un racconto di Stefano Tarquini,
editing di Anna Chiara Bassan.
Seguimi. Mi dici chi mi ama mi segua, non la metterei proprio così adesso che il mio cuore è altrove.
Seguimi.
Mi accompagni senza guardare dietro neanche una volta, ti fermi al limite della passerella per non sporcarti i piedi, non sbatti le palpebre per non affaticarle. Hai un buon profumo. Sono i vestiti, me li lava ancora mia madre. Ti sbatto addosso mentre indichi il mio posto alzando il braccio, nell’altro tieni la cartellina dove annoti le presenze, sbarri il mio nome con una crocetta. È il quinto a partire da qui, o il primo libero, come preferisce, non ci facciamo certo caso a come chiamare le cose.
Sì, ma non darmi del lei, mi fai sentire vecchio e borghese quando sono un cane rabbioso e randagio. Figurati, è che mi ricordi maledettamente qualcuno. Houellebecq, me lo dicono tutti. Quello della televisione? Lo scrittore. Quello di Assecondare? Annientare. Mi scusi, ho una pessima memoria. Ancora? Scusami, scusami.
Allora bene così lo scrittore, mettetevi più comodi che potete, i nostri sono lettini decisamente confortevoli, e a breve passeremo con le bevande. Non bevo da dieci giorni e sembro resistere, quindi semmai qualcosa di analcolico, male che va l’acqua frizzante più bukowskiana che avete. È la vostra prima volta qui al lido, vero? Si vede così tanto che non siamo abituati alle buone maniere? Se è per questo neanche alle comodità, quindi si risparmi le battute, comunque no, non siamo poveri.
Quando è il momento mi raccomando gli occhiali in dotazione. Come lo capirò? La avvertiamo noi, sentirà una voce. Va bene, ma per quello che abbiamo pagato siamo veramente troppo lontani, praticamente è l’ultima fila. Però siete stati anche gli ultimi a prenotarvi, e non mi chiedete favoritismi di sorta, le liste sono in ordine di prenotazione e il capo è intransigente, poi ve lo assicuro da qui si vede tutto.
Mi porti la bottiglia d’acqua che mi spetta per favore, non ho più voglia di parlare.
Allora rilassatevi, vi apro l’ombrellone e faccio silenzio. Ti seguo con lo sguardo fino a che scompari dietro altre persone, nel vociare unico che non lascia scampo alle parole, e tutto è rumore piccolo, e tutto diventa suono di uomini.
Papà perché siamo qui? Mi stai chiedendo perché siamo nati e viviamo, o semplicemente perché siamo capitati qui? La seconda. Cos’altro avevi da fare oggi? Abbiamo visto tutto quello che c’era da vedere, le spiagge libere senza servizi, quelle private con le docce calde, abbiamo mangiato ovunque, ormai ci conoscono tutti.
L’ultimo giorno di vacanza me lo aspettavo diverso papà. Sì, anch’io volevo essere diverso da come sono, quindi te lo dico chiaramente: non lo so perché siamo al mondo, probabilmente c’era un’altra soluzione, ma il non nascere avrebbe solo tolto, invece oggi aggiungiamo qualcosa, mi sono stufata di queste cose, penso che questa sarà l’ultima volta che ti accompagno.
La famiglia all’ombrellone vicino ha una figlia femmina con i capelli ricci ed estremamente arancioni, arancione carota, un figlio maschio, con l’aria da stupido ma non troppo, poi un altro maschio in carrozzella, l’hanno sistemato in modo che possa godersi il panorama suscettibile. La brezza continua lo ricopre di sabbia, ogni tanto si sgrulla come i cani dopo la passeggiata togliendosela di dosso alla buona.
Sono al centro del centro esatto di un tornado, sono al centro del centro esatto di un enorme tornado, lo ripete e lo ripete di nuovo guardandomi dietro le lenti spesse fondo di bottiglia dei suoi occhiali da quasi cieco, e tu ci sei mai stato al centro di un tornado? Sono io il tornado vorrei dirgli, sono io il centro del tornado, e invece tu fai finta, tu stai giocando con te stesso e incolpi il vento, piantato a terra valanga che pesi un quintale e mezzo, io posso volare se voglio, io posso parlarti rimanendo in silenzio, io ti odio perché tu stai morendo immobile, io ti amo perché tu sei il centro del centro del niente, e non guardarmi più, anzi parlami ma senza guardarmi troppo.
Arriva la comanda.
Insieme all’acqua di mare mi porti un trancio di pesce spatola, cotto bene devo dire, sei morsi una porzione e mezza di gioia, ingoio senza masticare, fai morsi piccolissimi per non trovare spine. Eppure il mio piatto preferito sono le scorciatoie, il tutto e subito con zucchine romanesche e cipollotto crudo, non le mezze verità ripiene di.
La puzza di chiuso s’attorciglia alle sue prede come un pitone, siamo in troppi a respirare la stessa aria nello stesso posto, non è colpa di nessuno è che siamo veramente troppi a essere vivi, anche se non è ferragosto, anche se nessuno passa con le ciambelle fritte, nessuno coi tappeti o le collanine, nessuno con in spalla una tavola da surf.
Seguimi.
Ascoltami attentamente, stiamo per cominciare, parte l’annuncio generale, lo ripeteremo in tre lingue, l’ultima è quella dei segni Io ci sento benissimo. È per il ragazzo accanto, guarderà tutto da uno schermo. Signori e signore, mani gesticolanti dita rotanti, scatti, pause, scatti, mettetevi comodi sui vostri lettini a righe blu e gialle, allacciate le cinture di sicurezza, di nuovo scatti, pause, scatti, a breve comincerà il conto alla rovescia partendo da dieci.
Lo sappiamo. Non lo dite, dieci è poco, ma sono due cifre. Due lo capisco, anzi mi ricorda pure tante cose. Quanti modi ci sono per indicare il numero due con una mano sola? Infinite. Infinite e in silenzio.
Gli addetti alla sicurezza hanno delle felpe rosse col cappuccio, sembrano bagnini, una grossa scritta bianca dietro la schiena, “Lido Anna”, e fanno su e giù indaffarati a dirsi cose, a confabulare cose per essere sicuri che sarà tutto perfetto, che tutto andrà bene, sembrano catechisti, i più goffi addirittura testimoni di Geova, guardando citofoni in attesa di una risposta, o di qualcuno che apra. Sembra quasi tutto pronto, il vociare disturbante s’acquieta, tutti davanti hanno qualcosa da bere io niente che possa distrarmi, niente di niente che possa mettersi tra me e.
Dieci. Nove. Otto.
Sangue di drago, l’ultima volta che ci siamo sentiti mi hai mandato una foto in cui avevi a fianco l’arcobaleno.
Sette. Sei. Cinque.
Tutta questa fatica per trovare uno spazio nel mondo, poi quando lo trovi che fai? Una foto. Eppure stavi benissimo con quel cappellino di lana bordeaux e il giaccone nero che ti avevo regalato per il compleanno, non te l’ho mai detto, era rubato, non sono stato proprio io farlo, però.
Quattro. Tre. Due.
È solo una foto mi hai scritto, non è vero non è solo una foto, è che tu non sorridevi, pensavi solo a come metterti per sembrare più magra, io sorridevo così, sei tu che vuoi vedere altrove, pezzo di cuore e di lava.
Uno. Zeroooo.
Ai piedi del palazzo di fronte nuvole di fumo corrono verso l’alto, solo dopo qualche istante arriva il rumore dello scoppio. Punti dinamite esplodono all’unisono. È tutto perfetto. Il palazzo implode, scivolando risucchiato da sé stesso. La spinta dell’aria ci sovrasta, mi spettina, la testa all’indietro come sulle giostre.
Guardati. Con i tuoi denti nuovi, col tuo finto sorriso, e il tuo cappello di lana, erano i segni della mia vita successiva. Senza di te. Poi parte l’applauso.
tutte le fotografie di Vasiliki Ioannou.