un racconto di Chiara Dario,
editing di Alessandro Tesetti.
Abbasso gli occhi e la vedo.
No.
Non è vero, no.
Porco cane no.
Mi schiarisco la voce, mi raddrizzo sulla sedia e la copro con la mano. Ma come fare, poi mi devo alzare e la vedranno tutti. Soprattutto lui.
Che schifoso, che testa di cazzo.
Ho una macchia di unto, tutta tonda, due centimetri per due, sulla camicia bianca. Non ci dovevo andare a mangiare. Io lo so che se mangio con i vestiti bianchi qualcosa va storto. Io, se non mi smerdo prima di un momento importante, non sono contento. Come quella volta al battesimo di mio fratello che volevo a tutti i costi mettermi la camicia prima di fare colazione e mia madre mi ha detto che mi sarei sporcato, e io ho detto che no, non mi sarei sporcato. Mi sono vestito e mi sono seduto col busto schiacciato contro il tavolo, la testa in avanti, attento a non sgocciolare. Ma ho sgocciolato. Ti distrai un attimo e sgoccioli, poi dopo non va più via. Ho cercato di nascondere la macchia di latte e cacao ma la mamma ovviamente se n’è accorta. Si è incazzata così tanto che mi ha preso per i capelli e mi ha infilato tutta la faccia nella scodella di latte dicendo «Schifoso».
Vado all’ultimo esame di riparazione della mia vita con la maglia unta come uno schifoso porco. Sollevo la mano e sbircio.
Porco cane.
Vabbè, ma ci sarà qualcosa che posso fare.
Mi alzo, vado verso il bagno in fondo al corridoio, apro l’acqua e bagno un fazzoletto. Ecco, così: gratto bene per farla sbiadire. La macchia bagnata si allarga, diventa più scura, si mangia altri due centimetri di camicia. Lo so che non va via, mia mamma me lo ha detto mille volte: non si lavano con l’acqua le macchie di unto, non si devono toccare. E io sempre a toccarla e a crederci che andrà via. Esco dal bagno con una patacca umida, quattro centimetri per quattro centimetri. Per terra c’è uno zaino con la bocca spalancata e i denti della cerniera piantati sul pavimento. È accasciato lì da solo, senza nessuno, tutto vuoto, come il barbone qua sotto che chiede l’elemosina sulla porta di ingresso della scuola. È lì per terra. Solo che io non lo vedo. E neanche il barbone tendenzialmente, perché ci sono abituato. Non vedo lo zaino e quindi inciampo, e sbatto il ginocchio sullo spigolo del mobile. Gli tiro un calcio.
Mobile di merda, schifoso.
Io quando mi faccio male sul mobilio mi incazzo. Non so perché, ma mi fa incazzare che stia in mezzo e mi vien proprio da scassarlo di pugni. E lui non si ribella mai. Quando da bambino mi facevo male sul mobiletto della cucina, lo massacravo. Gli dicevo «Schifoso schifoso schifoso», e lo prendevo a calci. So che è un comportamento da deficienti, ma i miei non mi dicevano nulla e io pensavo che fosse normale prendersela con un armadio. Ora, a dirla tutta, lo capisco da solo che c’è qualcosa di strano nella mia smania di menare gli armadi, ma comunque mi incazzo ancora. E forse ora so anche perché.
Mi siedo al mio posto. Metto i libri contro il petto per coprire la camicia. Non è neanche bella, mi sta larga sulle spalle e sembro ancora più magro e cesso del solito. È larga. Orrenda. E andrò a fare il mio ultimo esame con una tovaglia sporca addosso.
La porta si apre.
Il professore chiama «Di Giorgio?» nessuno si alza, nessuno fa cenni.
Il professore allora chiama ancora «De Marchi?» e De Marchi si alza.
Entrano in aula.
La porta si chiude.
Ci scommetto che Di Giorgio è il bastardo che ha lasciato in giro lo zaino e se n’è andato. Schifoso. Mi giro a guardare la sedia vuota, lo zaino abbandonato sotto di lei. Mi fa incazzare quella sedia vuota. Lì, tranquilla, con il suo schienale di legno e le sue gambe metalliche. Lì tranquilla, oggi, ieri e domani. E io qui, a sudare come un cane perché tra mezz’ora ho un esame e devo superarlo, perché se mi segano anche quest’anno mi tocca mollare la scuola. E lei no, invece. Quella schifosa di una sedia non ne deve fare di esami, se ne sta tranquilla e nessuno se la prende con lei se si macchia lo schienale o fa inciampare qualcuno. Nessuno a parte me. Io se mi fa inciampare la prendo a calci, eccome. Ma gli oggetti non hanno responsabilità. Ciò che non nasce, è salvo.
Sollevo la mano e guardo la macchia. Si sta assestando sui tre centimetri per tre. Va bene, andrò a fare l’esame con la macchia. E il lui, il prof, penserà che io sia uno schifoso che non sa tenere in mano un panino senza macchiarsi. Capirà che sono uno con la macchia.
La sedia non ne ha di macchie. Cioè, ne ha. Ha quattro cerchietti di scolorina e due scritte a pennarello sui bordi dello schienale. Ma quelle macchie non sono mica colpa sua, quindi nessuno ci fa caso. La mia macchia, invece, è colpa mia. E io oggi volevo essere la sedia vuota di Di Giorgio. Anzi, neanche la sedia, perché se la sedia incontra me e mi fa inciampare, allora finisce male lo stesso. Volevo essere Di Giorgio che, a quanto ne so io, oggi non esiste. È libero di non esserci. Non qui, non lì, non ieri, non domani. È un compito opprimente esserci tutto il tempo da quando nasci in poi. Sarebbe bello avere il superpotere di non esistere affatto da nessuna parte al mondo per cinque minuti. Solo cinque minuti di riposo. Senza lasciare buchi, come non fossi mai nato. Non voglio morire io, la morte lascia i buchi su chi ami e non cancella le macchie, non ti toglie la responsabilità di essere esistito. Anzi, il momento in cui muori è il momento in cui tiri le somme di come è andata. Tipo gli scrutini. Non voglio la morte. Vorrei solo non esistere per cinque minuti. E invece, una volta che sei nato, non ne esci più. Non esiste alcuna via d’uscita. È una cosa che non si può cancellare. Fai le macchie.
E tua mamma ti dice che sei schifoso, o peggio, ti guarda piangendo e ti chiede conto di quello che hai fatto.
È successo una volta che ero alle medie. Avevo la camera che dava sul terrazzino e ne ero molto fiero, perché mio fratello il terrazzo non lo aveva. Quando veniva primavera, uscivo a farci i compiti e ci stavo bene . Una volta però ha cominciato a venirci un uccello. Era una via di mezzo tra un piccione e una tortora, aveva degli stupidi occhi di bottone, vuoti e sgranati, e la pancia bianca, gonfia e rotonda come quella di un bevitore, come quella del barbone che chiede l’elemosina all’ingresso della scuola. Ma era più grosso di una tortora e più rumoroso. Ha fatto il nido sul balcone e siccome mi sporcava e cantava la mattina, l’ho buttato giù con un bastone. Tre giorni dopo, l’uccello ha ripreso a fare su e giù tra il giardino e il mio balcone. E la sera stessa mi sono ritrovato di nuovo con il nido. E l’ho buttato giù.
E lui cos’ha fatto? È tornato per la terza volta. Mia madre ha provato a metterci il veleno, ma quel bastardo di un uccello era furbo e non lo mangiava. Ha provato a metterci gli aghi, ma lui era furbo ed evitava gli aghi. Insomma, quell’uccello lì era uno che non cambiava idea. Voleva farsi il nido lì, e lì lo faceva, a costo di morirci. Mamma ha chiuso il terrazzo, mi ha detto che era sporco e che era meglio che facessi i compiti dentro.
Ma io volevo stare in terrazzo a fare i compiti. A costo di morirci. O me o lui.
E quindi, insomma, un giorno ho aspettato appositamente che l’uccello fosse nel nido con le sue uova. Poi ho preso la zappa dal giardino. Era la zappa con cui il nonno faceva l’orto prima di schiattare. In giardino è rimasta la sua pala , la picozza e uno sgabello scalcagnato appoggiato contro il muro. E quando non faceva l’orto stava lì a guardarselo, felice. Che facesse freddo o caldo, con l’impermeabile o la canotta, il nonno stava lì ogni singolo giorno dei suoi ultimi anni a guardare le verdure piantare radici, crescere, maturare. Poi, quando avevo dieci anni, il nonno è morto, e l’orto l’abbiamo sradicato perché la mamma lavorava e non aveva tempo per starci dietro. E poi non le fregava niente di guardare gli steli diventare verdi e le radici diramarsi. Però la zappa, la piccozza e lo sgabello erano rimasti lì contro il muro. Lo sgabello vuoto. E lo sgabello vuoto stava lì a guardare la terra vuota.
Si guardavano l’un altro, in silenzio. Senza pretese, senza aspettative.
Ma dicevo: ho salito le scale con la pala in mano e le gambe che tremavano, sono andato in terrazzo. Mi sono avvicinato piano piano e poi…
La porta si apre.
Il professore chiama «Amendola?» e Amendola si alza. Entra in aula.
La porta si chiude.
… e poi gli ho schiantato addosso quella pala con tutta la forza che avevo. L’ho colpito e l’uccello aveva sicuramente già una commozione cerebrale o che so io, ma un pochino svolazzava, e io non volevo che svolazzasse, volevo che sparisse perché era un bastardo. E l’ho seguito e l’ho colpito ancora a terra con la pala: «Schifoso». E l’ho ammazzato a colpi, e gli ho piantato la pala sul collo e un getto di sangue è spruzzato fuori dalla gola e io mi sono schizzato i jeans. Ho continuato anche se non si muoveva più, ho continuato fino a che non è diventato irriconoscibile, fino a che non è rimasta solo una pozza di sangue e cervella con su incollate quattro piume. Accanto c’era il nido e quattro ovetti, ridotti a un appiccicoso liquame giallo su cui navigavano i gusci franti.
La mamma — si vede che mi aveva sentito urlare — è uscita ed è rimasta lì a guardarmi impalata. Aveva gli occhi lucidi, mi ha guardato, ha detto: «Cos’hai fatto?»
Ovviamente era incazzata perché mi ero macchiato i pantaloni. E infatti li ho dovuti buttare. Lo dice sempre che sono il re delle macchie, che mi vado a scovare anche le situazioni più assurde pur di macchiarmi. Però non avrei voluto che piangesse.
Io non vorrei aver costretto mia madre a fare sette lavatrici a settimana, e onestamente, non vorrei neanche costringerla a sentire che mi bocciano di nuovo. Ci ho provato a non farmi segare e anche a non sporcarmi mentre mangio, ma finché vivo sarò tutto una macchia.
Levo la mano dalla camicia, guardo il bordo giallastro della chiazza, ne tocco lo spessore trasparente.
Non è trasparente. Lo vedo anche se non lo guardo, lo sento addosso, mi gratto, mi muovo sulla sedia.
Dio, fammi essere una sedia. Dio, fammi essere la sedia di Di Giorgio. Fammi essere lo sgabello vuoto del nonno, che sta lì, stretto alla pala e alla picozza, senza pretese, senza i sogni delusi dei cetrioli che non crescono.
Fammi essere… Dio, fammi non essere, oggi, per cinque minuti. Fammi non essere. Perché, se passo questo esame, devo finire la scuola, diplomarmi. E poi devo trovarmi un lavoro, e dimostrare che ce la faccio, che non mi macchio più, che non faccio piangere mia mamma, che sono abbastanza bravo, che il mio esserci ha un valore.
Non ci sono, oggi no. Mi alzo dalla sedia, con la mia tovaglia da sagra addosso, i libri tra le mani, il ginocchio livido e dolorante per il colpo che ho preso sul mobile. Me ne vado fuori, e il barbone è all’ingresso, sbronzo, accasciato sotto il portico, mollato lì, come lo zaino vuoto, o la sedia di Di Giorgio o lo sgabello del nonno. Mollato lì, senza importanza alcuna. È uscito dalla vita, si è scavato una via di fuga tra gli stracci sporchi, una galleria di cartoni puzzolenti in cui non esiste per nessuno, non lascia buchi a nessuno, nessuno si cura del fatto che lui sia al mondo. E io voglio entrare nel suo angolo per cinque minuti.
Fammi entrare, ti prego, per cinque minuti, fammi sedere nella tua casa di cocci di bottiglia, fammi sedere nel tuo rifugio. Non ha macchie perché tu sei una cosa accasciata lì, come non fossi mai nato, giacché tu non lo ricordi e nessuno lo ricorda per te. Fammi stare qui con te, sul tuo materasso squartato, nel tuo mondo senza nascita né macchie.
Cammino per la strada, tiro un calcio a un sasso e il sasso finisce nel tombino.
Ecco, un sasso. Dio, ti prego, fammi essere un sasso. Che non è arrabbiato, che non ha ucciso un piccione a picconate, che non si è macchiato la camicia del battesimo, che non fa piangere sua madre, che non si è fatto segare di nuovo all’esame. Fammi essere un sasso calciato che rotola nel tombino, si siede sul fondo, si accoccola nella ghiaia melmosa e guarda per sempre in alto, attraverso i fori. Guarda le suole delle scarpe che passano, le rotelle dei passeggini, le gambe delle donne, degli uomini, le radici dei muschi e delle erbacce che tenaci si espandono sotto la grata di metallo. E il nonno, fosse vivo, invidierebbe anche lui il sasso e vorrebbe venire subito qui, con il suo sgabello, in fondo a questo tombino, per sbirciare la nascita dell’erba attraverso i buchi. Guarderebbe senza paura, come fosse di fronte allo spettacolo più bello del mondo, come se la nascita non ci avesse ancora annoiato.
Oggi sono un sasso mai nato. Sono innocente.
La porta si apre.
Il professore chiama il mio nome.
La sedia è vuota. E l’appello è finito. E il professore indugia, mi chiama ancora. Prende il giubbotto ed esce.
La porta resta aperta.
Nessuno.
tutte le fotografie di Roberta Amelia Carrara.