Vanity Fury

un racconto di Mirko Mondillo,
tutte le fotografie di Cristina Rizzi Guelfi.

Mircea sta per farsi la pipì addosso. È brutto. Non è ancora arrivata al punto in cui si accartoccia sul pube. Una certa educazione la frena dal pararsi davanti a un muro e fare quello che deve; le manca quel che le manca. Non le capita spesso che i suoi interlocutori le chiedano perché abbia un nome da maschi (Mircea sa per conto personale che molti ignorano che lo sia). Se avesse avuto il nome da femmina e il corpo dei maschi avrebbe già sciolto il suo patimento. 

È da un’ora che sta girando nel parco ed è uscita di casa in fretta. Era qualche giorno che aspettava quella telefonata. L’attesa di quel contatto l’ha impegnata per più di cinquantadue ore, ma se con sé stessa generalizza è solo perché vuole convincersi che la cosa non le dia fastidio. Mircea aspetta che l’acqua bolla e la fissa, aspetta che l’erba cresca o che lo facciano i capelli, attende ancora che in città entri il messia perché è arrivata tardi alla porta grande. Donaldo non le ha ancora detto dove andare e quando. 

Quando sulle spalle o sugli avambracci non c’è più l’unto da appallottolare, quando la bocca è già piena del sangue delle afte morsicate, quando anche dalle labbra la screpolatura trasparente è stata divelta, cosa resta da fare per occupare il tempo dell’attesa? Mircea non può più girarsi i capelli tra le dita e farne fiocchettini, strappandoseli. Se li è rapati a zero tempo prima: la dermatite le aveva desensibilizzato il cuoio capelluto. Il dermatologo glielo dimostrò con un esempio pratico. La fece sedere di fronte a uno specchio con gli occhi chiusi, poi le chiese il permesso di fare una cosa. Una mano del medico le premeva sull’orecchio, sentiva il polso pesarle sul vertice. «Guardi ora». Sul guscio del cranio aveva ritti, conficcati nella carne come gli aculei sui musi dei predatori scemi, cinque spiedini di legno. «Una puntina di spillatrice, l’avrebbe sentita dal rumore, non dal dolore». Dalle zone interessate il dermatologo capì, e le disse, che il problema era meccanico e di interesse topico. «Lei si tira i capelli». Mircea confermò. «Perché?». Alzò le spalle e le ributtò in basso, non vi era un motivo preciso. «È sposata, fidanzata?». Mircea rispose che era sposata per arrivare prima alla prescrizione e farsi mandare via. Ha già chi bada a lei, il medico stampi e firmi. «Bene, dica a Donaldo… per favore… che non la stressi troppo».

Inizia a far buio e Mircea non si è accorta che il parco si sta svuotando con una certa velocità, tanto che le uscite sono ormai più affollate dei grandi viali da passeggio, alberati e grigi. Solo i disperati, che altrimenti non saprebbero cos’altro fare, insistono nel non ritirarsi; ognuno pesante di una disperazione diversa da quella degli altri. Lei continua a camminare, ma ha aumentato il passo. Ha ritenuto che camminare, muoversi, fosse meglio che stare ferma: la reazione al contatto di Donaldo sarebbe stata, così, più pronta. Le ginocchia le si avvicinano, da sole, per impedire che il corpo si rilassi o faccia quello che sente di impellente. Mircea non è una stracciona, si presenta decentemente e nessuno le offrirebbe aiuto. Non vuole andare nei bagni del parco: sono sotterranei, il telefono non prende. Nel tratto che sta percorrendo ci sono delle donne pakistane. Smessi i lavori domestici, hanno portato i bambini a mettere le mani nella merda, a tirarsi la ghiaia addosso, a vincere il tetano o i pidocchi come fossero premi, a rompersi i pantaloni. I maschi sono dei mostri con gli occhi tondi da rospo, le femmine hanno spesso due trecce annodate con i fiocchi e la peluria nera lungo la mascella e sopra il labbro. I maschi sono degli orrori che già trasudano spezie dalla pelle, ed è terribile stargli accanto: piangono gli occhi e la gola pizzica. Le femmine sembrano i loro fratelli o i loro padri, ma con la parrucca. Mircea li evita tutti: se qualcuno di questi bambini la urtasse perderebbe di sicuro l’aderenza inguinale che sta trattenendo. Guardando le pochissime donne adulte presenti pensa a quanto siano delle povere bestie. Si costringono all’amicizia con le connazionali perché i figli possano far gruppo con quelli delle altre, quelle che stanno a casa vessate dalle passioni dei mariti o sono ancora a lavoro perché un marito non ce l’hanno più. 

Mircea odia questi bambini perché sono brutti in modo repellente.

Da donna brutta quale è non riesce a tollerare che il brutto la circondi perché vi riconosce la sua stessa infamia. I nasi adunchi di quelle madri, la malagrazia nel profilo panciuto dei loro figli, le unghie e i talloni del vecchio che è passato, anche la carcassa sbianchita di un piccione nell’aiuola fresca. Se la bruttezza fosse stata un tratto posseduto solo da lei e da pochi altri, l’avrebbe accettata come una caratteristica genetica che sfugge alle statistiche e che i dottori non riescono a spiegare. Invece è ovunque, è comune. La sua è una bruttezza che la chirurgia non riesce a sistemare (è troppo diffusa, in alcuni punti inscalfibile), nessuna adulazione psicologica riesce ad alleviare (è in lei troppo palese). Detesta il brutto altrui perché ha in schifo il proprio. Farlo le aprirebbe le cateratte dell’orina, ma le piacerebbe calarsi, prendere una manciata di pietre e lanciarla a quelle donne; prima si avvicinerebbe quel tanto che basta per rendere più potente il colpo. 

La dottoressa Olga le aveva detto che le piaceva, che faceva al caso dell’agenzia e che aveva delle mani veramente notevoli. Mircea aveva risposto a un annuncio di lavoro per assistente in loco. In allegato alla mail sulla corretta acquisizione della candidatura vi era un modulo da firmare e rispedire: incontrando il candidato, le risorse umane avrebbero potuto astenersi dallo specificare i dettagli della mansione. Il giorno della convocazione Mircea si sedette, parlò della propria istruzione e dei propri voti, cercando di fare buona impressione. Soprattutto non voleva che la responsabile della selezione esercitasse quel diritto. «Lei mi piace, fa davvero al caso di questa agenzia, e per politica aziendale non ci interessano i suoi traguardi, ma solo la sua persona». La dottoressa Olga le presentò una cartellina in cartone, nella tonalità di un blu fumo. Al centro campeggiava una “o” maiuscola e puntata. In quel momento dirigeva il colloquio, ma era la titolare. Nella scelta di usare l’argento e non l’oro per riempire i tratti della “o” Mircea notava una presa di posizione. Capì, infatti, che tutta la situazione generale rientrava nella categoria del lusso, ma non dal palazzo con le cariatidi all’ingresso in cui era stato fissato l’appuntamento né dal fatto che sul tavolino della sala d’attesa c’era un’acqua evian per ogni bicchiere di vetro (coperto da un fazzoletto in cotone, non capovolto): gli uffici possono essere affittati a giornate, l’acqua si compra al supermercato (quella che resta, la porti a casa). O. doveva operare nel lusso: non in uno cafone, ma in uno conscio di sé stesso. Lo pensava guardando l’argento, dato che l’oro è solo da zingari. «Mi piacciono le sue unghie e se non le dispiace vorrei anche stanziare un budget settimanale da usare esclusivamente per esse». Disse esclusivamente ed esse alzando un po’ di più il tono della voce, emettendo un certo acuto in corrispondenza delle loro vocali iniziali (a sentire il secondo di questi due termini Mircea unì le punte dei piedi sotto il tavolo). «Il lavoro in effetti può essere migliorato, tutto può esserlo, ma noto in ogni caso una certa…». La dottoressa Olga non terminò la frase e Mircea fece opera di maligno pensando che tutta la scienza della donna fosse stata prosciugata dalla tensione della posa affettata. «…o può chiedere alla sua manista di aggiornarsi, in particolare per quanto riguarda le tonalità e le forme, oppure, se non la offendo, posso indicarle un’ottima professionista, qui, in centro». 

Mircea è brutta, lo era anche durante il colloquio e lo sarebbe stata anche uscendo dall’ufficio: non è che non credesse nell’osservazione della dottoressa Olga, non ne capiva le necessità. In quel periodo (le aveva terminate qualche giorno prima) aveva delle unghie squovali che erano in pari con la punta delle dita. Quelle lunghe le davano il disgusto. Quando faceva la cassiera al supermercato alle donne che avevano le unghie lunghe e gli artigli da bradipo indicava sempre il piattino. Avrebbero lasciato lì sopra i soldi e lei li avrebbe ritirati e incassati. Se si fosse lasciata graffiare, sgrattare o anche solo toccare da quelle unghie, ci avrebbe rimuginato su per tutto il giorno, perdendo la flemma che, non per contratto, ma per educazione aziendale, doveva dimostrare sempre con tutti e per tutto il turno. Le sue le aveva limate provando a imitare quelle di una in una pubblicità di profumi. Le sarebbe piaciuto smaltarle con il 509 verde pastello di Chanel, ma non ritenne fattibile la spesa per il bene. Scelse un colore simile, prodotto da un altro marchio. Il termine squovale, il seriale dello smalto e anche il fatto della concordanza tra il tipo di verde e la tonalità della sua pelle li aveva appresi informandosi in un forum di ragazzine e feticisti poco furbi. «Con il budget che avrà a disposizione sono certa che potrà sostituire quello smalto che ora adopera con quello che spero avesse davvero in mente». Stava per dirle che in realtà erano opera sua quando la dottoressa Olga le spiegò il lavoro per il quale, se le avesse fatto piacere, avrebbe potuto già considerarsi assunta. Mircea disunì le punte dei piedi. 

Se il personaggio viene arrestato dalla finanza o il giornalista prova a ricostruire i motivi per cui il banchiere è volato da una finestra (“Questa è la città dove volano i banchieri”) è perché a organizzare l’evento non è stata O.. O. è una società multisettoriale e multiservizi. La sua struttura è piramidale: tutta la piramide è O., ma nessuno dei suoi blocchi lo è singolarmente. La dottoressa Olga rimarcò molte volte l’importanza della piramidalità e della reciproca indifferenza tra i blocchi. Alla base della struttura vi sono i servizi di catering, quelli multimediali e quelli hostess. A questo livello O. accetta qualsiasi tipo di incarico: eventi aziendali, fieristici, celebrazioni private, come anniversari, lauree e matrimoni. Agli eventi gestiti dai blocchi più bassi di O. la dottoressa Olga è sempre presente. Manca a determinati matrimoni o a determinate feste, non manca mai alle occasioni aziendali. È in base alla valutazione che fa di persona che decide se l’accesso alla fila piramidale superiore è fattibile. Su dieci nuovi possibili clienti solo due salgono la piramide.

Mircea si guardò le mani e si chiese se valessero davvero un complimento. 

Per quel giorno Mircea aveva deciso di chiamarsi Misery. L’addetto al blocco multimediali che avrebbe dovuto lavorare con lei non si era presentato. Come nei ristoranti quando il cameriere esaurito – le vene del cervello d’improvviso più grosse, calde e più piene di sangue – decide che non ne più, e non pensa al fatto che la rivolta gli costerà lo stipendio (sarebbe bastato sputare nei piatti, mettere le dita nei dolci, pisciare nel frigo), e lascia scoperto il servizio, così era successo durante la consegna delle mansioni della serata. La dottoressa Olga era da due giorni a Ischia per decidere se il direttore dell’ASL potesse o meno passare ai livelli superiori. Cercò di risolvere la situazione investendola di responsabilità. Fino ad allora non aveva dovuto fare altro che cliccare sul cicalino portatile e indicare il marchio O. sulla camicia, gesto che i clienti dovevano recepire come ammonimento. «Sono clienti, pagano: non sono ospiti. Ricordiamolo». Lo squillo intermittente significava La prego di astenersi, lo squillo continuo Le intimo. Misery non era autorizzata a parlare con loro: le erano concessi solo trilli e gesti. Non sapeva bene come gestire il multimediale. Nei mesi precedenti aveva solo girato tra i clienti, assicurandosi che arredamenti e mobilio non venissero distrutti, o che determinati oggetti non venissero utilizzati in modo scorretto (gli immobili erano di proprietà della O., ma non i loro interni – affittati). Questa nuova mansione le imponeva di avvicinarsi di più, di interagire di più e di parlare. La dottoressa Olga non usava né il termine serate né quello di eventi (gli eventi erano quelli del tipo di Ischia), ma diceva “il fatto”. Durante il fatto del 25 marzo, vicino ad Arquà, Misery prese iniziativa e confidenza con una cliente. Non aveva mai fatto una cosa del genere, soprattutto perché non le era mai capitata l’occasione. «Mi-seeeerì-cheeee/ù…nghia-tù/ciài!». Mircea aveva ricevuto un dossier – il nome era stato oscurato. Seppe solo molto dopo che la donna aveva una bella posizione al genio di Livorno. Il fatto era stato organizzato per uno scambio di favori. O. operava soprattutto in questo campo; era l’arma bianca delle consorterie. La maggior parte degli immobili posseduti da O. erano stati ceduti all’azienda come compenso e come riscatto. Il nero, come i due accanto e quella dell’est in terra, chiamata da lontano a stare tra le gambe del militare («Urì, urì, idite syuda»), non capì nulla della conversazione tra Misery e il membro del genio. Le vide passarsi il suo cazzo. Gli altri due si avvicinarono, puntando come frecce vettoriali verso la faccia della miss («Ai ghulam, mi raccomando, è permesso dire solo yes miss, yes mister»). «Grande idea, Misery!». «Iesmissa».  

Quando gli antichi greci avevano bisogno di far scortare i tributi verso i templi o gli oracoli si affidavano all’uomo più ricco della comunità. Confidavano nel fatto che, avendo già le sue sostanze, l’uomo si mantenesse leale al compito per il quale era stato scelto: il tributo per Delfi non avrebbe dovuto eccitarlo. La dottoressa Olga aveva assunto Mircea secondo lo stesso principio, ma declinato per difetto. Brutta, abituata a non essere guardata, non avrebbe arrecato fastidio sul lavoro: non era un caso se tutte le addette più vicine ai clienti fossero brutte. Appena tornata da Ischia e dopo aver ascoltato da una miss entusiasta della grande inventiva di Misery, la dottoressa Olga convocò Mircea. Era già un anno che lavorava per O. e la sua condotta era sempre stata integerrima, ligia ai comandi del vertice. La dottoressa Olga ignorava per quale scopo il budget settimanale che le aveva concesso subito, al primo colloquio, venisse impiegato. Assegnava sempre budget simili: al blocco della sicurezza per la palestra (impiegato per gli steroidi), alle hostess per l’abbigliamento (impiegato per la chirurgia plastica periodica), al blocco del multimediale per migliorie tecniche (impiegato in micro-camere spia, col girato non utile venduto sui telegram cinesi o albanesi). Dopo averlo effettivamente usato per la manista, Mircea destinò diversamente il denaro supplementare. Per sopportare di fare da scorta al tributo greco trovò Donaldo. Prima di ogni fatto Mircea lo cercava, così che per la sua fine avesse già tutto a disposizione. La dottoressa Olga dovette intimarle più volte di smettere di arricciarsi i capelli in sua presenza, dato che la distraeva da ciò che doveva dirle. «La nostra collaborazione termina qui». Impiegò meno parole di quante ne aveva inizialmente preventivate. Mircea smise di arricciolarsi le ciocche. «Come le è venuto in mente di dirigere – e dirigerlo in quel modo, prestandovisi in prima persona – il fatto?!». I dispositivi di registrazione, compreso il cellullare che Misery utilizzò quella sera al posto dell’addetto al multimediale, versavano automaticamente in un cloud tutto ciò che registravano: questi contenuti sono la moneta di scambio per i clienti. O. è una banca, mette in sicurezza del materiale, lo preserva, lo presta quando è necessario ai clienti. La dottoressa Olga aveva davanti a sé, nella cartellina blu fumo aperta sulla scrivania, una serie di fogli che recitavano – trascritto – quanto era occorso. Al complimento della miss livornese Mircea aveva risposto con una proposta, che mise in pratica. Un’ingerenza indebita per il fantasma che avrebbe dovuto interpretare e per la mansione che avrebbe dovuto svolgere. «I cazzi li tocca altrove». La dottoressa Olga non rispose alla mano che Mircea aveva sentito istintivamente di dover tendere. Lo smalto era di un colore diverso, ma il marchio era sempre quello del giorno del colloquio. 

Prendendo il buono dal buio in calata, come l’assassino o la tigre, che raggiunge il villaggio solo al crepuscolo, caduto l’interdetto mattutino, Mircea attraversa per dritto l’area dei giochini; punta alle spalle dello scivolo giallo. Il retro della struttura è cinto da una bretellina di cespugli che separa lo spazio per i bambini da quello lungo e aperto della camminata centrale. Sui cespugli, racchiusi a terra da un sorriso di pietre squadrate, si alza un numero di alberi, che nel piano dell’architetto avrebbe nascosto allo sguardo dei passanti il fusto del lampione. Di schiena, Mircea si accovaccia lungo la sua altezza, a poca distanza dal terreno, dai mozziconi e dai rifiuti. Riesce a frenarsi, giunta quasi al punto in cui non è più possibile farlo – per pudore o curiosità, incontrollabili. 

«io ti voglio bene, ti do una cosa bellissima che a casa non hai».

«non posso».

«a casa ho una graaaande collezione di orecchini per il naso come il tuo, più beeelli, te li regalo tutti».

«mamma poi si arrabbia, si arrabbia anche rashid».

«nooooo io la conosco tua madre, io sono lo zio, lei lo sa già».

«davvero?»

«sì sì, ho parlato con lei al telefono prima, io ti voglio bene, non faccio arrabbiare nessuno».

«e rashid?»

«lui ha detto ok, dice che devi fare la brava. Lo vuoi il gelato e l’orecchino bellissimo?».

Il taglio del cespuglio voleva rivelare l’intenzione con cui l’arborista lo aveva disegnato. Lo spazio dei bambini va delimitato, deve svolgersi entro una zona circoscritta, ma non deve occludere né opprimere; non voleva essere un recinto, ma solo uno steccato da suburbio: dare ampiezza, pur di fatto controllandola e gestendola. Attraverso la sgambatura della massa verde, i piccoli fusti esposti (né alberi alberi né piante piante) e i rametti troncati per l’armonia del disegno, si può osservare tranquilli quello che accade. Di là, a destra, il ghiaino impolverato veniva smosso con un paio di infradito dalla fascia viola. Sulla punta delle dita resistevano delle lunette color rosso: l’inverno che s’era sciolto aveva sorpreso il loro corpo, o chi lo gestiva; non era uso che venissero dipinte e poi mostrate, altrimenti la laccatura sarebbe stata uniforme e non sfogliata. Le caviglie erano in continuo movimento e Mircea ne vede i tendini, ancora brevi, stretti, reagire al peso spostato. Sulle tibie, fino a dove si lasciavano scorgere, vi era una mappa di graffi, scorticature, croste di sangue, bozzi e lividi: quel martirio era dovuto alle lotte con i fratelli, alle punture di zanzara e di cimice, al gioco di un gatto o un cane, alle pedagogie di un adulto, alla frenesia dell’infanzia, a cui serve che il corpo venga colpito nei suoi limiti per riconoscerlo come un fatto che esiste e che è proprio. La scelta del viola poteva essere giusta. Il tono dell’incarnato era quello del cioccolato quando, passato il suo tempo, una patina bianca lo riveste, e così diventa meno invitante. Anche il bordeaux, il cremisi e un arancione molto molto scuro sarebbero state delle buone scelte. A sinistra, le appendici di uno che vive in un mondo strano. Non è lo strano che meraviglia, quello delle wunderkammer o delle modelle col diastema, gli occhi distanti come i colombi o la vitiligine; neanche, però, quello che attrae repellendo, che ti allontana ma chiamandoti, guardami guardami, del body bizzare: il labbro leporino, una ciste nel sopracciglio, una gobba medievale, il naso senza cartilagine, con i buchi esposti. Strangolati sul collo dalle cinghie troppo strette, i piedi dell’uomo avrebbero dovuto calzare un numero in più: in punta e in tacco, la dimensione era fuori misura. Seduta sui talloni, Mircea prova a non fare rumore e ad addomesticare ancora di più gli stimoli. Si era bilanciata bene e non doveva né spingere troppo sulla schiena né far sporgere petto e spalle. La posizione in cui è le allarga le carni delle anche e le arrotonda la pancia. I glutei, per l’ampiezza tra le ginocchia, necessaria a che non si bagni, le si sono separati. Lì dov’è tenerina di muscoli e adipe, ma anche più ossuta, prende un’aria inedita, a cui ha risposto orripilando e facendo emergere in pallini tondi i peli corti corti. Come dal bordo di un bancone, le pendono da lì intorno due testine di polpi, piatte, e tremano se Mircea si muove. Ai fatti della O. ne aveva viste di più grosse e di più ripugnanti. Distoglieva sempre lo sguardo al loro aderire, al loro sgocciolare, al loro abbrancare. A smisurare le forme di quei piedi sono le spaccature tra i calli ocra nei calcagni, aperti in più punti, e le lunghe unghie micotiche e bronzee, da ciclope selvaggio. Le crepe, nelle parti posteriori, ne avevano aperte le basi e nuova materia, estranea, entrava nel corpo, fondendosi con esso. Le labbra che s’erano create erano bordate di nero, come le bocche delle bestie che mangiano le carcasse e il sangue vecchio. I ciottoli di ghiaia che erano attorno alle punte smottavano di continuo. Avrebbe lasciato l’orma fossile di un dinosauro se tramutandosi e andando ancora oltre natura si fosse slanciato contro il topo uscito dalla tana per propagare la specie. Quello in cui vive l’uomo è lo strano che non si capisce perché si faccia vedere, che non ha rimorsi sul fatto di esserci. Mircea non abita quel mondo, ma il suo sapersi sconfitta glielo fa riconoscere. Pur brutta, Mircea aveva sempre pensato e perciò sempre fatto cose belle. Da lei prendevano origine, in opera e pensiero, senza avere nulla di spirituale né di elevato, e avevano un’esistenza del tutto pratica, tangibile. Erano belle non perché vincessero il filtro dei gusti universali, ma perché erano frutto solo suo. La bruttezza compie la precisione in altro modo. Derubando i suoi uomini e le sue donne delle libertà, delle sfrontatezze e dell’agio che sregolano quanti ne sono esenti, la bruttezza li segrega in se stessi; i brutti, le brutte, prima di dire la loro parola, o toccare la mano, o guardare, ma soprattutto dire la parola, la cui negazione è la pena che si infligge ai nemici della fede (o c’è il verbo e c’è quello o non c’è null’altro) e difficilmente a qualche altro tipo di cattivo, prima di muoversi nello spazio e fermare il momento, valutano in se stessi se tutto ciò non li esponga, non li denudi, non renda ancora più facile l’emergere del solito motto: sei brutto, sei brutta – e quindi, non ti si crederà, non ti si vorrà, non ti si sentirà nemmeno. Lo dicono le vecchie: tre pettini e una forbice, non tre forbici e un pettine. Mircea e il bello si appartengono perché la bruttezza li ha sempre separati, e lei lo compie e lo pensa perché non ha mai potuto agire e pensare tanto per, tanto per sport: non sente proprio il permesso di sprecare le occasioni. Il suo licenziamento è coinciso con questo: i pettini s’erano rotti, era il momento di tagliare; aveva troppo bello serbato come le noci tra le guance gli scoiattoli, i cuccioli tra le fauci certi rettili grossi, la brama tra le cosce gli impotenti e le frigide. La direzione delle scene per la stupida di Livorno non era stata espressione di foia o calore, di triangolazione in cui io che non posso sono in te che fai, ma solo la cosa più bella che si potesse fare, astraendo un momento preciso dal tempo banale degli altri. Mircea aveva creduto molto in quello che aveva fatto perché molte volte si era frenata, osservando come i mister si limitassero a sborrare in faccia alle urì, impazzendo per non perdere la durezza, o a prenderlo in culo dai ghulam, impazzendo perché forse era davvero quello il loro piacere; notando come le miss non ripetessero altro che le mosse stanche fatte a casa, con i mariti o le fidanzate, lasciando ai modelli e alle modelle il tempo di pensare ai fatti loro. Non mano né piede, dito, buco, piega, carne, sputo, fluido o lacrima involontaria, stillata per intrusione o penetrazione, Misery volle che si perdesse nella fretta o si disperdesse e indugiasse quando e lì dove erano più inutili. La sua presenza nel video lo fallava: si sarebbe potuto dire che la scema livornese fosse stata manipolata; il servizio principale offerto da O., la possibilità del ricatto, veniva meno. Poco dopo essersi alzata, ridistribuendo carni e ossa nelle forme originarie, pronta a impedire che brutto si assommasse a brutto, e fuori dalla pertinenza di qualsiasi rivoluzione del gusto, Mircea riceve un messaggio da Donaldo e lo legge. Subito diventa contenta e si scorda di tutto, come una malata di mente o una bambina. Quando spacca il debole muro verde dietro cui pensava di trovare conforto, spezzando i ramoscelli freschi e piegando quelli vecchi, taglia la strada a quei due, che ora smettono di essere i loro piedi. Fa ondeggiare i pugni lungo i fianchi, per darsi velocità e ritmo. 

«stai attenta, cosa! Facevi male alla mia amica… vieni, vieni, qui è troppo brutto… qua ci fanno male. Ti regalo l’orecchino più bello che ho, ha una perla grossa».

«ma mamma?». 

«la mamma ha detto ok, dice fai presto, lo ha detto a me di dirlo a te».

Mircea vede Donaldo da lontano, appoggiato al basamento dell’Artemide all’ingresso. Al lato opposto era alta nell’aria una cerva rampante, tutta cacata su capo e zampe dai piccioni e da altri uccelli. Lungo il breve tragitto (voltatasi avrebbe scorto l’area attrezzata, forse quei due) la sua mente si è spostata varie volte: si ricollocava e smaniava, non trovando posa; scoliotica, l’ha infine raggiunta e in cambio ne è stata afflitta. Donaldo allarga le braccia e le sorride. 

«Lady, no hay nada, lo siento mucho, pero es verdad, tu lo sabes».

Mircea cade, con le ginocchia sui ciottoli e le piccole spazzature, le fogliacce; da fuori, sembra che abbia delle brevi convulsioni o che un nylon teso le abbia tagliato i legamenti. Il giorno dopo vedrà i lividi (era comune tra le urì, non si riusciva a trovare soluzione). Mena in alto un urlo terribile, fissando Donaldo negli occhi. Con lo sguardo gli è entrato nei nervi, nei midolli, nelle arterie, gli ha percorso tutto lo scheletro. Come se dentro avesse un parassita al comando, il ragazzo si ritrae muovendo solo le gambe, col torso immobile; esce dal parco e per poco non viene investito da un’auto, anch’essa di fretta. «oohcosooguaaaardaavantiiiiii». Sola, sotto il marmo sporco e gli uccelli più grossi che iniziano a gracchiare, Mircea si calma. Mentre tiene la gola distesa, levata in su, col mento a puntare lì dove non era né sole né luna, ma solo un violetto indistinto, mugola fino al silenzio. Si bagna tutta, di nuovo schiava di sé stessa. Dice un lungo aaaahhhh, che proviene dalla carne nascosta, da quella che contiene i succhi e gli acidi. Da dietro le spalle le arriva una sgrazia doppiata da altre simili, ma meno accorate, nel tono e nell’intensità: مامون کہاں ہو؟  ابھی ادھرآو! 

editing di Alessandro Tesetti.

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