Magari avrebbe voluto piangere. Si aspettava l’ennesima raffica di domande invadenti da quel ragazzo piombato a forza nella sua intimità e che ora minacciava una fuga improvvisa, qualcosa di teatrale. Sarebbe stata anch’essa una conseguenza più che naturale.
«Adesso puliamo tutto».
«Cosa?»
«Mettiamo in ordine questo schifo».
«Sono le due di notte».
«Non importa».
«Non devi».
«E tu mi aiuterai».
«Perché? Perché non prendi e te ne vai?»
«Non lo so».
«Dovresti».
«Mi sento perso quanto te».
Avviarono la lavatrice. Il cestello, colmo di indumenti, faceva vibrare tutto il pavimento dell’appartamento. Gettarono tutto nell’indifferenziata, non c’era modo di separare il salvabile. Nello sgabuzzino trovarono uno spolverino per le ragnatele. Salirono sulla sedia spingendosi fino agli angoli del soffitto. Spostarono scrivania, letto, libreria. Raccolsero cumuli di peli e polvere, frammenti di intonaco crollato, insetti stecchiti. Due palette colme di sporcizia. Passarono uno straccio imbevuto di alcool sulle mensole, tolsero le lenzuola, alzarono la tapparella e la stanza si riempì di zanzare. Il tanfo lentamente diminuiva ma nelle narici restava il prurito e negli occhi il bruciore per tutta quella polvere sollevata e la massa di cose decomposte che si muoveva nell’aria.
Sciacquarono i secchi con il getto della doccia e li riempirono con il detersivo per pavimenti. Passarono lo straccio due volte, poi si sedettero scalzi sul materasso aspettando che si asciugasse.
Sul davanzale era rimasto il vasetto di caramelle.
«Quelle?»
«È un’opera d’arte. Una parte».
«Sei serio?»
«Rappresenta il ricordo di una persona. L’ho rubata al museo».
«E quanto vale?»
«Boh. Poco? Molto? Forse per l’artista».
«Dici?»
«Non lo so».
«Per me sono solo caramelle».
Risero. Il pavimento si era già asciugato.
«Verranno a prendermi».
«Chi?»
«I miei genitori. Hanno visto i voti. Probabilmente stanno già salendo».
«E poi?»
«Mio padre ha un’edicola. Gli darò una mano a gestirla».
«Mi sembra una cazzata».
«Forse».
«Passami quel vasetto».
«Che vuoi fare?»
«Finire l’opera».
Mangiarono tutte le caramelle.
Lo zucchero, al contatto con il palato, gli provocò un brivido. Una scarica di energia, piacevole. La prima cosa solida che ingeriva da giorni.
tutte le fotografie di Gianmarco Aquilani,
grafiche di Tommaso Contò
e lettering di Mercè Aragonès Mestre.