Assassino dell’Assassina

Qualcuno giù in paese diceva che la vita è ladra. E a lui, lo avevano derubato, spremuto, spezzato.

Il suo corpo era una sacca accasciata sul lato destro.

Quando si portava il cucchiaio alla bocca tremava, il braccio gli cedeva quando pettinava i capelli all’indietro.

La signora Rosamaria giurava di aver visto l’uomo cercare di strozzarsi con la sciarpa viola, quella che usava per andare in fabbrica. Ogni mattina stringeva il nodo più forte. «C’è gente che non si merita nemmeno l’inferno» e scuoteva la testa mentre passava l’aceto sui vetri.

Ma capitava che l’inferno lo incontrasse in quei monelli di strada che gli lanciavano sassi, o nel capo di trent’anni più giovane che gli sputava sulla camicia già sporca. E capitava che a casa volesse soltanto annegare nella tazza di latte e pan bagnato.

Nulla di peggio del pane bagnato: pezzi molli, membra sconquassate che guardano dal basso e sfuggono al cucchiaio lente e viscide giù per la gola.

Quella sera l’aria puzzava più del solito. La testa della signora Rosamaria, poco più alta della mobilia cucina, non spuntava dalla finestra; dietro al pizzo delle tendine, tutto buio e immobile.

Aveva appena la forza di girare la chiave nella toppa. Il logoro golfino finì sul pavimento: nel sudiciume, ecco dove doveva stare.

Il cuculo del pendolo gracchiò, un’altra ora che passava.

Come avesse paura ad ascoltare, l’uomo fischiettava a bassa voce avvicinandosi al salotto, la porta socchiusa.

Una sagoma scura stava sul divano. Non poteva dire di vederci bene, ma quella forma gli parlava senza voce, sensazioni sconosciute e ricordate.

«Ti aspettavo» disse e una lacrima gli bagnava il volto secco. Lasciava un solco nello sporco, scopriva pelle vecchia di anni.

Cercava un segno nel viso di quella donna. Il volto ricordava quello della madre, ma il respiro era sommesso, di una bestia. Lei allungò il collo, protesa verso di lui mentre lo squadrava con gli occhi da civetta. Aveva gelo nei lineamenti, ma la sua bocca si curvò in un sorriso dolce: il sorriso più bello che lui avesse mai visto.

Fu il primo rintocco che l’uomo udì nella propria anima.

Crollò in ginocchio, le ossa sbatterono sul legno schiodato del pavimento. Secondo rintocco.

Poche parole uscirono dalla sua bocca. «Mamma, portami con te, mamma». Voleva che tutto colasse via come lacrime, che fosse la stanza a colare, a sciogliersi. Voleva che ogni cosa, lui compreso, passasse tra le fessure del pavimento.

Ma l’elegante signora lo guardava e la sua espressione cambiava. Era affaticata, le palpebre pesanti.

Quello fu il giorno in cui la Morte volle morire. Sdraiata sul divano di un salotto che puzzava di ammoniaca e carbone, dentro le grigie pareti che avevano portato alla pazzia un uomo. Lo stesso uomo che ora guardava, senza capire.

Il collo della donna si piegò in avanti e si spezzò. Terzo rintocco, poi il silenzio.

Assassino dell’Assassina.

La sua anima era stata spezzata. Tremando, ecco che si alzava in piedi. Tremando, faceva due passi. Si lasciò cadere al fianco del cadavere. Già gli sembrava di sentire l’odore di divina putrefazione.

Portò le braccia al petto per coprire il vuoto che aveva in petto. Tornò a stringere gli occhi, più forte che poteva. Il mondo era tornato e lui soffriva ancora.

fotografie di RALA CHOI.

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