un racconto di Emanuele Di Carlo,
editing di Alessandro Tesetti.
San Lorenzo Rubicone, San Lorenzo ingiusto, San Lorenzo arrosticino, San Lorenzo bar dei Brutti o bar dei Belli, San Lorenzo piazze e piazzette, San Lorenzo false rotonde, San Lorenzo occupata, San Lorenzo basilica, San Lorenzo pizza e pizzette, San Lorenzo sugo della nonna, San Lorenzo bagarre, San Lorenzo in salita ma anche in discesa, San Lorenzo universitaria, San Lorenzo precaria, San Lorenzo guerriglia, San Lorenzo abusiva, San Lorenzo super Santos, San Lorenzo papalina, San Lorenzo con gli occhiali da sole, San Lorenzo solitaria, San Lorenzo radicale, San Lorenzo radical, San Lorenzo camorrista, San Lorenzo pisciatoio, San Lorenzo farmakos, San Lorenzo oppio dei popoli, San Lorenzo per il sociale, San Lorenzo benedetta, San Lorenzo libro, San Lorenzo sangue, San Lorenzo chiusa, San Lorenzo autoblindo, San Lorenzo gatta da pelare, San Lorenzo panino, San Lorenzo mura, San Lorenzo P.C.I., San Lorenzo dei Reti, dei Latini, dei Volsci, dei Marrucini, dei Campani, dei Sanniti, degli Etruschi, delle buone forchette, degli antichi romani, dei chitarristi, degli imperatori, dei cavatappi, dei fuorisede, degli attori non più famosi, degli occhi miei, degli occhi di chi attraversa l’unico fiume rimasto a Roma, l’unico mondo che sembra non esistere più. E invece esiste.
Paolo attraversa via dei Reti in silenzio con in testa il sogno che un giorno avrebbe visto sorgere un parco sulla “sopraelefante”: il tratto di Tangenziale che squarcia via dello Scalo con precisione e violenza. Paolo ritiene che quel mostro ecologico, silenziato dai pannelli antirumore, esiste perché ce lo siamo inventati noi. Anni di strade sbagliate che conducevano nei posti giusti, di piazze che in realtà sono incroci, in nome di una socialità che cinquant’anni fa c’era, dicono i più nostalgici. Esiste un’urbanistica sostenibile? si chiede Paolo insistentemente. E soprattutto, si chiede Paolo, è così fondamentale girarsi quest’ultima canna, l’ultima della serata, quella che ha la consistenza del graffio di un gatto su un polpastrello? È così fondamentale scordarla per sempre, come se non fosse mai esistita e pensare che una canna, una semplicissima j, possa aiutarlo a dimenticare? Il giovane studente di architettura si rifugia in una delle vie adiacenti mentre con la sillaba RIZ gira un dolce filtro a esse. È solo con il suo fumo e un murales di Dans la rue alle spalle; lei, però, non c’è, è a casa.
La luna, intanto, fissa Paolo con un paio di occhioni apprensivi, gli dice che sono le tre di notte e che tutto sarebbe dovuto andare bene, sarebbe dovuto andare bene, sarebbe dovuto andare bene.
Caterina apprezza il senso della vita nello stare da soli osservando le officine Atac, un dormitorio per tram che si affaccia sulla Prenestina come un vecchio Motel sulla Route 66. Caterina continua ad apprezzare questo benedetto senso della vita, però intanto lacrima come una dannata perché la vita e l’amore ti lacerano dentro senza lo scrupolo di capire chi sei, come stai. Di sottofondo Steve Carrell ride in una puntata di The Office e la luce dell’Asus illumina la camera. Caterina, imperterrita, continua a osservare e lacrimare, nella speranza che almeno uno di quei merdosi tram le chieda come va. Dico un trenino Thomas tra i tanti che si distingua per tatto, sincerità e una spiccata dose di quella romanità che ricorda Sordi nei suoi film migliori. Eppure, Caterina non riceve risposta se non dalla voce di Steve Carrell e dall’urlo costante di un tipo sulla Prenestina. Assolutamente sola nel viversi un amore giunto al capolinea la ragazza non capisce, non riesce proprio a capire: “Arrivai qui da Olevano romano nella speranza di trovare la vita: la trovai. Arrivai qui da un luogo scordato da non so quale dio laziale alla ricerca della scossa che mi avrebbe cambiato la vita: non si può dire che l’abbia effettivamente trovata. Arrivai qui perché credevo che Roma significasse casa, perché la Metro B sembra la cantina di un palazzo, il Verano sembra un androne, Garbatella la casa al mare e i tram vecchi mi ricordano i corridoi, i salotti delle case che cercano di rifilarti al maggior prezzo. Tutti luoghi che significano casa, tram che significano amore: lo trovai?”
«Ti spiego…» la mano davanti come a chiarire ogni dubbio e una sicurezza che fuoriesce dagli occhi neri, ma neri come la pece, come l’inverno, di Lucia, «ti spiego… un governo del genere rappresenta il governo ideologicamente e intrinsecamente più legato al vecchio secolo, ma veramente, veramente non te lo dico in nome dell’antifascismo, per quanto spero, mi auguro che qui siamo tuttǝ compagnǝ, no no, eheheheh me sa de no, no comunque non te lo dico in nome di questo, te lo dico per il semplice fatto che se tu consideri il legame genealogico che collega l’attuale Fratelli d’Italia con l’antecedente Alleanza Nazionale con il bisnonno e rincoglionito neofascista Movimento Sociale Italiano, ti accorgerai che quello che è il governo della ROTTURA, degli ANTISISTEMA, quello che è il governo che vuole ROMPERE CON LA TRADIZIONE, in realtà è parte integrante di quella tradizione anzi è il partito più vicino a quella merda di tradizione che ci portiamo a presso da ottant’anni come cammelli con la gobba.»
«Dromedari vorresti dire…» la corregge il suo simpatico interlocutore di cui non ricordo il nome, essere alquanto viscido ricoperto da una camicia di puro lino.
Lucia scrolla il capo mandando giù un sorso di Campari infuocato, «Come scusa?» domanda lei.
«I dromedari hanno una gobba sola, i cammelli due…» risponde lui.
Lucia lo osserva bene con quegli occhi neri che a volte la spaventano anche quando si guarda allo specchio: una tavolata immensa si allunga al Bar dei Brutti ospitando una congrega di casi umani appartenenti tutti alla stessa Facoltà. Per la prima volta Lucia ha paura di far parte di essi. «Vado a pisciare!» dice ubriaca e sprezzante, e lo dice forse ai suoi occhi neri, allo specchio, al vento di ottobre, al campanile e a qualche stella che si intravede tra i lampioni, ma sicuramente non lo dice al “tipo-dromedario con la camicetta di puro lino” no, con lui non ha mai più parlato.
È molto strano morire perché un tipo ti ha tagliato la giugulare con un paio di forbici da sarta.
Questa cosa la può pensare soltanto qualcuno a cui questo è successo, difatti Mattia, insegnante di ginnastica a tempo indeterminato, è rimasto molto sorpreso della sua morte. Lui San Lorenzo non la frequenta, frequentava, ma quella sera di ottobre quattro suoi amici gli avevano proposto di andare a un locale sulle mura. Birrette, studentesse, Manuel ha pure portato una tale polvere bianca, una cosa sopraffina, una cosa del sabato sera dice. Però Mattia già lo sa, a lui San Lorenzo non convince, convinceva, proprio: anche se con una buona compagnia, anche se bisognoso di rimorchiare o semplicemente di fare nuove conoscenze, comunque Mattia sa dal giorno in cui suo padre nel lontano 2014 gli disse «Tossici e drogati che cazzo ce vai a fa?», Mattia sa, sapeva, che uscire a San Lorenzo non è una buona idea. Al tempo stesso, però, Cristo si è per caso fermato pur sapendo di finire dritto sulla croce? Non mi pare, perciò Mattia aveva deciso di viversi questo sabato sera tiburtino, lasciandosi crogiolare da una serie di banalissimi errori che lo portarono alla morte. Alle 3:00 Mattia era ubriaco; Alle 3:15 si era diretto a pisciare in un punto nascosto, attaccato alle mura; alle 3:20 un tipo gli aveva chiesto una sigaretta, Mattia non fuma e gli dice di no; «Stronzo di merda figlio di puttana» gli dice il tipo alle 3:21, sbiascicando tutto quello che si era bevuto e calato in una giornata, dolori e pensieri annessi. Mattia reagisce con un «Aho ma che cazzo…» doveva finire con un “vuoi” ma quel “vuoi” uscì strozzato o, meglio, sotto forma di globuli rossi schizzati dal collo. Un taglio netto e preciso fatto con un paio di forbici da seta. Alle 3:22 Mattia morì lasciando senza prof. le classi della sezione B del liceo Albertelli, il lunedì ha pure la prima ora, aveva.
La spensieratezza secondo Teresa è l’ultima a morire. La serata comincia alle nove e mezza in un appartamento a piazza dei Sanniti. Lì presenti ci sono: Vic, Stefania, Paolo aka “Paolino”, Ileana di Lettere Musica e Spettacolo, Gianni Lebowsky e un altro paio di persone che hanno scelto di restare nell’anonimato. Teresa si raccoglie i capelli in un soffice chignon e poggia entrambe le braccia sul tavolo, lasciando intravedere l’ombelico e un tatuaggio a forma di tucano. Qual è il piano della serata? Bar dei Brutti oppure Celestino ma giusto per bere qualcosa, a seguire prendere il 542 e finire giù per il tubo dritti dritti al Forte Prenestino, serata di musica tekno a cinque euro, a finire cornetto o lingua di pizza dallo zozzone a Centocelle. Ma sinceramente Teresa ha dei doppi fini? Perché è così galvanizzata dall’idea di questo sabato sera che sembra già finito, che cosa si aspetta? No, secondo me, non è l’amore a portarsi via Teresa, se si può chiamare così quel sentimento alla pancia che prova quando guarda Ileana, no direi di no, non è l’amore. Non è neanche l’adrenalina, le droghe o quant’altro, sì dai che le sue cose se le sarà calate, ma Teresa no, non cerca il fascino inebriante di droghe leggere e non. Allora cosa sarà? L’amicizia è un sentimento quotidiano se lo si vuole vivere in maniera energizzante, il tempo libero è un concetto che nell’epoca dell’eterno presente non mi suona molto. Interrogativi tanti e risposte poche nel quotidiano di Teresa. La ragazza ha, però, un poster appeso nella sua stanza al secondo piano di una palazzina di piazza dei Sanniti: Bal au moulin de la Galette di Renoir, comprato a Parigi nell’agosto del 2018. La “giuà de vivre” direi allora per rispondere alle domande di prima. “La giuà de vivre?” chiede Teresa al buon Gianni Lebowsky mentre osserva malinconica via Lanciani diventare via dei Monti Tiburtini.
Verso l’una di notte a piazza dell’Immacolata arriva la musica.
Piccole casse che rimbalzano tra i piedi della gente in risposta a quelle che un tempo erano le normative Covid adesso diventate ordine pubblico, ma che comunque scorrono in quel grande Rio Bravo che è la MALAMOVIDA. Sembra quasi essere il nome di un’organizzazione terroristica e forse potrebbe anche esserlo, eppure no, i nostri terroristi sono cineasti indipendenti, musicisti senza chitarra (o magari anche con la chitarra ma senza l’ossessione per i riff del cantautorato), acrobati con la bomboletta, santi predicatori con la bandana rossa e i pantaloni con i tasconi. Direi che Cosimo si può situare tra i cineasti indipendenti e i musicisti senza chitarra, con una tendenza verso il vagabondaggio e una certa avversione nei confronti della doccia. «Rovina i capelli», le dice continuamente la madre mandandogli sciampi fatti interamente di fiori e profumi della campagna viterbese. Cosimo però se ne fotte anche degli sciampi bio e non si lava proprio, o comunque lo fa saltuariamente. Ma ciò che interessa è che Cosimo è proprio uno di quelli della cassa, uno di quelli che arriva e che dà inizio alla festa, l’imperatore a vita della San Lorenzo liberata. Questo vale per migliaia di persone, tutti riconoscono quella nuvola di ricci e quella pelle scura dura come la sequoia. Eppure, per qualcuno Cosimo è solo un ragazzino sporco e puzzolente, un ragazzino che forse avrebbe bisogno di un po’ di educazione anzi che mo’ ti faccio vedere io come si sta al mondo, solo una zecca di merda, trasversale nelle epoche agli occhi di chi prova onore nell’essere considerato l’avversario. Per l’appuntato dei carabinieri Nello Rosato, quarantacinque anni di età e un matrimonio alle spalle, Cosimo è una valvola di sfogo: allora la cassa finisce sul sedile posteriore di una Punto nera targata caramba e una torcia finisce dritta sugli incisivi di Cosimo. Il nervo gli pulsa come un toro colpito dal torero, il sangue fiocca dalla gengiva: «Sporco Sfio!» urla Cosimo senza farsi sentire.
Emilia si accorge di fronte a una frittura di fiori di zucca e alici della pizzeria Formula Uno che la sua memoria è costruita come i palazzi di San Lorenzo. Vorrebbe dirlo anche ai suoi due amici Leo e Bruno, però se lo tiene per sé ingoiando giù il pensiero con un sorso di Peroni. Camminando tra i resti di un’antica civiltà contemporanea, Emilia, però, non potrà fare a meno di pensare al fatto che le sue strutture cerebrali, le sue sinapsi, acquistano forme e connessioni della San Lorenzo di oggi. Un cervello che funziona come un piano urbanistico. Allora la sua testa vede confrontarsi gli immensi palazzi dell’edilizia popolare con le antiche botteghe ormai abbandonate oppure trasformatesi in locali di lusso. Le strade della sua mente si compongono di sampietrini sporchi, le scritte sui muri rappresentano i ricordi più indissolubilmente belli, raccapriccianti, miracolosamente illesi da quell’azione folle che si chiama riverniciatura. La chiesa è sempre al centro del villaggio, ma alle spalle il richiamo della lugubre basilica di San Lorenzo con dietro il teatro del Verano. Le montagne che, nelle giornate in cui il cielo è cristallino, si vedono da via dei Volsci e via dei Sabelli, rendono San Lorenzo a suo modo una piccola Santiago del Cile coi suoi Allende, i suoi Pinochet ed il suo pueblounidojamasseravencido. I luoghi del sapere, della cura e della morte a due passi l’uno dall’altro, collegati dal flebile filo di un tram o dall’incostante 88. Ma quello che resterà nella mente di Emilia, quando i giorni passeranno e quei capelli biondo sfuso inizieranno a imbianchirsi alle porte dei quaranta, quello che resterà nella sua forma mentis, saranno solo i palazzi sventrati dalle bombe del 19 luglio ’43, che la notte, ogni notte, dal lunedì alla domenica, diventano ancora più profondi. Ciò che resterà sarà il ricordo mai visto di un cielo che cadeva diventando fuoco, i segni indelebili di una morte strana, di una giornata particolare, di un terrore quotidiano curato a botte di memoria. «Eredi di nessuno ma figli della stessa guerra», dirà Emilia sorvolando le Alpi in direzione Berlino, Copenaghen o Parigi?
Sono le sei di mattina e Gianni Lebowsky sta seduto alla sua scrivania, sembra un setter fradicio sotto la pioggia, i capelli lunghi e ricci che gli strisciano sulla fronte, la barba arricciata come le domande inconsuete nelle serate a tu per tu. Gianni effettivamente di acqua ne ha presa a secchiate, era uscito dal Forte al volo, tempo di un abbraccio a Teresa e un arrivederci all’allegra combriccola rimasta, poi PATAPUM, una pioggia monsonica l’aveva investito come se fosse una verde collina vietnamita. Ora si trova a casa, lo sguardo su un racconto incompleto, la scimmia che gli passa una canna dopo essersene stuccata metà. Poteva scrivere di quel lento rigagnolo che collega le vite di tutti quanti, poteva raccontare di come il riflesso degli altri gli aveva permesso di ritrovarsi, ma avrebbe mentito, innanzitutto a sé stesso e poi anche alla scimmia. Quelle vite non si collegano in alcun modo tra loro, non riescono ad incontrarsi, sono proprio loro quelle fottutissime rette parallele che non si incontrano mai, mai! Ognuno perso nel suo perdersi, “Almeno ci si perdesse tutti insieme” vorrebbe scrivere Gianni ma non ha la forza, o forse non ha proprio voglia. E allora rilegge il racconto e intanto la scimmia, precisamente un Popa langur, continua a stuccarsi quell’ultima canna. Anche lei rilegge il racconto e intanto sbuffa, sbuffa, paf…paf…
«Che dire, non è rimasto niente da dire…» osserva Popa passando la j a Gianni.
«Tu dici?»
«Un miliardo di gocce non fanno un fiume».
tutte le fotografie di Giulio Tosetto.