un racconto di Cristina Pasqua,
editing di Anna Chiara Bassan.
In principio fu il bianco, livido d’alba, impastato d’inverno.
Solo dopo arrivarono le parole e la coltre di neve fu violata da gutturali trascinate tra i denti, la mano a raspare sulla barba incolta, occhi appannati di veglia, il fiato cristallizzato di vino, l’infuso di cicoria al bollo sul fuoco.
«L’ultima e torniamo a casa».
«E perché?»
«Perché sì, Greppio. Perché sì e basta».
La neve aveva malassato di sonno campi e cascine circostanti. Con quel freddo il gallo non avrebbe cantato al mattino. Tutto era fermo, immobile, addormentato.
«Siamo intesi?», disse Tonio sputando una presa di tabacco sugli assi irregolari del covo.
«Quanti sono?»
«Quattro. E due, Corelli e la serva. Di solito il fattore se ne torna a casa sua all’imbrunire. Stavolta no, colpa del tempo» guardò fuori dalla finestra.
Una patina uniforme aveva cancellato gli alberi, sparite case e colline, neanche uno sterpo in vista.
«Ce la facciamo?»
«Dipende da voi. Se non fate le cose per bene, ci lasciamo la pelle e allora a casa non si torna», disse Tonio schiarendosi la voce. Tirò fuori un fazzoletto dalla manica e si soffiò il naso.
«Stai male?», chiese il Romito.
«Male? Come staresti tu?»
«Ci serve sole», gli fece eco il Greppio.
«Parli bene. Si torna nell’entroterra. Tutti insieme. Uniti. Dobbiamo restare nascosti. Di che sole parli? A Timpari il sole non batte».
«Un passaggio a casa. Tra quattro giorni è Natale», azzardò Inghieri.
Non seguì risposta. Gli occhi di carbone di Tonio lo incenerirono lì dove stava, davanti al fuoco, senza bisogno di aggiungere verbo. Buttò un paio di ciocchi e ci soffiò sopra.
«Siamo intesi. È ora».
Uscirono. Gli scarponi sprofondavano nella neve, la neve a lambire le ginocchia. La distanza di un chilometro si trasformò in condensa e geloni. Bagnati fino al midollo, manco le imprecazioni riuscivano a scaldare la marcia sghemba tra i campi guasti di dicembre.
Il Greppio finì per storcersi una caviglia. Era sempre stato debole, bisognava ripensare alla formazione, non avrebbe superato un altro inverno.
Tonio masticava tabacco e bestemmie. «Avete il culo pesante? Siete marci all’età vostra», scaracchiò per terra, senza fermarsi a guardare.
Mesi prima il condotto aveva detto tisi.
«Consiglio una zona salubre, un sanatorio».
L’aveva zittito. «Sto bene, dottore, non dica altro, non serve».
«Come crede».
Si era portato una presa di tabacco alla bocca e infilato il pastrano.
«Non dovrebbe».
«Neanche lei».
In cascina Santero dormivano ancora. I Pieri, che vivevano a una manciata di chilometri, avevano avuto una perdita d’acqua la sera prima. I tubi erano scoppiati.
Il giorno avanti Corelli si era visto arrivare il Silvi macchiato di freddo.
«Ha detto la signora se ci potete ospitare».
«Porte aperte per voi. Prendo il calesse».
Alessandro Santero aveva sposato Luisella Pieri che era estate. Il figlio maggiore si era accasato bene, per questo le porte della cascina erano aperte per loro, pane sfornato di fresco e caffè caldo sulla tavola.
In casa erano in dieci.
«Corelli ha la lingua lunga. Sotto la mattonella della cucina c’è quello che cerchiamo», disse Tonio tirando il fiato, mentre affrontava l’ultimo costone in salita.
La cascina apparve all’improvviso, l’unico dente rimasto in una bocca spalancata. La lingua bianca di neve si allungava fino a lambire il cielo. Un silenzio torpido soffocava le prime luci pigre della giornata di lì a venire. Il Greppio sbirciò attraverso gli scuri. Tonio fece un gesto con la mano. Lana infeltrita dal mento salì fino al naso, solo gli occhi incendiati scoperti. Si calcarono i cappelli sulla testa, gli schioppi spianati, la mano guantata di Tonio a stringere la maniglia. Si scambiarono uno sguardo nervoso.
Il cigolio della porta sui cardini arrivò inaspettato. “Olio”, pensò Inghieri. “Chi ha pane, non ha denti”, rimuginò disturbato dal rumore. Il primo a entrare fu Tonio, seguito da Inghieri e dal Romito, il Greppio a chiudere la fila.
Un gatto bianco gli si parò davanti e prese a miagolare. Il Greppio gli tirò un calcio secco e traverso di suola e lo mandò a sbattere contro il muro vicino all’acquaio. Inghieri gli restituì una gomitata.
«Che fai?», la voce attutita dalla lana.
Tonio lo guardò torvo, scuotendo la testa. “Siamo morti”, pensò.
Il Romito si mise subito ad armeggiare con la mattonella, le dita intorpidite dal freddo, la punta dell’attrezzo incapace di farla saltare. Il Greppio, zitto zitto, si scolò un bicchiere di grappa abbandonato sul tavolino. «Scalda», disse piano rivolto a Tonio che, contrariato, continuava a scuotere la testa, disgustato dall’incapacità dei suoi.
La prima a uscire dalla stanza in fondo alla cucina fu la serva.
«Oh madonna santissima!», latrò tranciando la quiete.
Il Greppio le puntò la canna contro. Sparò.
«Sei una condanna a morte», mugghiò Tonio.
Corelli spalancò la porta dall’altro lato della stanza.
«Non erano questi gli accordi. Andate via», disse prima di finire a terra con il cranio spaccato. Il pelo sul muso del gatto si venò di rosso. Incurante, la bestia aveva preso a lappare il sangue che aveva imbrattato le assi del pavimento.
Da sopra arrivarono le prime voci.
Alessandro Santero iniziò a scendere i gradini a due a due, il fucile spianato. «Vi ammazzo», urlò.
Tonio gli fece subito capire che non sarebbe arrivato alla fine della scala. Lo tramortì con un colpo in pieno petto.
«Lascia stare quella mattonella. Forza, tutti sopra», disse schiumando disapprovazione. I quattro balordi, affannati e appesantiti, raggiunsero le stanze. «Dentro», disse Tonio. «Dei ragazzini mi occupo io, voi pensate agli altri».
Maria Inghirami in Pieri e suo marito Livio non fecero neanche in tempo a scostare le coperte. Subito dopo un crisantemo rosso fiorì sul cuscino di Matilde Pieri, la giovane sposa. Paride Santero provò a raggiungere lo schioppo, ma fu freddato mentre saliva sullo sgabello nel tentativo di tirare giù l’arma da sopra l’armadio. Silvana, sua moglie, si portò le mani alla bocca e lì rimasero, neanche la forza di cacciare l’ultimo grido.
Francesco, il maggiore dei fratelli, di appena dodici anni, si era nascosto sotto il letto. Inghieri lo fece uscire con le buone e gli tagliò la gola senza tanti complimenti. Giuseppe, il piccolo di dieci, lo scovò nell’armadio, nascosto tra i cappotti. Lo prese per il corbattino e lo tirò fuori. Un moto di pietà risaliva dallo stomaco alla gola. “Vattene, scappa”, avrebbe voluto dirgli. Tonio lo trapassò con un colpo sparato dal ciglio della porta.
«Potevi prendere me», disse Inghieri, la faccia inzaccherata di sangue.
«Non dire sciocchezze. Avevo detto che me ne sarei occupato io», gli rispose tronfio Tonio, prima di liberarsi dell’ennesima presa di tabacco ai suoi piedi. «Abbiamo finito?»
«La vecchia», disse il Greppio, che li aveva appena raggiunti, seguito dal Romito. «C’era una vecchia, me l’ha detto Corelli», assicurò.
Trovarono Alba Santero inginocchiata davanti al letto, il rosario sgranato tra le dita.
«Accomodatevi», disse serena. «La vita mia l’ho vissuta, non ci resto in questo dolore», e si scostò i lembi della camicia pesante.
«Ci penso io», disse il Romito, facendosi avanti.
«Non ci tieni alla pelle, vecchia?», e il Greppio scoppiò a ridere dandole una bella scrollata. Le mise le mani addosso, le sfilò la vestaglia. «Senti freddo», disse.
«Sta’ fermo, imbecille. Andate via, ci penso io», disse Tonio, tirandosi la porta alle spalle. Giusto il tempo di appoggiarle la canna fredda sulla nuca. «Grazie», disse Alba, la bocca di paura.
La cisterna era sul retro della casa, un pozzo profondo e buio all’altezza del terreno. Ci lasciarono le unghie per alzare il coperchio di ferro.
Li trascinarono fuori che l’aria rischiarava. Tonio prese a tossire, scatarrò pure l’anima, si appoggiò al muro ruvido della cascina e rimase lì a guardare i suoi che trascinavano corpi sulla neve sporca.
«Dobbiamo ripulire tutto», disse, ed era un ordine.
Ci impiegarono più di un’ora per cancellare le tracce e dentro fu pure peggio.
«Per una volta sei utile», disse Tonio al Greppio impegnato a passare lo straccio sul pavimento.
«Di questo che ce ne facciamo?», disse il Romito indicando il gatto.
«Tu che dici?», e Inghieri si passò la lingua sulle labbra screpolate.
«Si vede che navigavano nell’oro. A casa mia non sarebbe durato un giorno», aggiunse, infilandolo in un sacco. Miagolò il giusto, solo tempo di entrare nella iuta, poi Inghieri con una mossa rapida gli spezzò il collo.
«Ecco fatto», disse, «La cena è servita».
«Forza, è ora. Andiamocene». Tonio alzò il mento a indicare la porta di casa.
Abbandonarono la cascina che si era fatto mattino. Un sole granuloso colava una luce bianca da accecare gli occhi, senza la forza di scalfire il rigore della galaverna. A metà strada il Greppio scoppiò a piangere.
«Che ti prende ora?», disse il Romito che stava giusto dietro di lui.
«Non finisce così», riuscì a dire quello tra i singhiozzi.
«Niente finisce così», lo freddò Tonio. «Pulisciti il naso, ne abbiamo di strada da fare».
Tre anni dopo, al Poligono di tiro appena fuori città, Tonio, il Greppio e il Romito fissavano negli occhi le canne spianate di trentasei agenti della questura. Erano stati traditi da un angolo impiastricciato di tessera annonaria su cui si leggeva a chiare lettere il cognome Oriti. Corrado Antonio Oriti detto il Greppio. Era stato ritrovato in una tasca interna della vestaglia della vecchia, Alba Magistrelli in Santero. Come fosse finito lì, dentro quella tasca, non riuscirono mai a capirlo. Inghieri, che aveva le mani lunghe e la fama di stallone, era morto tre mesi prima per un regolamento di conti.
«È finita», disse Tonio e sputò per terra.
tutte le fotografie di Marika Pitti.