Cacocciola

un racconto di Giorgia Distefano,
editing di Alessandro Tesetti.

All’asilo nessuno mi guardava. Capitava che se stavo seduta sul freddo e ruvido pavimento dalle fughe lerce, gli altri bambini mi pestassero le dita sotto le scarpe, ed io non dicessi nulla.
Ero pressoché muta, trasparente.

C’era un bambino, il più alto di tutti, Toni.

Siccome aveva i capelli ricci, lui era Toni Cacocciola. Diventava chiaramente roba tipo, cacone, cacato, e tutto il resto. I bambini sanno essere gelidamente crudeli, psicopatici antisociali, bastardi luridi ed infami. Ma Toni Cacocciola li riempiva tutti di botte. 

In fondo, anche lui era un bambino.

Qui, se non ti cacci nei problemi, nessuno te ne dà.  Ti tempravano alla vita vera. Una volta mi hanno messa in castigo perché avevo spinto contro il muro una bambina che non voleva uscire dal cerchio satanico del Passa-Paperino, e si era messa a frignare.

Mentre ero vicino la cattedra, sulla sedia della maestra vi era seduta una bimbetta minuscola e sottile come uno scarafaggio. Aveva un paio di occhi marroni degni del peggiore ipertiroidismo ed i denti tutti separati tra loro nel ponte molle delle gengive rosa. Il suo zaino lilla era poggiato davanti a lei. Non ricordo perché avevo deciso di farlo, ma avevo sfiorato con un ditino una bretella del suo zaino. Lei reagiva col verso di un cane rabbioso, spingendosi verso di me in uno spasmo, per mordermi. Si dimenava come una bestia incatenata. Soltanto quando mi ero allontanata, lei era tornata tranquilla.

Toni Cacocciola, pochi attimi dopo, si era visto accerchiato da tutti gli altri bambini. Ce ne volevano due impilati per fare la sua altezza, così la scena risultava esilarante. Urlavano in coro “fimminedda”. Lo ripetevano fino alla nausea, spingendolo contro un angolo della stanza dai muri scorticati, finché non era arrivato a scontrarsi contro un cartellone. Un grosso foglio bianco, rigido, ricoperto di impronte di mani minuscole in tempere variopinte. Toni era rosso in volto, e piangeva con quella voce nasale così bizzarra. Era assurdo vedere Toni Cacocciola piangere, con le mani appiccicate in faccia, squassandosi tutto, la bocca bavosa aperta. 

Lo capii dopo molto tempo, che essere una donna era effettivamente qualcosa per cui aveva senso piangere.

Alla scuola elementare, Toni e io eravamo ancora in classe insieme, continuavamo a non parlarci, anche perché, oltre le differenze socioeconomiche, non ci capivamo molto bene. Mia madre mi sgridava se parlavo in siciliano, così non lo facevo mai, e assunsi uno strano accento ambiguo e indefinito, di cui mi liberai soltanto da adolescente.

Cacocciola era figlio di un meccanico, che lavorava in un garage angusto, gentile con le signore e sospettoso degli uomini troppo sicuri di sé. Preferiva quelli gracili, che sospiravano e gli rivolgevano un’alzata di spalle, tirando fuori il portafogli. A volte non li faceva neanche pagare, tanta era la bontà che gli suscitavano.

Un giorno, avevo incrociato Toni Cacocciola mentre andavo a casa di mia nonna, non potevo avere più di otto anni. Era seduto sull’asfalto, davanti la corrosa saracinesca chiusa dove lavorava suo padre. «Ciao Antonio,» gli dissi. Lui alzò il mento nella mia direzione, mugugnando. Si stava rigirando qualcosa tra le mani. Accanto alla sua coscia rachitica aveva un coltellino dal manico di legno, sporco. Mi fermai ad osservarlo, gli spazi tra le dita del suo pugno socchiuso davano scorci di quella che sembrava una spugnetta grigia, o una pezza consumata avvoltolata in se stessa. 

«A voi vidiri ‘na cosa?»

Era serissimo, gli occhi socchiusi, le labbra aperte su un incisivo mancante. Mentre mi avvicinavo la punta della mia scarpa toccava il suo ginocchio, e lui aveva disteso il palmo con una tensione palpabile nell’aria. Con la testa alzata, attendeva una mia risposta. Analizzava il mio volto, tentava di prevedere la mia prossima espressione.

Era un topo, piccolissimo, morto. Toni gli aveva tagliato con una linea stortissima il torace, e le sue minuscole budella sembravano coriandoli rossi, sfilacci di carta riversati sulla sua mano macchiata di sangue. La coda arrotolata come un verme, rosa, nuda.

Non riuscivo a dire nulla.

«Me nannu ‘e vigni ciavi i jaddini,» mi raccontava, nasale ed acuto. Metteva via il topo vivisezionato, iniziando a pulire il coltellino sulla sua maglietta celeste, che si macchiava di un alone bruno. Tirava su col naso spesso, si passava il braccio sotto le narici prima di ricominciare a parlare.

«Ajeri, ni ‘mazzau una, e ci scippau i peri!»

Lo aveva esclamato preso di eccitazione, allontanando da sé quel rudimentale bisturi scheggiato. Figuravo suo nonno, con la canotta bianca, che mostrava fiero a suo nipote di otto anni le zampe sanguinose di una grassa gallina.

«Intra u peri i jaddini anu na speci i cosa, attipu n’filu. Me nannu u tirau, e chiddu fici accussì…» mi mostrava il suo infantile palmo macchiato di rosa, ripiegando le dita. 

Sostanzialmente, tirando un nervo all’interno della zampa della gallina, le sue quattro diramazioni si chiudevano esattamente come Cacocciola emulava con la sua mano e le sue dita. Quelle zampette come carote deformi, muoversi isolate, potevo immaginarle.

Ormai ero via da qualche anno, abitavo in città, quando ricordai di Toni. Fu per via di un gatto investito sul ciglio della strada. Era rimasto un mero disegno dell’animale, una forma netta ed affilata, circondata di foglie umide e sporche. Dei piccolissimi vermi bianchi si contorcevano sul profilo dissolto della carcassa. Mi diede molto più disgusto di quel topolino quando avevo otto anni. Avevamo una capacità rara di dissimularci dalla crudeltà, la violenza non ci trovava, riuscivamo soltanto ad evitarla o a possederla. Era la sensazione di vuoto al volto dopo un pugno al naso, le croste colorate di rame, il sapore di plasma e metallo.

Cercai Toni su internet, ci provai sul serio a ritrovarlo, ma non c’era verso di capire dove fosse finito, cosa stesse facendo, se fosse vivo. Altri bambini – nei miei ricordi rimasti tali, erano morti: incidenti sulle moto, overdose. Fu aberrante immaginare il paffutissimo Nello, biondo e con gli occhi azzurri, tale quale un putto, con una siringa sporca appizzata all’interno gomito. Non c’erano notizie di Toni, quindi immaginai fosse in vita, ma che lavorasse in nero, o magari nel crimine, anche se di solito, i criminali non si facevano problemi a dar mostra della loro ricchezza.

Ero appena stata mollata da Ismaele, quando tornai in paese.

Mangiai piatti enormi di pasta all’uovo, vaschette piene di bollito di cavallo col limone spremuto sopra, fegato di bovino color cenere. Aumentai il mio peso chili su chili, non mi stavano più i pantaloni, non mi importava più di nulla.

Indossai una gonna morbida, con sotto un body contenitivo a maniche lunghe. Era vergognoso.

Mentre scendevo per la strada cercando di raggiungere casa dei miei nonni, dove sarei andata a strafogarmi di dolci fritti, incrociai una figura slanciata, alta almeno un metro e novanta. Una cascata di ricci definiti e lucidi, lunghissimi, colava su una schiena magra e spigolosa, coperta da un vestito leggero dalla fantasia floreale. Dei fianchi rigidi, delle cosce larghe e con muscoli molto definiti, terminavano in polpacci smussati e caviglie ossute. Delle bellissime scarpette lucide dal tacco sottile.

Dovevo avere un’espressione molto stupida, perché quando si voltò, quella donna meravigliosa si guardò intorno, ed io annaspai, scusandomi, complimentandomi in tentativi imbarazzanti. Mi cascò la faccia. Lei sorrise.

«Non ti ricordi più di me!» mi disse. 

Fu Toni, Cecilia.

Mi baciava le guance, con quelle labbra perlate tinte di corallo. La punta del suo naso lungo e dritto brillava con un cerchio di polvere glitterata, i suoi occhi allungati dalla matita marrone. Così tanto buon gusto, eleganza. E io mi sentivo vomitevole.

Il giorno dopo, davanti ad una tazzina di caffè, mi chiese di parlarle di Ismaele. Le raccontai tutto, forse non avrei dovuto farlo, ma avevo bisogno di un’amica, e lei sembrava così perfetta, volevo così tanto che mi volesse bene e che mi abbracciasse.

Le dissi che Ismaele faceva un cammino neocatecumenale, che io ero restia a questo genere di cose, ma lo seguivo, a scopo antropologico, mi dicevo. Non facevo nulla, osservavo soltanto le pratiche e le messe.

Gli piaceva la ragazza bionda che preparava le ostie, lo pensavo molto spesso. Non mi feriva, poiché non provavo particolare affetto per lui. Ero sicura di provare più stima ed ammirazione per la ragazza bionda, coi suoi fianchi tondi e la mascella morbida.

Semplicemente era difficile per me non essere esclusiva, non occupare il suo cervello per tutto il tempo che mi era possibile. Solitamente io funzionavo come uno spettro per questi uomini. Non si potevano liberare di me, io non dovevo pensare a nulla. 

Ma per Ismaele c’era Dio sopra tutto, prima di ogni cosa, il suo amore era salvezza, e la salvezza probabilmente non l’avrebbe ricevuta se io fossi rimasta con lui. Sapevo che si stava allontanando, sognai la statua di Cristo che me lo diceva, io non ero umana: mi avrebbe lasciata annegare fuori dall’Arca, ostacolavo il rinnovo di un mondo sano. Mi disse che se fossi rimasta, il mondo sarebbe diventato un cubo triangolare. Non ero possibile neanche come potenzialità, c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in me, tutti i melograni che aprivo erano marci, gli animali che incontravo morti, gli angeli vomitavano alla mia vista.

Appena sveglia, pomeriggio inoltrato, meteo grigio e polveroso, decisi di ferirmi i palmi ed i dorsi delle mani con dei timbri bollenti. La pelle non era come la cera, non si distingueva la stampa ondulata del sigillo, semplicemente cuoceva come la carne di un animale qualsiasi. Una vacca. Un agnello. Un sorcio.

Chiamai Ismaele e gli chiesi di venire a casa mia, era urgentissimo. Cercai di convincerlo che mi erano spuntate le stigmate, che dovevo essere sicuramente stata scelta da Dio per un suo glorioso progetto. Gli sorrisi, scuotendolo per le spalle. 

Mi minacciò di richiedere un TSO e se ne andò.

Cecilia scosse la testa. «Oh, amore» gemette. «Sei una povera creatura scordata da Dio».

tutte le fotografie di Gaia Credentino.

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