Un giro di valzer

un racconto di Roberta Spagnoli,
editing di Anna Chiara Bassan.

Quando fu deciso che l’ora era giunta, i vermi la stavano già mangiando dalla parte dell’ano. A niente era servito il carretto che le avevo costruito per camminare; l’infermità era ormai totale, in nessun caso sarebbe tornata a correre. Lei, sdraiata sul fianco, seguiva con lo sguardo ogni movimento del dottore, in silenzio. Continuò a guardare fino a che la siringa fu vuota.

Allora chiuse gli occhi.

Non ricordo suono o lamento; intorno a quel silenzio, solo la vibrazione sottile della vanga, in fondo all’orto. Mio nonno aveva preso a scavare, a pochi metri dal tronco del pesco, sotto i rami più bassi, dove la cagna stava sdraiata nei pomeriggi d’estate. La terra era dura, nemmeno una foglia sui rami, il tronco bagnato dal vento di mare. Era febbraio.

Maledicendo a bassa voce il suolo ghiacciato, i sassi, i rami del pesco che gli graffiavano la faccia, il nonno rovesciò la calce, il sacco con la carcassa della cagna ormai rigida, e ancora altra calce. Al momento di ricoprire la buca si era fatto buio e a stento riuscivo a vedere i suoi occhi umidi, la bocca tesa in una smorfia che piegava il baffetto leggero verso l’orlo del bavero. Sembrava arrabbiato per quella fatica imprevista che gli era toccata in uno dei giorni più freddi dell’inverno.

Lo avevo sentito chiaramente, prima di uscire, ruminare un «poteva aspettare la bella stagione, per andarsene».

Avrei sofferto di meno se fosse successo in estate, lo pensavo anche io, almeno avremmo potuto passare il tempo a fare una tomba con tanti fiori. Adesso, con la terra dura e le giornate corte, fare qualsiasi cosa all’aperto sarebbe stato impossibile. Nella mia mente bambina il nonno aveva ragione a prendersela con quella cagna che aveva sempre voluto fare tutto di testa sua, senza ubbidire a nessuno. Ancora non capivo che in realtà era la fatica della vita e della morte che lo costringeva a tirare fuori il fazzoletto a ogni colpo di vanga per asciugare la faccia e le mani umide.

Quel fazzoletto è il ricordo più netto che ho di lui: candido con le righe di una stiratura perfetta, sempre a portata di mano. Lo sfoderava  dalla tasca in qualsiasi occasione, lo sventolava per asciugare il sudore e i pensieri dagli occhi accaldati e, come per magia, tornava veloce a nasconderlo in tasca, ripiegandolo sulle medesime righe della stiratura.

Quasi un gioco di prestigio per i miei occhi ragazzini, che vedevano quel vecchio dallo sguardo cangiante come un mago, un po’ giocoliere, un po’ equilibrista. Veniva di sicuro da un altro mondo, a volte indietro di secoli, a volte avanti di anni luce. Sentivo il suo passo dalla zoppia leggera attraversare una storia a me inaccessibile, fatta dal fruscio di quel fazzoletto, leggero come un soffione o ruvido come la carta vetrata dei suoi occhi. 

La nostra casa, con mezze parole e voci segrete, lasciava intendere che lui non fosse vecchio da sempre, e nemmeno zoppo. In fondo ai cassetti pieni di foto scolorite, dentro gli armadi odorosi di cappotti tarmati, negli scaffali dello sgabuzzino, la casa parlava di un uomo differente.

Ogni tanto il sibilo di un crollo risuonava proprio da quello stanzino. Erano i faldoni gonfi, accatastati a caso fino al soffitto, che non reggevano il peso degli anni e rovinavano giù dalle mensole. Nessuno a preoccuparsene. Nessuno a rimettere ordine. Io sbirciavo dalla fessura della porta che ormai non si apriva più completamente, bloccata da registri, cataloghi e fogliacci sparsi a caso. Lui pareva non sapere nemmeno dell’esistenza di quella stanza di polvere e macerie.

 Forse, già un po’ sordo, non riusciva più a sentire gli scricchiolii e nemmeno i tonfi. 

Sembrava non udire nemmeno le mezze parole di mia nonna, ma quando la vedeva scuotere la testa sapeva già dove volesse andare a parare. “Lui non era nato contadino né lo sarebbe diventato in vecchiaia”, questo pensava mia nonna, che amava concludere dicendo: «Hai fatto tanta strada per ridurti a smuovere la terra sotto quei maledetti alberi».

Così io immaginavo quel vecchio, ancora giovane, srotolare nastri di strade attraverso deserti, lanciare ponti come liane sopra forre profondissime asciugandosi il sudore con il suo fazzoletto candido sempre a portata di mano. Sentivo il suo passo, che ancora claudicante non era, lasciare l’impronta nell’asfalto fumante. A volte mi sembrava di sentire il suo respiro soddisfatto. Ma poi pensavo alla fatica di quella sera, a sotterrare la cagna insieme a chissà quali altri fantasmi incontrati su quelle strade all’improvviso scivolose di ghiaccio, o su quei ponti sospesi in mezzo al vento. Ogni volta il rombo sordo della frana cominciava a crescere da lontano, e la nuvola di detriti mi svegliava di soprassalto, senza respiro.

Negli anni ho capito che quei tonfi non arrivavano soltanto dalle cartacce dello sgabuzzino, nascevano dai muri stessi della nostra casa, che restavano silenti per mesi, poi improvviso cedevano al crollo, in una rovina di schegge, cocci, frantumi e scorie.

Nessuno ci poteva fare niente, se non rispondere alzando i toni del rumore quotidiano.

Così, assorbendo chiacchiericci e tramestio di pentole, le pareti di casa si facevano mute almeno per un po’, e l’amarezza della nonna pareva diluirsi nel baccano della vita che girava intorno.

Anche io avevo scoperto il gioco dell’amplificazione: si doveva fare chiasso a tutti i costi, fossero grida, lacrime o risate, fossero porte sbattute o calici tintinnanti.

Come quel giorno di brindisi e candeline che il nonno non aveva abbastanza fiato per spegnere tutte in un colpo. La musica aveva invaso la sala da pranzo soffocando qualsiasi altro suono, fosse frastuono, sibilo o mugugno.

Lui, mio nonno, era immerso nella melodia.

Si capiva dal battere leggero delle dita sulla tovaglia, dallo sguardo intento a seguire il vuoto dell’aria. Poi si era alzato sovrappensiero e mi aveva appena sfiorato la spalla. Con un inchino mi aveva invitato a ballare. Proprio così: lui intendeva ballare con me, che forse non ero ancora mai stata nemmeno in discoteca. 

All’inizio mi sembrò facile: per fortuna la canzone pareva avere preso le misure del mio passo incerto e io mi limitavo a seguire il ritmo come una brava scolara. Lui mi aveva lasciato fare per due o tre battute ma poi aveva cominciato a girare sul serio, ridendo sotto il baffetto lieve. La musica pompava l’un-due-trè, la pista improvvisata fra i mobili del salotto si era fatta vortice. Io rossa per l’orgoglio, lui colorito per il vino, ci tenevamo stretti, lui aggrappato alla mia gioventù, io alla sua spalla robusta. Alla fine però né l’una né l’altra ci servirono un granché: nel girare perdemmo il senso, il verso, l’equilibrio e il nostro valzer finì tra le braccia di mia madre, sul suo vassoio di bicchieri.

Non ci fu tonfo o caduta, solo lo scoppio di una risata cristallina. 

A quel punto apparve di nuovo il suo fazzoletto: lo osservai  pulire le gocce di spumante dal mio vestito e poi rinfrescare gli occhi morbidi di panna e candeline. Come sempre non riuscii a indovinare la magia di quelle pieghe che si componevano di nuovo in un quadrato perfetto; avevo lo sguardo incollato sui suoi occhi, che ridevano come non l’avevo mai visto ridere e mi guardavano come nessuno mi aveva guardato mai.

Il valzer era finito e mi sembrava che il salotto risuonasse soltanto del mio respiro corto. Nel frattempo lui era di nuovo al tavolo, a godersi l’ultimo bicchiere.

Dopo quel valzer tutti in famiglia mi chiamavano “la danseur”, la sua ballerina preferita.

Quando fu ricoverato dicevano che mandavo in tilt le macchine della rianimazione se andavo a fargli visita perché a vedermi il suo respiro prendeva un ritmo differente, così nessuno voleva più che mettessi piede in quel reparto, né mia madre, né gli infermieri, tantomeno i medici. In effetti, quando mi vedeva arrivare alzava il baffetto in un sorriso, e il fiato sembrava prendesse a danzare, insieme al lenzuolo leggero. Nelle ultime settimane dovetti rinunciare alle visite.

Il giorno che il suo cuore si spaccò in due io non c’ero. Lui era solo a guardare la primavera fuori dalla finestra; il fazzoletto perfettamente piegato sul comodino. Forse stava cercando di individuare un ponte che congiungesse i due lembi di quelle colline basse, all’orizzonte; o forse contava i fiori del pesco sotto la finestra, convinto di tornare a casa in tempo per la raccolta. Alla fine era riuscito a diventare contadino in mezzo a quelle piante; le aveva viste crescere, aveva conosciuto il loro modo di comunicare, aveva imparato gli innesti, combattuto i parassiti, scoperto le malattie. Dal frutteto non si sentiva il rombo di frana che risuonava così spesso in casa; le fronde, con il loro fruscio, facevano scudo ai crolli che risuonavano dentro quei muri. Lui chiudeva l’apparecchio acustico e stava là, per ore, estate e inverno, a contare le foglie senza più pensare alle pile di documenti che rovinavano nello sgabuzzino, agli sbagli annotati  sulla doppia partita di quei registri e alla perdita del tempo passato ad andare avanti, nonostante tutto.

Nell’ultimo anno aveva perso una pianta, seccata all’improvviso, appena sbocciati i fiori.

Era proprio quella dove la cagna era solita sdraiarsi all’ombra a far niente. Lui non se ne dava pace; come era potuto succedere con tutta la cura che ci aveva messo per farla fiorire. Quel tronco secco non si poteva sopportare. Bisognava sostituirla al più presto con una nuova che crescesse in fretta. Non fosse altro che per la Kira: là sotto lei meritava ancora quell’ombra. Lui continuava a sussurrarmi questi pensieri durante le ultime visite, togliendosi la maschera d’ossigeno di nascosto dall’infermiera. Per questo voleva uscire presto dall’ospedale, aggiungeva ogni volta: l’estate era vicina e non c’era più niente da fare lì, in mezzo a tutte quelle diavolerie che servivano solo a fare rumore e gli impedivano di dormire, giorno e notte.

Quei macchinari con i loro bip petulanti non gli diedero il tempo di guarire tranquillo e nel frutteto il lavoro rimase a metà. In seguito, nessuno ne fece più niente di quello spuntone d’albero sfigurato e nemmeno del resto delle piante.

Adesso quel pezzo di terra è un intrigo di rovi e tronchi marci caduti tra i sassi.

I peschi sono diventati sterili, inutili anche a fare ombra. La cagna, o quello che resta, deve essere ancora là sotto, ma chi sa dove: sono passati troppi anni per tenerne memoria.

Troppi anche per mio nonno che, sfrattato da un giorno all’altro dal suo marmo discreto, (corridoio nove, terzo loculo a destra) ha dovuto rinunciare al suo riposo in pace. Pare si debba fare spazio ai nuovi morti e chi è già stato pianto abbastanza deve ritirarsi in buon ordine. Quel cuore spezzato è diventato troppo vecchio anche per la celletta di un metro quadrato, che deve essere presto messa a disposizione per fiori, lapidi e dolore di lacrime fresche.

Con gli occhi asciutti ho guardato per l’ultima volta il sorriso sulla fotoceramica e ho fatto spazio al becchino e alla sua vanga. Per liberarlo nell’aria ci sono voluti 1.250 euro dovuti al Comune e cinque firme su documenti prestampati. La burocrazia in certi casi aiuta, visto che riduce il mondo a numeri senza voce, cancellando tutti i rumori di fondo.

Compilati i moduli, resta poco da fare, se non tornare là, dove tutto è iniziato, e ripercorrere la strada dall’asfalto mangiato dalle radici.

Io sono tornata al frutteto (o quello che resta) e, sulle note di un valzer antico, ancora una volta come quella volta, ho visto mio nonno girare e girare, nell’equilibrio instabile del vento di mare, che non sai mai dove ti porta. Poi all’improvviso il vortice delle ceneri è collassato sui sassi.

Un’ennesima frana di polvere, questa volta muta.

Nessun fazzoletto è apparso a ripulire la scena; nessuna magia ha cancellato la traccia di quel gesto definitivo. Le pieghe sono rimaste scomposte: il cotone troppo stropicciato per tornare in una tasca come se niente fosse.

È febbraio, il mese più freddo. Riesco a intravvedere lontano un cane che abbaia, un vecchio che lo richiama con un fischio silenzioso. Le loro orme sono senza rumore. Sul terreno vibra soltanto un sibilo sottile, come di acufene, che continua a risuonare piano.

tutte le fotografie di Elisabetta Gatti.

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