un racconto di Francesca Coppola.
⚠️ ATTENZIONE. Questo racconto, che tratta il tema dell’aborto, potrebbe non essere in linea con la sensibilità di alcunǝ lettorǝ. Il nostro pensiero, il nostro affetto, va a tutte le persone che ogni giorno si sentono giudicate per le proprie scelte. Scelte che dovrebbero riguardare soltanto loro, non essere oggetto di dibattito pubblico. A tutte le donne a cui la società, le leggi, le chiacchiere non permettono di prendere decisioni sul proprio corpo con la dovuta serenità, va invece il nostro supporto. Grazie, se leggerete questo racconto, grazie anche se deciderete di non leggerlo. In ogni caso, siamo qui per fare la differenza, perché la differenza parte da noi.
La zanzara si aggirava nella stanza. Il suo ronzio era udibile da ogni angolo. Era diverso dall’ultima volta, ora era più disperata.
Pochi mesi fa si era ripromessa di non tornarci più.
Aveva preso il fascicolo e lo aveva tranciato di netto mentre ingurgitava per la seconda volta, nel lasso di pochissimo tempo, la pillola del giorno dopo.
Anche in quella occasione si era seduta, aveva contratto le gambe all’indietro. Le mani si toccavano in maniera nervosa. Aveva chiesto, cercato di spiegare, poi aveva espirato. La dottoressa era pronta, il manuale tutto memorizzato nella testa.
«Le conseguenze, signorina. Lei è ancora immatura, è inconsapevole, forse dei metodi di contraccezione?»
Aveva aperto un cassettino ai lati della scrivania e le aveva consegnato una manciata di preservativi.
La zanzara anche allora si era fermata nei paraggi dell’orecchio destro. Il suo rumore parafrasava il movimento delle labbra della saputella del consultorio.
«Mi raccomando» aveva detto, e la zanzara stronza le faceva eco.
Lei lo sapeva, stava ingerendo una bomba di ormoni.
La prima volta che la prese, la sua faccia si gonfiò, per mesi enormi foruncoli avevano ricoperto guance e fronte. La seconda volta i peli erano diventati più ispidi, il seno scoppiettava, il corpo stava preparando la sua mutazione.
Oggi è un’altra storia.
Qualcuno tenterà comunque di propinarle l’elenco delle ripercussioni. Oggi le ricorderanno di un preservativo per non arrivare a questo. Di utilizzare regolarmente la pillola. Una buona soluzione potrebbe anche essere la spirale, preciseranno.
Lei è ancora seduta, le sue gambe sono sempre troppo strette, non è molto lontana dal sentirsi un fascio di nervi. Comunque, inspira.
«Sono Marta,» dice. «Non trovo più il libretto del consultorio, purtroppo ho cambiato residenza, mi sa che si è perso fra il trasloco e gli scatoloni.»
Accenna un sorriso, finge di sorridere. Chiede la prassi per prenotare un aborto.
C’è un uomo di fronte a lei, un dottore il cui cognome è riportato in minuscolo sulla targhetta del camice bianco. Lui si ferma, le incide -con lo sguardo- un segno indelebile sul corpo. Sanguina.
«Lei si rende conto della richiesta?» chiede. «Lei sa che dopo nulla sarà lo stesso?»
Marta sente le stigmate sulle mani. Lei è artefice della carneficina.
Una volta aveva letto la lista top 50 degli animali cannibali. Animali all’apparenza teneri o indifesi, capaci di ammazzare i propri figli. Nella sua testa immagini diverse fanno a gara per cercare le somiglianze: criceto o ragno lupo, coleottero seppellitore o panda?
La zanzara inizia a passare da un orecchio all’altro, poi le pizzica la schiena, il collo, non riesce a vederla, ma sa che la perseguita.
«Signorina ci sono tanti modi per non arrivare a questo. Voi giovani avete un approccio sbagliato al sesso. Ai miei tempi tutta questa libertà era proibita. La legge 194 le fornisce tale diritto ma devo metterla al corrente di tutto, continua. Poi se vorrà procedere, dovrà ritornare dopo sette giorni.»
Sette giorni di agonia, pensa.
Una settimana di sensi di colpa. Centosessantotto ore per ripensarci.
«Potrebbe non essere la scelta giusta, potrebbe decidere di tenere “suo figlio”. Un giorno si troverà a raccontarlo e, forse, si maledirà.» forse dice, ma ne è certo.
Marta è sempre seduta sulla sedia, le gambe pericolosamente tese, gocciola il sangue dalle sue mani, sono un’assassina si dice. Intanto aveva marinato ancora una volta la scuola, andrà all’inferno, pensa. Quando le lezioni saranno finite, la casa resterà la stessa. La madre continuerà a fingere di non vedere la luce della sua cameretta spegnersi. Alzerà il volume della televisione per non sentire i gemiti del suo compagno.
Marta ci aveva messo del tempo ma aveva imparato a non urlare, lui non le metteva neanche più le mani sulla bocca. Era tutto veloce e necessario. La mattina dopo, era il turno della madre avvicinarla per gridarle tutto l’odio, era una troia per averle portato via l’uomo.
Il dottore si tocca gli occhiali. Scuote la testa. La fissa.
Ancora una volta, la zanzara era entrata nella pancia della ragazza, aveva succhiato le mestruazioni. Aveva vomitato un gomitolo di non so bene che cosa e ora cresceva nel suo ventre.
Ora che il lavoro era finito, poteva uscire dalla bocca e poggiarsi sulla scrivania. Potevano, finalmente, guardarsi negli occhi.
Marta ha imparato, sa già cosa fare. Apre le gambe, non poteva resisterle. L’insetto si muove deciso e poi atterra sulla gomma da masticare appiccicata ai jeans.
E -bam!- è stato tutto sommato facile, una botta secca.
Ferma e finalmente muta. Un minuscolo puntino di sangue, una tomba in mezzo alla sua mano.
all pictures by Martina Matencio.