un racconto di Gaia Gentili,
editing di Giulio Frangioni.
Il Paese è piccolo, spalmato sulla pianura come una preda che si acquatta perché non la trovino. Eppure lei lo ha trovato. Mi ha trovato.
Ha comprato casa nel fondo, la parte bassa, dove si racconta che un tempo ristagnassero le acque paludose del lago Gerundio con il loro drago, Tarantasio. Ha comprato quella della signora Prisca che è morta un paio di anni fa. È una casa piccola con un cortiletto rettangolare ritagliato in quello più ampio dei Pagliardi. La mia casa affaccia sul fondo, è l’unica casa della piazza, sulla destra la chiesa. Dalla finestra della camera di mio padre ho gli occhi aperti sul suo cortile. Prima che arrivasse lei, un’impresa edile ha iniziato dei lavori di sistemazione, parcheggiavano il camioncino EdilDaniel a lato della chiesa e poi si facevano i gradini di sassi e terra, non uno uguale all’altro. Ho percorso tante volte quei scalinata, finché ho avuto le gambe.
Hanno continuato a scavare per giorni, li vedevo dentro la nebbiolina umida di ottobre.
Erano in due, piccoli e magri, a guardarli avrei detto fossero fratelli, anche se uno aveva i capelli tutti imbiancati e l’altro invece era castano. C’erano le loro sagome davanti alle assi di legno. Ho buttato gli occhi per giorni interi prima di capire cosa stessero facendo.
Ho imparato a diffidare di chi sceglie di abitare nel fondo: per chi ci capita è diverso, è sventura.
I Pagliardi se ne sono andati qualche mese fa, se ne vanno tutti: ho detto io a Elio di andarsene. Il rosmarino che gli ho regalato, addossato alla parete della sua casa, è un grande cespuglio che sembra non voler smettere di crescere, come il mio amore, ma fa niente. Nelle giornate di nebbia da lì risale l’odore della palude, di fango e fogna. Sono odori che ti pesano dentro.
Ha i capelli corti e un corpo che sembra quelle foglie secche che ad accartocciarle tra le mani si frantumano. È comparsa quando i muratori hanno sgombrato tutto mostrando ai miei occhi un pozzo. Lei accanto. Le gambe mi hanno fatto male quando l’ho vista, delle fitte brevi, punte di spillo: i dottori dicono che sono del tutto morte, vuote, dicono che i dolori che sento sono i ricordi nella mia testa, ma se li sentissero come li sento io, forse cambierebbero idea.
Sono rimasta a guardare cosa faceva: vanno controllati, i forestieri, che per papà erano tutti quelli provenienti da un raggio di venti chilometri e oltre. Lei è sicuramente oltre. In Paese e nei dintorni nessuno metterebbe quelle scarpe, ha delle scarpe viola a punta, con il binocolo le ho viste bene.
Delle scarpe viola a punta per chi non può più reggersi in piedi sono un affronto.
È rimasta a girare intorno al pozzo, a toccare i mattoni a vista sfiorandoli con le dita lunghe come accarezzandoli. Io toccavo così Elio, quando le gambe erano gambe e le mani potevano ancora accarezzare, adesso le mani mi servono per reggermi e sopravvivere, i muscoli delle braccia si sono fatti forti, mentre le mie gambe poco a poco scompaiono. Sono filiformi ormai, come il mio corpo scegliesse di nutrire solo quella porzione di me che serve.
Sta affacciata al pozzo per ore a guardarci dentro; di sera, quando tutto tace, la sento parlare, parla a qualcuno là dentro, non distinguo le parole, sono un fruscio di foglie sotto i piedi. Secondo me è matta, l’ho detto a mamma ma lei ha alzato le spalle, lo siamo un po’ tutti, ha sussurrato, ciascuno a suo modo. Lasciala stare.
Ho provato, giuro che ho provato a lasciarla stare, ma non ci riesco.
È diventata la mia ossessione. Ho smesso di controllare chi entra ed esce dalla chiesa, chi percorre la vietta dietro l’oratorio, non mi interessa più guardare i ragazzini che fumano seduti sul marciapiede anche con il freddo. Guardo lei sull’orlo del pozzo.
«Cosa ci sarà là dentro secondo te?» l’ho chiesto a Giulia quando è venuta a trovarmi mercoledì. Ha i capelli stanchi e una ruga orizzontale sulla fronte ma gli occhi allegri vent’anni fa. Glieli invidio.
«Dei pesci?» ha sbattuto le labbra una contro l’altra simulando il boccheggiare sott’acqua, ha fatto anche gli occhi a palla, allora abbiamo riso.
«Ma i pesci possono vivere in un pozzo?»
«È una bella donna. L’ho incrociata l’altro giorno al cimitero, aveva un mazzo di margherite bianche. Mi sono vergognata dei fiori finti sulla tomba di mia madre.»
Questa cosa del cimitero diventa l’ossessione dentro l’ossessione, la goccia d’acqua che cade e si allarga.
«Mamma, hanno sepolto qualcuno recentemente?» ho chiesto quando ci siamo messe a tavola. Aveva preparato il risotto allo zafferano. Lei al cimitero va ogni giorno a trovare papà, ma mi ha detto che non ci ha fatto caso.
«Facci caso, per favore».
«Vieni con me, così ci fai caso tu», la bocca piena, la risposta secca.
È un ricatto, sa che con queste gambe non mi piace uscire, mi basta stare alla finestra della camera di papà che è l’unica della casa a dare sulla strada. Mamma non mette più le tende che mi oscuravano la vista.
Sto lì a guardarla affacciata al pozzo.
Certe volte sembra alzi il viso verso di me, allora abbasso la testa sotto la linea della finestra, scompaio, conto fino a mille e poi con cautela rispunto fuori e la trovo di nuovo con gli occhi dentro il buco che scende sotto terra. Poi entra in casa ed esce con qualcosa nelle mani e lo butta nel pozzo. Giurerei che si tratti di cibo, ma sono pezzi piccoli che tiene stretti nel pugno sinistro perché è mancina. Me ne sono accorta in fretta, appena l’ho vista accarezzare il pozzo, la sua mano destra è più legnosa e incerta, mentre la sinistra si muove rapida.
Quando fa cadere dentro qualcosa, infila la testa nel buco così a fondo che prima o poi il peso la tirerà giù. Allora dovrò chiamare i soccorsi. Non ricordo mai se è il 112 o il 118 il numero, anche quando ho trovato papà in chiesa con la testa sanguinante non sapevo e allora mi sono seduta accanto a lui e ho pianto per un po’ finché non ha smesso di essere qualcosa.
Ci hanno trovato un’ora dopo, forse un’ora prima sarebbe stato ancora vivo.
Non dormo quasi più, delle lune nere si prendono una porzione sempre più ampia del viso, da sotto gli occhi colano fino alle guance, come mi stessi trasformando in un animale della notte. Mamma è preoccupata, minaccia che farà murare la finestra se non la smetto, ma so che non lo farà mai. L’unico modo di vivere in questa casa è lasciarla identica a com’era quando papà è morto. È un tempio, i templi non vanno profanati, per questo dopo la sua morte per un po’ ce ne siamo andate altrove, sono stata io che ho insistito, abbiamo affittato una casa a Lodi, vicino al fiume. Di notte, la voce del fiume si sentiva.
In quella casa cielo-terra ero io a occuparmi di mia madre, accudivo il suo dolore silenzioso: non ha parlato per tre lunghi mesi. Dopo l’incidente i ruoli si sono di nuovo invertiti e l’unico posto in cui lei ricordasse come fare la madre era questo. Siamo tornate nella casa che dà sulla piazza, così vicina alla chiesa da sentire l’odore di incenso e candele la domenica mattina.
Io non dormo, perché lei non dorme, di giorno la si vede poco, ma quando cala la sera è lì, al pozzo. Ha messo accanto una sedia di legno, come accudisse un malato. Ogni tanto ci appisoliamo insieme, lei con la testa appoggiata ai mattoni, io al davanzale.
L’altra notte è uscita con un foglio bianco in mano, si è messa a ripiegarlo con la testa china in grembo. Lo ha fatto con cura, insistendo più volte sulla stessa piega, finché ne è uscito un aeroplanino di carta. Io non sono mai stata capace, dimenticavo così in fretta le pieghe da seguire e, quando riuscivo a tirarne fuori uno, non era in grado di volare. Il suo sembrava perfetto, l’ho visto bene, bianco nel buio gelato di dicembre. Quando ha finito, è salita in piedi sulla sedia, ha soffiato una nuvola di vapore sulla punta e l’ha lanciato verso il basso, giù nel fondo del pozzo. Poi ha aperto le braccia, muovendole lente come due ali enormi e ho temuto volesse seguirlo. Allora il mio cuore ha cominciato a sbattere. 112 o 118?
Finché le sue braccia si sono fermate, sono scese lungo i fianchi in riposo, allora anche il mio cuore ha rallentato.
«Si chiama Elda», ha detto Giulia quando è tornata a trovarmi. È andata in chiesa a fare le prove del coro per la messa di Natale, ha sempre avuto una voce potente: da bambina quando cantava era strano, perché sembrava la voce di una donna adulta che usciva da un corpo minuto, adesso è diverso. Capita canti per me soltanto, se glielo chiedo.
«Elda», ho ripetuto piano.
Giulia ha messo una sedia vicino alla mia, siamo affacciate allo stesso davanzale, Elda non è al pozzo, oggi non è ancora uscita di casa. Fa più freddo di ieri, ho visto la brina cristallizzarsi sul prato dei Pagliardi stanotte, non l’avevo mai seguita nel suo farsi. Credo sia una specie di magia.
«Ho sentito Gaetano, che la salutava». Gaetano è il vigile del paese ma anche il messo comunale e l’autista del pulmino.
«Ha risposto?» vorrei sapere se anche di giorno la sua voce è un frusciare di foglie sotto le suole.
«Ha chiesto qualcosa sui lumini del cimitero, su come pagare».
«Chi c’è sepolto di suo?».
Giulia ha scosso la testa, si è alzata. È paziente con me, mi vuole bene, ma capisco che questa mia ossessione la allontana. Promette in fretta che appena avrà tempo, andrà a fare un giro tra le tombe, ormai ha voglia di andarsene. Vorrei chiederle di cantare per me perché rimanga.
La notte di Santa Lucia è la notte più lunga.
Ho sentito mamma preparare il piatto con i dolci anche se sa che non amo le caramelle gommose, ma le tradizioni nel tempio non vanno infrante, quindi domani mattina me le rigirerò in bocca fingendo soddisfazione. Qualche campanello suona il lontananza a simulare l’arrivo della Santa sull’asinello, dovrei mettermi a letto ma Elda alza gli occhi e mi guarda dritto, prima che possa abbassarmi, prima che possa fingere di non averla vista. Una linea obliqua da lei a me, un filo teso dal fondo a risalire verso la piazza.
Allora apro la finestra per sentire lo stesso freddo che sente lei. Dopo qualche secondo si rimette a guardare nel pozzo come si fosse dimenticata di me, parla più forte adesso che la finestra è aperta, un frusciare umido ma meno sottile. Rimaniamo così e quando intorno alle 5 entra in casa, mi sembra che alzi la mano come a salutarmi. Il freddo mi si è infilato nelle ossa, tremo ancora quando mamma mi chiama per la colazione, penso ai dolci gommosi e il tremore rimane per l’intero giorno. Elda esce di nuovo solo quando fa buio.
Prima di mettersi al pozzo, alza gli occhi e muove la mano restituendomi la certezza di un saluto che non ho la forza di ricambiare se non muovendo la testa. Rimaniamo così quella notte e le successive, non so contarle, le lune scure sotto i miei occhi si fanno sempre più accentuate. Vorrei chiederle cosa c’è nel pozzo, trovare il coraggio di tagliare il buio con la voce, ma la guardo e basta.
Credo che non le dispiaccia avere compagnia, soprattutto quando piange e io le vedo le spalle scosse dai singulti. Il mio sguardo è una carezza. Ho chiesto alla mamma se mi fa una coperta con gli aghi, a quadrati verdi e blu. Vorrei portargliela, così che possa tenersela addosso dentro queste gelate di pianura. Ci si affeziona anche agli stranieri, lo dico a papà guardando verso il campanile che lui suonava aggrappandosi alle funi. Quando devo parlare con lui guardo il campanile perché se da morti si rimane da qualche parte, lui è sul campanile che può stare.
Quando Elda non esce per due giorni interi, mi sento persa.
Penso alle sue scarpe viola a punta, non riesco a immaginarla senza, dovrei chiamare qualcuno perché ha solo me che mi preoccupo per lei e sono io a dover avvisare. 112? 118? Ma cosa dovrei dire: “Elda non viene al pozzo da due giorni”? Allora non chiamo perché non ho le parole giuste.
Poi finalmente ricompare.
Mamma ha quasi finito la coperta a quadri. Quando la rivedo sedersi al bordo del pozzo, mi sento sgonfia come un palloncino e le gambe mi pulsano quasi il cuore fosse lì invece di dove deve stare. Quella notte non mi guarda, però ride. Sento la sua risata che si frantuma sulle lastre di ghiaccio sottili che si sono formate sulle pozzanghere, dopo la pioggia di ieri. Guarda nel pozzo e ride, la sua risata rimbalza sul fondo e lungo le pareti per risalire. Se avessi le gambe forse potrei scendere, non un gradino uguale all’altro, e guardare dentro il pozzo: sembra esserci tutto, il dolore che lacera e la gioia che esplode.
La sento ridere e non so ancora che è l’ultima notte che passerò con lei, non so ancora che qualcuno se la porterà via.
Ho pregato Giulia piangendo al telefono che venga a vedere con me.
«Cosa devi vedere?»
«Non lo so».
«Sono venuti a prenderla, erano tre volanti, lei non ha opposto resistenza. Ha solo detto che Alfredino era nel pozzo, ha chiesto che lo tirassero fuori».
«Chi è Alfredino?»
Mentre Giulia mi parla risento nella testa i rumori di ieri sera, le sirene, le luci. Ho pensato che avrei dovuto chiamare qualcuno. 112? 118? Oppure trascinarmi con le braccia che sono gambe e con le mani che sono piedi e salvarla. Invece sono rimasta alla finestra a tremare.
Giulia mi parla, mi chiede se ci sono ancora.
«Aveva comprato un loculo al cimitero, ci ha messo la fotografia di un bambino attaccata con il nastro adesivo ma non c’era sepolto nessuno».
«Alfredino è nel pozzo», ho detto con la voce che frusciava in gola, come foglie secche sotto i piedi. «Ti prego aiutami a scendere nel fondo».
Giulia ha riagganciato.
Mamma ha finito la coperta a quadrati blu e verdi. Troppo tardi.
tutte le fotografie di Rossella Salvaggio.