un racconto di Giulia Jo Zavaroni.
Solo una metà della serranda è chiusa, anzi socchiusa, è stata spinta dal vento. Una notte, qualche tempo fa, l’ho sentita sbattere.
La luce che entra è poca, purtroppo. Il buio mi spaventa e mai nessuno l’ha capito. Troppo grande per queste paranoie da bimba. Vedo fuori il bosco nella fioca luce riflessa da quella che tutti chiamano luna, vedo le forme che proietta sulle pareti, le vedo muoversi.
Seguite tutti quanti quel batuffolo bianco. Quale, chiedete? Quello laggiù, la coda del bianconiglio, forza! Ora, tutti giù nella tana. Benvenute, benvenuti, signore e signori, allo spettacolo della vostra morte.
Al levarsi di qualche strillo dal pubblico, una voce cinica ha riso. Ero io.
Già. Benvenuti al vostro giudizio finale. Sentirete i vostri più repressi desideri bruciare al tocco delle suole delle scarpe sotto cui li avete relegati, calpestati, maltrattati. Sentirete sulla vostra pelle il morso caustico di ogni mozzicone di sigaretta su cui avete premuto proprio quelle stesse suole.
Divamperà il fuoco, vedrete quanto dolore avreste potuto risparmiare al mondo e griderete lasciatemi! devo tornare indietro!, ma, alla fin fine, la coda del coniglietto l’avete seguita voi, voi saltellavate dietro al pazzo ritardatario. E se aveste saputo che non era altro che un misero spruzzo di luce della luna!
Riderò io, alla fine. Lo spettacolo per me siete voi. Eppure mai finirò di sentirmi in colpa a ogni risata, ogni sussulto rimbomba nei miei polmoni e m’incrina le costole, mi consuma, mi assottiglia la pelle, già grigia e logora, spalmata su ossa cigolanti.
Non rimarrà che un sacco di polvere, se accosterete l’orecchio sentirete l’agghiacciante risata che per tutti questi anni mi ha accompagnata.
Non rimarrà che un sacco di polvere, ed era solo un guizzo di luce di luna.
Non rimarrà che un sacco di polvere, ed era tutta colpa mia.
Davvero lo desideravo? Questo ammasso umidiccio di ferraglia? Sentirlo, arrugginito, scricchiolare al peso di nulla più d’un respiro?
Davvero volevo firmare questa delirante condanna a morte, questo pazzo sogno, questa allucinazione?
Avrei passato giornate vuote a contemplare tutto ciò che so ora, senza venir a capo d’una virgola, maledicendo l’infausta frazione di secondo che in un guizzo di follia m’indusse ad acconsentire.
Avrei sentito scorrere nella clessidra della storia la sabbia all’indietro, da tanta disperazione. Avrei veduto i fotogrammi del nastro riavvolgersi in un circo squilibrato, la pioggia risalire alle nubi e seccare i sentieri e i campi, avrei sentito il libeccio e la tramontana scompigliarmi i capelli: loro soli sapevano tornare a casa.
Sarebbe nato d’occidente il sole e, al camminare sotto questo tumefatto, ematico cielo, roventi sarebbero salite ai miei occhi le lagrime già versate, mi sarei guardata intorno sperando che la nebbia si diradasse, ma gli occhi fissi avanti a me non avrebbero visto nulla più che la condensa del mio grave continuare a respirare.
Avrei vissuto una vita da morire, morendo ogni giorno nella sfinitezza di chi la notte sorveglia se stesso e si ammazza poco a poco, liquidando la vita, ma senza prendersi sul serio, dicendo addio ogni notte a un luogo diverso, a una persona diversa, ridendo a spese del mondo per non mostrare la propria inconsistenza.
Avrei scoperto che sono interessanti davvero, le ore piccole della giornata. Quelle a metà della notte, in cui si può solo ascoltare il battere ostinato della pioggia sulle finestre, sperando, un giorno, di potersi sciogliere in essa. Raramente, da fuori arriva anche qualche sparuto raggio di luce, se la luna è abbastanza coraggiosa da abbattere le nuvole oppure se è abbastanza tardi – o presto, si ha perso il senso del tempo – da scorgere il sole all’orizzonte.
Certe volte non avrei saputo identificare cosa mi tenesse sveglia, e forse sarebbe stato meglio così. Sarebbero state le notti in cui avrei potuto lasciare il pensiero spaziare, vagare, creare e distruggere mondi che mai sarebbero stati e mai avrebbero sofferto le crudeltà a cui questo ogni giorno è soggetto; altre volte, invece, avrei saputo perfettamente cosa non mi lasciasse pace, e sarebbero stati i casi peggiori.
Avrei dato tutto per potermi liberare dalla gabbia che mi avrebbe tenuta prigioniera ma, per quanto ostinata, non sarei riuscita ad abbandonarla e non finire a marcire con me stessa, nel più recondito angolo della mia anima.
Spesso, neppure sarei riuscita a disfarmi della zavorra di lacrime che mi avrebbe pesato sulle spalle.
Mi sarei lasciata vagare fino a raggiungere un tugurio qualunque, una droga qualunque che mi avrebbe appesantita tanto da non lasciarmi più a pensare e poi mi sarei osservata da fuori, dolceamara visuale, avrei notato il mio stato pietoso, e solo allora avrei avuto abbastanza disgusto da abbandonare le angustie e sghignazzare amaramente, a spese del mio fegato.
tutte le foto di Lou Escobar.