L’allegria

un racconto di Raffaele Cataldo,
editing di Anna Chiara Bassan.

Il primo ricordo che ho di quel giorno al mare è uno zoom sugli Speedo bianchi che indossava mio zio. Ricordo lo stato quasi di ipnosi con cui guardavo il rigonfiamento dei genitali sotto il sottile strato di tessuto bianco; le trasparenze rosee nei punti in cui il costume era ancora bagnato.

Giusto all’altezza della mia testa di bambino, quel rigonfiamento, da cui scivolavano gocce d’acqua salata, sembrava voler occupare tutto il mio campo visivo, al punto che dovevo forzarmi a girare la testa e guardare altrove, i riflessi abbaglianti sulla superficie del mare. Poi tornavo a quella pelle rosa appena intravista, frutto nascosto, la scia di peli bagnati sotto l’ombelico, le gocce d’acqua che evaporavano nel calore sotto l’ombrellone.

C’eravamo trattenuti fino all’ora di pranzo nell’acqua bassa: avevamo giocato a schizzarci, lo zio e Annamaria si erano sfidati a chi nuotava più lontano, e io mi ero sgolato facendo il tifo dal bagnasciuga. Li avevo visti trasformarsi in puntini inquieti all’orizzonte. Annamaria mi aveva prestato la sua maschera e il boccaglio per guardare i pesciolini grigi che abitavano il fondale, poi si era seduta a riva insieme a me. I cavalloni ci venivano incontro come cani festanti, schiumando, mozzandoci il fiato, frustandoci la nuca, il petto, la schiena con mille colpi di coda.

«Hai fame, Tommy?»

Annamaria aveva preparato i panini: semplici rosette con il pomodoro e un filo d’olio, eppure non riesco a ricordare di aver mai addentato un panino più buono; il pane più salato e molliccio nei punti in cui l’avevo toccato con le dita ancora bagnate.Dopo mangiato lei e lo zio si erano sdraiati all’ombra sullo stesso lettino. Lei gli accarezzava lentamente i peli del petto, lui fumava boccate pigre dalla sigaretta. In quel periodo portava l’orecchino, un cerchietto d’oro. Lei non faceva che canticchiare una canzone. S’intitolava La neve in mezzo al Sahara. Aveva insegnato le parole anche a me.

«Mamma, perché tu e papà non vi baciate mai?»

Si era fatto buio molto presto. Il condominio era sprofondato in un torpore sazio. Tornavamo dal pranzo di Natale a casa dei nonni.

Mio padre disse: «Vuoi vedere come ci baciamo?». E stampò un bacio sulla bocca di mia madre, poi entrambi risero. In quel momento passò di lì un vicino di casa che portava il cane al guinzaglio. «Ce l’ha chiesto nostro figlio», disse mia madre. Era imbarazzata come se avesse perso una scommessa. Il vicino si stava già allontanando: borbottò degli auguri di buon Natale.

In quei giorni di festa chiedevo sempre a mia madre se dai nonni avremmo trovato anche Annamaria. Lei era quella che esultava più forte quando vinceva a carte. Prendeva in giro il nonno per la sua tirchieria. Diceva che voleva un anello di fidanzamento con un diamante così grande che avrebbe avuto bisogno di un bastone da passeggio per sorreggerlo. Aveva deciso che avrebbe avuto due gemelli; d’altronde nella sua famiglia non era un evento raro.

Lo zio sorrideva, e non diceva niente.

Qualche volta al mare Annamaria portava anche sua sorella Alessia.

Lei aveva qualche anno in meno di me. Bisticciavamo spesso, Alessia e io, ma eravamo anche capaci di alleanze d’acciaio, specialmente quando si trattava di ottenere una granita o di contrattare sull’ora in cui potevamo fare il bagno dopo mangiato.

Tornando dalla spiaggia, una sera lo zio si fermò al luna park sul lungomare. Ricordo quanto fossi felice che il momento di tornare a casa fosse stato rimandato. Rimanemmo intrappolati per quasi mezz’ora nella casa degli specchi. Sperai che il giro della ruota panoramica non finisse mai. Lo zio e Annamaria ci comprarono lo zucchero filato e un numero spropositato di cartucce per il tiro al bersaglio. Mi piaceva il fatto che ci rimproverassero se ci allontanavamo troppo, o che Annamaria si preoccupasse che non sentissimo freddo, prestandoci il suo maglioncino.

Camminavamo senza fretta davanti alle bancarelle di frutta secca e io ero sicuro che da grandi anche io e Alessia ci saremmo fidanzati. Oppure fantasticavo che lo zio e Annamaria fossero i nostri genitori, giovanissimi e belli. Alessia e io eravamo i loro figli, in tutto e per tutto uguali a loro, destinati a essere altrettanto belli, altrettanto felici.

Quando lo zio ruppe il fidanzamento mancavano solo sei mesi alla data fissata per il matrimonio. Avevo compiuto dieci anni.

Mia madre passò gli ultimi giorni dell’anno a letto. Non voleva più vedere lo zio, giurava che non gli avrebbe più rivolto la parola. Restammo a casa anche la vigilia di Capodanno. Mia madre disse che lo zio le aveva tolto tutta l’allegria. Quando scoccò la mezzanotte eravamo già sotto le coperte. Io ascoltai gli scoppi dei fuochi d’artificio in silenzio, gli occhi aperti nel buio, e intanto pensavo a quanto fossero egoisti, mia madre e lo zio, ad aver litigato proprio durante le feste. E pensavo anche a quanto era stato diverso il Capodanno dell’anno prima. Annamaria aveva convinto tutti ad ammassare i mobili del salotto lungo le pareti, così da avere più spazio libero per ballare.

Poi, una mattina di marzo, stavo tornando da scuola, quando ho visto da lontano una macchia abbagliante: riconobbi il piumino di Annamaria. Lei e lo zio mi venivano incontro sulla via di casa. Non si tenevano per mano, camminavano fianco a fianco, con l’aria infreddolita ma contenta. Ricordo che mi sembrò un piccolo miracolo. Provai un senso di sollievo, come quando al mare si spingevano fino all’acqua alta, fino a quasi sparire all’orizzonte, e poi finalmente li vedevo riavvicinarsi alla riva, facendo a gara a chi arrivava per primo.

Salimmo tutti insieme a casa, mia madre mise su il caffè.

Annamaria e lo zio dissero che sarebbero partiti per un viaggio, loro due da soli. Una crociera in Egitto. Annamaria riempiva tutto il cucinino della sua risata. Sembrava non ci fosse spazio per alcun dubbio nei suoi discorsi. Non vedeva l’ora di sfoggiare il bikini che si era comprata per l’occasione. Diceva che le colleghe in ufficio l’avrebbero odiata per la sua abbronzatura. Lo zio la stringeva tenendole un braccio attorno ai fianchi e non diceva niente.

A casa nostra avevamo due telefoni collegati alla stessa linea. In quel periodo avevo preso l’abitudine di sollevare la cornetta del telefono del salotto per origliare le telefonate. Era l’unico modo per scoprire le cose. Un pomeriggio capii che c’era Annamaria all’altro capo, e corsi ad ascoltare. Stava dicendo a mia madre che avrebbero potuto continuare a vedersi, o anche solo telefonarsi; non c’era motivo per cui non potessero restare amiche. Mia madre le rispose che preferiva di no.

Suo fratello aveva scelto anche per lei, le disse.

Nessuno ha mai voluto raccontarmi il motivo di quella separazione. Una volta mio padre mi disse che una coppia è come una lettera sigillata, ma lasciata in bella mostra. Di sicuro però ricordo male: non mi sembra il genere di frase che direbbe mio padre. Devo averla letta da qualche parte, più tardi.

Comunque non ho più rivisto Annamaria per anni, nonostante vivessimo tutti in un piccolo paese. Quando la incrociai, una sera di settembre, scoprii che era rimasta identica. Solo i capelli erano diversi, tinti di rosso mogano. Dalle voci che circolavano in famiglia sapevo che aveva avuto due gemelli. Uno dei due l’aveva chiamato Tommaso. I figli però non c’erano quella sera.

Io ero con delle amiche, ci stavamo passando una sigaretta davanti all’ufficio postale. Da lontano sollevai una mano per salutarla. Lei non mi vide, parlava con qualcuno. Gesticolava molto, me ne ero dimenticato.
Una delle mie amiche mi chiese: «Chi stai salutando?».

«Nessuno» risposi, e loro ridacchiarono.

A casa mi avevano sempre detto di non chiamarla “zia”; per non portare sfortuna. Non si poteva mai sapere.

tutte le fotografie di Alessandra Savino.

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