Acquacerba

un racconto di Edoardo Maresca,
editing di Alessandro Tesetti.

Era stato il padre a suggerire di cambiare meta, quell’anno. Ma la madre non aveva voluto sentire ragioni. Non vedeva il motivo di cambiare nulla. Sarebbero tornati nel consueto villaggio turistico dove si recavano ogni anno. E poi al bambino piace, disse. Volle tagliar corto la conversazione. Quando suo marito fece per dire ancora qualcosa, lei scrollò una mano come a metterlo a tacere. Per favore, disse. Ora lui la tallonava, parlando in maniera fitta e ovattata contro la sua spalla, e lei reagiva ruvida, stizzita. Rispondeva di non volerne discutere. Non davanti al bambino. 

Non ne voglio parlare e basta, sbottò d’un tratto.  

Strillava il televisore, in salotto; il figlio fissava lo schermo e dietro di lui avvertiva il cincischiare dei genitori. Quando sua madre aveva gridato quelle parole, si era voltato. La madre si era messa a camminare avanti e indietro per casa; apriva armadi, sistemava borsoni, accumulava capi e li smistava in vista della partenza, con gesti affannati, al limite dell’esasperazione. 

Le tele cerate per il bambino, chiese al marito massaggiandosi le tempie, le hai prese?

Son già sistemate, disse lui. La esortò a rimanere calma. Avvicinò la moglie con le mani tese, come a far barriera a qualcosa. Lei scosse il mento avvelenata. Non voleva sentirsi dire di stare calma. Riprese a muoversi avanti e indietro per casa, con lui appresso. Il figlio davanti al televisore ebbe un movimento: seguì le schiene del padre e della madre, strette a una danza accanita, e si alzò in piedi. Sentì la madre dire, Cristo Santo. La vide poi portarsi le mani ai lati del capo e battersi energicamente le tempie. Ci fu una confusione di gesti tra madre e padre. 

La madre, sbuffando: Voglio solo essere sicura che non manchi niente.

Il padre: Cosa dovrebbe mancare?

La madre si passò una mano alla fronte, la fece scendere alla bocca. Che ne so. Non so niente, disse. Ho sempre la sensazione di dimenticare qualcosa.

Madre e padre si accorsero troppo tardi che il bambino era in piedi a pochi passi da loro e li stava guardando. Tacquero subito.

Allora i suoi avevano sperato fosse una cosa passeggera. Una fase, la definiva il padre. Smetterà come smettono tutti, diceva. La madre snodava le spalle con un movimento snervato. Aveva paura che non sarebbe più passato. Il padre le chiedeva perché. Perché ha dieci anni, rispondeva lei. Alla sua età uno dovrebbe aver smesso da tempo di pisciare il letto. Se comincia ora, non smette più. 

Esageri, diceva lui. Avvicinava la moglie e le sfiorava la schiena; lei si scostava con un altro movimento irritato. Lui rispondeva serrando le labbra. Ritirava la mano dalla schiena della donna e subito cambiava tono. Diceva, È che non hai fiducia e non vuoi averne.

Non ne ho in te, faceva lei. 

Queste parole, il bambino le origliava alla porta della camera dei genitori, le intercettava tra un intervallo quotidiano e l’altro, assisteva all’insinuarsi di una sotterranea ferocia tra le stoppie domestiche, come il movimento di due serpi vigili all’attacco – rimaneva in attesa fino a quando la tensione non si faceva incandescente e le parole sparivano, sostituite da un procedere di passi marziali a preannunciare uno scontro. Con un fremito concitato, correva allora a stringersi l’uccello e subito tornava a letto, riparava tra i bozzoli del materasso, divaricava leggermente le gambe stando attento a far aderire le natiche alle traversine ordinategli ogni giorno sotto il lenzuolo. C’era anche stato, da parte loro, il tentativo di comprendere, di farsi largo nelle ragioni del figlio, ma ad ogni domanda il figlio taceva, scoteva il capo in un molle dondolio. Di fronte a quel silenzio, i suoi si erano allora fatti via via meno insistenti. D’un tratto, avevano smesso di rimproverarlo. Adesso, davanti a lui, subissavano il fenomeno sotto una slavina di parole torpide, sommarie, cercavano di prendere il largo dall’accaduto fingendo di non darci importanza; se ne parlavano, lo facevano comunque in maniera vaga, confusa, lontano dallo sguardo del figlio. Così, lui si era accomodato a quello stato di torpida omertà, a quell’atmosfera rarefatta di silenzi e frasi mozze, di acidi livori masticati sottobanco. Ogni notte assisteva alla fuoriuscita dei suoi umori in una straziata consapevolezza e il giorno dopo, crocifisso in verticale sul materasso bagnato, attendeva che madre e padre si presentassero alla sua porta per adoperarsi a pulire ciò che la vescica non aveva trattenuto. Lo trovavano rigorosamente sveglio, con un’espressione inerme e compassata a spezzargli la bocca, levavano il lenzuolo, lo facevano scendere dal letto e tessevano, intorno al suo corpo freddo di piscio seccato, una ragnatela di gesti inquieti: l’uno gli strattonava le maniche del pigiama, l’altra i lembi dei pantaloni; l’uno sfilava i calzini e l’altra le mutande. Scorticavano la sua pelle come si fa con la corteccia d’un albero. Sotto quei nodi di dita, il bambino presagiva una furia in crescendo. La vescica si riapriva rompendo contro le cosce in un flutto acido, caldissimo. A tratti bruciante.

I suoi avevano pensato che si trattasse di una fase. Ma non si trattava di una fase. All’inizio dell’estate non era ancora passata. 

Il villaggio turistico affacciava su una fetta di costa senza sabbia. Sassi e pietre si accumulavano insieme a cozze spaccate, a cocci di bottiglia, a frantumi di vetro. In mezzo a quella carcassa, la spuma grigia del mare sputava sulla battigia cespi di alghe rosse e meduse dai colori elettrici. La consistenza molle e gelatinosa del bulbo veniva penetrata, dai ragazzi, con le punte acuminate di bastoni raccolti in giro. S’accendeva allora uno strepito di ferocia balzana. Le mani raccoglievano altri bastoni, si faceva incetta di quel che c’era e che bastava, per poi scaraventarsi addosso ai corpi fino a scoperchiarli: li si massacrava in una selva di strilli e risate. Lo strepito era quello di mille sonagli, di diavoli impazziti, grida d’euforia violenta come un organo ipertrofico che si gonfia fino ad esplodere, come la sua vescica che si apriva di notte, incontrollabile, imprevedibile, pensava il bambino. Da lontano guardava la furia degli altri, con la premura di non avvicinarsi, di non partecipare. Lui non aveva nulla in comune con loro, quell’istinto fanatico in lui non risuonava e non trovava voce. Lui aveva indosso un costume rosso con Mikey Mouse stampato sul lato, a riparare il suo inguine lucido come una squama di pesce; loro, invece, portavano boxer elastici dove s’indovinava la linea dei peni non più giovani, ma prepotenti, già infittiti di pelo. Si allontanavano in acqua, spingevano il petto oltre la lingua d’azzurro dove si allargava un prisma blu titanio, il fondale spariva e i piedi non toccavano; allora, con un ghigno sdegnoso e strafottente, liberavano il cazzo e pisciavano come se inseminassero il mare stesso. Al contrario, lui non poteva spostarsi al largo. Avrebbe mancato al divieto, offeso sua madre. Lei occhieggiava ostinatamente dall’alto del suo podio. Apriva la bocca e formulava il suo nome; poche sillabe che rotolavano sulla cresta dei sassi, si spingevano a riva e cadevano nell’acqua con un tonfo, formando cerchi sulla superficie. 

Marco diceva.

E Marco si girava. Il corpo solenne di sua madre muoveva verso di lui con un’agitazione affannata. La pancia ricadeva in una piega sul costume da bagno, dalle cui ali s’intravedevano i peli della passera. Marco glieli guardava di striscio mentre la madre lo agguantava con una presa ad uncino, lo nicchiava sotto l’egida, nella parte piumata tra l’ascella e lo spazio rosso della coscia. Sua madre lo tratteneva per la coda mentre suo padre lo incalzava per il naso. Il padre rompeva la superficie dell’acqua, a colpi di dorso raggiungeva la boa più lontana, prendeva Marco da sotto le ascelle e gli insegnava a fendere le onde con i gomiti. Poi d’un tratto la madre, di vedetta dal bagnasciuga, alzava un braccio e il padre batteva in ritirata. Emergeva sporco di schiuma salina, con la pelle bucherellata da scaglie di sabbia nera e radici d’alga appese alla schiena. Tra il corpo della madre e il corpo del padre, il corpo del figlio ora si muoveva rotto, scomposto; era conteso tra due carni opposte, agganciato all’’amo dell’una e a quello dell’altro; subiva uno smembramento simile a quello delle meduse sbrindellate a colpi di bastone dai ragazzi più grandi. Ogni sera, sul lenzuolo del suo letto, la madre e il padre stendevano una cerata. E in entrambi, notava Marco, c’era come una sotterranea contesa nell’appropriazione di quel gesto – un certo modo di urtarsi, di scavallarsi, di allargare il dominio su un angolo del materasso, sulla federa del cuscino. Quell’istinto rivaleggiante veniva poi ripristinato il mattino seguente: il primo dei due coniugi a svegliarsi ritirava la cerata pisciata stabilendo così di diritto una superiorità sull’altro, un’egemonia che spodestava qualsiasi volontà all’infuori della propria, per l’intero arco della giornata. Ad ogni modo, il genitore deposto cercava comunque di fare breccia nella supremazia dell’avversario. Nel lavare il figlio, madre e padre insaponavano e lavavano un pezzo di corpo ciascuno, sgrassavano via l’urina dalle curve interne e parevano accaparrarsi quanti più strati possibili, trattenevano il figlio ciascuno per un braccio mentre scendevano alla spiaggia, tirandolo all’occorrenza verso di sé per allentare la presa sul fronte opposto. Distribuivano quindi gli asciugamani sui lettini, spogliavano il bambino e lo impomatavano, strizzavano i calcagni, affondavano le dita tra le scapole e i lombi, gli sfregavano la fronte fino ad arrossarla. Un odore di materia collosa, di sudore e crema solare cominciava a colare come cera d’ape lungo la mascella di Marco, nell’incavo del collo, fin sotto l’elastico del costume. Lui sentiva la carne genitoriale chiuderlo a muraglia, sebbene in maniera meno spavalda di come usavano fare in privato: in mezzo agli altri villeggianti, i suoi genitori d’un tratto si facevano vigili e mansueti, avevano cura di elargire sorrisi e scambiare parola; in quelle occasioni si riscontrava in loro un riserbo che visto di lontano poteva anche apparire sfumato d’una qualche tenerezza ma che da vicino assumeva aspetti rannuvolati, financo minacciosi. 

Nell’ombrellone accanto al loro c’era sempre un donnone dalla fronte alta e sporgente, con un bozzolo sul lato sinistro; fumava di continuo e scatarrava in un volgare romanaccio; era in villeggiatura con la figlia sedicenne. Questa figlia, Marco la vedeva tutte le mattine: bassa e robusta, con i peli sotto le ascelle, indossava un costume a due pezzi, viola a fiorellini gialli, sulla vita larga, rotta da tre rotoli di carne. Aveva capelli sporchi come stoppa rancida, con striature nere e albine, e una bocca carnosa, sul cui labbro superiore prorompeva un herpes crostoso e giallastro. Quasi repellente, a vedersi. Marco spiava il corpo della ragazza che caracollava sulla passerella a stecche verdi e bianche e si tuffava nell’acqua con molesta goffaggine. Non gli veniva da ridere. Da un lato, guardava la furia dei ragazzi che smembravano meduse, dall’altra la carnosità tumida dell’adolescenza già fatta. La madre della ragazza parlava con la madre di Marco delle mestruazioni della figlia. Si lamentava perché aveva flussi eccessivi, troppo abbondanti. La madre di Marco trovava la donna troppo esuberante. A tratti inopportuna, diceva. Suo marito invece scoteva il capo: riteneva fosse una persona che parlava sinceramente. Nulla di più.

Dice le cose come stanno, osservò una volta. Tornavano tutti e tre dal mare; la madre e il padre di Marco si erano riconosciuti in un medesimo tremito. La madre si era fermata, aveva alzato sul marito uno sguardo sfrontato. Di colpo, aveva strattonato il polso di Marco, e con una tale veemenza che il marito aveva perso la sua presa: era rimasto interdetto, a mani vuote in mezzo alla strada. 

Quella sera, Marco aveva sentito i suoi discutere – a bassa voce; erano in cucina e il rubinetto era aperto; sua madre trafficava con le pentole e lo sciacquio dell’acqua correndo trascinava le parole. Una settimana più tardi, il padre riempì un borsone – gli pascolava, sul viso, un’espressione ferale. Disse di dover rientrare in città adducendo un impegno inderogabile. E Marco aveva finto che fosse vero. Non aveva protestato. Ma nella contesa finale, aveva dovuto riconoscere che qualcosa era accaduto, uno dei due avversari aveva abbandonato la presa: adesso era sua madre a troneggiare, portava alta sulla sua testa la fiaccola della vittoria.  

La madre consegnava al figlio secchiello e paletta, lo vigilava durante il gioco. Gli raccomandava di non allontanarsi. Trincerata dietro la corazza del cappello e degli occhiali, erigeva, intorno al corpo del figlio, un filo morboso di sguardi. Nel tardo pomeriggio, cedeva alla stanchezza di quella veglia. Marco la vedeva stesa come una statua di bronzo sulla rete del lettino, con le braccia rovesciate a terra, le palpebre chiuse sugli occhi. Dormivano anche la grossa signora romana e sua figlia, con un gomito sugli occhi a scoprire la fitta peluria nel cavo della spalla. Marco poltriva nella noia lenta e soporifera. Ogni tanto infilava una mano dentro il costume e si toccava le palle. Misurava il suo membro per vedere se avesse le stesse fattezze di quello degli altri ragazzi e si sentiva trafitto da una spada di incompletezza. Attraverso gli occhi stretti a piccole fessure guardava la piana metallica del mare e le ostili circonferenze blu titanio che vietavano il suo passaggio.

Ogni giorno, le scrutava con una curiosità che diventava via via più carnivora. 

Un pomeriggio della quarta settimana, fece questo gesto: si alzò, tirò l’elastico del costume rosso con Micky Mouse stampato sul fianco e scrollò la sabbia che c’era entrata dentro, incrostandosi ai maroni. Girò la testa sulla spalla e guardò prima sua madre, poi la grossa tabagista romana, infine sua figlia. Dormivano tutte. Imboccò la passerella e sentì le sbarre del sole cocenti striargli la pelle: un unico artiglio che gli incise la carne dalla nuca al sedere. Le stecche bianco-verdi bollivano e lui prese a zampettare con i talloni in fiamme. Arrivò sulla riva e lasciò sfrigolare i piedi. Guardò intorno la piana di sassi, gli avvallamenti dove le pietre sprofondavano ed emergevano carcasse di vetro, reti strappate, bastoni marciti. L’acqua non era pulita: era una brodaglia verde cupo sulla quale      galleggiava di tutto. C’erano stati giorni in cui aveva visto galleggiare pezzi di merda, pannolini gonfi di escrementi, panni lordi, stracci e ciucci rósi dalla marea, scarti di marcio e muco che il mare inghiottiva e vomitava di notte, che risputava nelle tonsille dei bagnanti, ingrommata alla pelle dei nuotatori.

Scavò con un piede sulla riva. Un pezzo di cozza gli strofinò la pelle sotto l’alluce e lui sentì un dolore, minimo, ma lampante. Si fece coraggio, lo spinse il disgusto. Lasciò che l’acqua gli salisse ai polpacci. Arrivò fin dove la rena era muscosa e sdrucciolevole, ma ancora resistente. Smosse l’acqua con le mani per provare a guardare il fondale: brulicava di materia morta e fosforescente, macerie umane e monnezza chiusa agli occhi degli altri, ripiegate nelle fosse e i solchi del sottosuolo. 

L’acqua ribolliva d’una calura vulcanica. Ma in fondo non era sceso al mare per rinfrescarsi. No: era sceso per altro. E via via nella mente gli si schiariva un pensiero – la punta di una lancia infiammata gli penetrò nelle costole. Proseguì fino a che l’acqua non arrivò a sfiorargli l’ombelico. Si fermò e misurò il fondale. Lo sentiva digradare. Si girò per guardare la riva. Nessuno s’era mosso; nessuno lo cercava. Sua madre dormiva, ancora. Spinse in avanti le braccia e staccò i piedi dal fondale. Tutt’in una volta, l’acqua gli arrivò alla gola. Con la testa ben tesa fuori dell’acqua, Marco prese a muovere forsennatamente gambe e braccia, avendo attenzione di fermarsi a intervalli regolari perché nessuno, vedendolo dalla riva, s’allarmasse. Non gli faceva paura il fatto che sotto non toccasse, né si chiedeva quanto fosse profondo. Non voleva pensarci.

Nuotava a bocca aperta inghiottendo ogni tanto dell’acqua: scaglie di sale e merda che gli si incastravano tra i denti e che lui risputava in fretta. 

Nuotò fino a quando non sentì cambiare la corrente: da torpida e calda a compatta e fredda. Allora capì che stava avvicinandosi alla zona di confine. Sfiorò la barriera prima con un ginocchio, poi con un gomito. Aggirò l’area con una perplessità fisica ed inquieta. Poi, con un colpo delle natiche, varcò la zona proibita. Subito, il freddo gli entrò negli intestini: salì per le gambe e gli gelò i coglioni. A pancia ghiacciata, Marco rimase paralizzato qualche secondo; poi, senza troppo sforzo, con le braccia, cominciò a smuovere l’acqua all’intorno. Vedeva, di lontano, la sottile linea della riva appannata dalla caligine e le file colorate degli ombrelloni. Gonfiò i polmoni, inalò e spinse la testa sott’acqua. Il branco d’acqua gli si schiantò nelle pupille spalancate. E nonostante il bruciore, volle resistere: code di bollicine salivano in fretta lungo i suoi fianchi. Agitò le gambe e risalì rapidamente. Nel riemergere, aprì d’istinto la bocca e un flutto gli si piantò in gola. Lo mandò giù strizzando gli occhi. All’immersione successiva, decise di provare a spingere il corpo più in basso. Con il peso della testa e delle natiche, sprofondò qualche centimetro sotto il pelo dell’acqua. Rimase così, come un fusto d’alga a ondeggiare sospeso in quella materia scura e plasmatica. Scaglie giallo-nere fluttuavano brevemente nel buio rompendosi sulla superficie increspata sopra la sua testa. Lì, nascosto da quei fasci d’ombra fredda e bluastra, in quel branco d’acqua salata, Marco vedeva le cose e il mondo senza suono e senza voce, con un’acutezza interiore che lo faceva sentire stranamente al sicuro. Un altro movimento fluido e palpitante: si spinse ancora un poco più giù con le gambe. Il freddo si fece tagliente. Pensò d’istinto alla parola mulinello – che doveva essere uscita dalla bocca di sua madre – e poi a una mano tentacolare pronta ad arpionarlo. Allargò automaticamente le braccia in un gesto di difesa. Sotto di lui, il nero chiudeva ogni prospettiva: su quel fondale, aperto come la bocca d’una rana pescatrice, fitta di creste ossee e spine, non si vedeva niente; le poche lame verdognole che striavano l’acqua blu titanio, laggiù si spegnevano. Marco aprì e chiuse le palpebre più volte di seguito – lo fece pesantemente, perché la pressione dell’acqua rallentava i movimenti. Più si spingeva giù, allontanandosi dalla superficie, più la forza dell’acqua premeva sulle sue orecchie, batteva contro il petto e le cosce. Fu in quel momento che avvertì uno spostamento di corrente. Una spinta netta e improvvisa, che lo gettò prima da un lato e poi dall’altro; infine, gli avviluppò le caviglie e lo trascinò giù senza alcuna generosità. Il polpo tentacolare, solo sentito, non demordeva, e nello sbigottimento che lo prese, Marco cominciò ad agitarsi. Torceva il torso, alzava le braccia; aprì istintivamente la bocca e subito l’acqua putrida gli inondò i polmoni. Scendeva a picco e via via che sprofondava il cerchio di luce si faceva tenue, scoloriva. Sentì le forze assottigliarsi: banchi di bolle che uscivano dalla sua bocca e dalle sue narici, insieme a vaghe striature di sangue, da grandi si facevano ogni volta più piccole, impercettibili. Continuò a compiere atti spastici fino a che il suo movimento non diventò un fluido afflosciarsi, come le corone d’un anemone di mare, spinte in avanti e indietro. Calava in mezzo al buio e attraverso le palpebre quasi cieche non scorgeva che il fondale mostruoso e una vaga lamina fosforescente. Se i deboli impulsi del cervello lo esortavano a resistere, i suoi organi interni e le membra intorpidivano. Ora, sotto di lui, vedeva – o immaginava di vedere – la sagoma amorfa d’una pianta imponente, dalle foglie striate di smeraldo a motivi rossi e circolari. Si sarebbe liquefatto su quella pianta marina, che l’avrebbe risucchiato nelle viscere e poi inglobato nella sua materia umida e polposa. Allora il buio si sarebbe chiuso sopra di lui e lo avrebbe seppellito sotto un cumulo di rena e sporcizia gelatinosa. Un piccolo anfibio, creatura fetale e limacciosa, qualcosa di viscido e invertebrato: ecco cosa ne avrebbe fatto di lui, quell’acqua amara, infetta, troppo insensata. Il suo corpo da prepubere ridotto a un fusto d’alga inerte. Con spasmi sempre più esigui, sulla sua fronte spuntò un fiore vergine e illuminato: non c’era più tempo né modo per razionalizzare la paura, perché la paura aveva smesso di esistere. 

Allora accadde: il suo corpo, rilasciato a sé stesso, reso involucro di ossa e linfa, di acqua e sangue grigio-azzurro, fu spinto in alto da un colpo d’onda. Il tentacolo che aveva agguantato il tallone abbandonò la presa e l’involucro-corpo risalì in superficie, come un pallone gonfio d’elio che segua le correnti d’aria. L’areola tremula del sole che si rifletteva sull’acqua fu spaccata dall’attrito del capo contro la superficie. Il corpo-involucro riemerse, galleggiò a pelo del mare. Fu trascinato per un po’, con l’acqua che sbatteva contro la linea dei fianchi. Poi, in quell’immobilità, un bagliore squarciò il buio sotto le palpebre: uno sbocco violento salì su per la gola di Marco. Il bambino schizzò in su la testa e vomitò un pugno d’acqua grigiastra. Gli occhi, resi gonfi e rossi, erano appannati da un velo confuso e un senso d’incoscienza gli fasciava la zona dal collo in giù. Prese a tossire violentemente e tra un colpo di tosse e l’altro ebbe come la sensazione di abitare la pelle che aveva addosso per la prima volta. Era una sensazione diafana, indistinta, di straniamento. Ci volle un po’ perché anche gambe e braccia trovassero motricità. Allora, con movimenti pesanti, si allontanò dalla zona fatale. Quando fu a una certa distanza dalla riva, si fermò senza fiato. Inclinò un poco indietro la testa, strappò giù il costume, liberò il pesce e urinò, come aveva visto fare ai grandi. Rimase in quella posizione verticale finché sulle labbra non gli comparve il sospetto di una risata che si allargò fino a riempirgli la bocca. Fece quindi l’ultimo tratto e uscì dall’acqua. 

La madre, come una poiana in all’erta, troneggiava sulla battigia. Lo agguantò per un braccio e lo avvinse a sé. Imprecò più volte. Con la faccia angosciata, gli chiese dove fosse stato. Marco si limitò a guardarla senza rispondere.  Dov’eri? chiese ancora lei. Strinse le labbra. E lui rispose, Qui. 

Dove, qui?

Marco non disse niente, spinse la testa tra le spalle.

Ti sei spinto al largo?

Poi sono tornato indietro.

La mano della madre si rovesciò sulla guancia del figlio lasciandogli impresso un segno rosso. Un solco netto e severo le spaccò la zona in mezzo agli occhi. È pericoloso, Cristo Santo! cominciò a gridare. Non si tocca, lì! I mulinelli ti prendono e tirano giù.

Solo alcuni…

Che hai detto?

Niente.

Devi rimanere a riva, hai capito?

Sì.

Dove posso vederti.

Sì.

Sei piccolo, ancora.

Sì.

La madre aveva il respiro grosso. Riprese fiato. Quando si fu calmata, si spazzò la fronte. 

Andiamo a casa, ora, disse. 

Madre e figlio si vestirono. Lungo il tragitto, la donna teneva saldamente la presa intorno al braccio del bambino e stringendolo in quel modo Marco ora non poteva fare a meno di pensare che gli facesse male. Si liberò dalla stretta, rimase in piedi in mezzo alla strada. E subito lo sguardo della madre lo trafisse da capo a piedi; ebbe un gesto costernato; di nuovo strinse le borchie delle sue dita al polso del figlio. Ripresero la strada senza dirsi nulla. La madre non fece domande e Marco era troppo scosso, incendiato da un furore nuovo ed estraneo, per parlare; e in una qualche maniera oscura pensava tra sé che mai avrebbe potuto raccontare ciò che aveva vissuto dal momento che ciò che aveva vissuto si collocava su un piano intimo e segreto, qualcosa che sua madre mai avrebbe compreso, mai avrebbe voluto ascoltare. Lo avrebbe zittito come zittiva suo padre, con un movimento scontroso del polso.   

Cenarono, quella sera, in un clima di silenzio ostile. La madre si muoveva brusca e nervosa; Marco, invece, lasciava correre gli occhi sui bordi della tovaglia, negli interstizi del pavimento come a seguire una coda d’argento che correva sotto la superficie. Un bagliore antico, un barbaglio di perla incrostata sotto cumuli di sporcizia nera. All’ora di coricarsi, la madre andò ad aprire l’armadio, sfilò una cerata dalla pila. Si fermò ai piedi del letto di Marco e per un po’ rimase incerta. Si voltò di profilo a bocca slacciata. Infine, scosse la testa e stese la cerata sul lenzuolo. Rimase, Marco, in piedi senza muoversi. Attese che la madre si allontanasse: la vide imboccare il bagno e attraverso la porta aperta, vedeva il suo riflesso nello specchio sopra il lavandino. Si spogliò, come faceva ogni sera. Rimase poi a guardare a lungo la cerata grattandosi una spalla, come se sentisse ancora addosso lo sporco lasciato dal mare, un qualche rimasuglio d’alga, uno scarto salino intrappolato sulla pelle. Non era la pelle di sua madre né quella di suo padre, quella che aveva addosso. 

Con un gesto secco, strappò via la cerata e la gettò a terra. Non gli sarebbe servita, quella notte. 

tutte le fotografie di Lydia Metral.

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