Acchiapparello

un racconto di Giuseppe Fiore.

Lascio cadere a terra il foglietto, vola via, anche se non c’è vento, scivola sul marciapiede, sparisce.

La porta nera, materiale massiccio, pomello d’oro.

Fuori, alle mie spalle, un giardino ben curato, piccole punte appaiono nell’erba, innaffiatoi automatici. Mi passo la mano sulla maglietta, grigia, sento la pancia dura, un miscuglio dentro. Devo solo mettere una mano sulla maniglia, basta un gesto, mano, pomello, metallo, girare leggermente a destra, la porta si aprirà.

Mi giro, verso il giardino, lo guardo, ancora, guardo la strada che è oltre, le case ai lati, di fronte, su tutto il marciapiede, magari avrei vissuto qui, in un’altra vita, magari avrei vissuto bene, con una moglie, figli, scuola a pochi passi, partite di calcetto con i vicini. Sento il verso degli irrigatori partire, una lucertola impaurita che attacca, parte l’acqua, potrei bagnarmi, appoggio la mano sulla maniglia, è fredda, abbasso, la porta si apre, passo.

8… 9… 10.

Il bambino si gira, le mani poggiate sulla parete, faccia sulle mani. Si gira, vedo le sue pupille partire a zonzo nell’orbita per analizzare, nella maniera più analitica possibile, la stanza. Un letto, una piazza, piumone colorato con immagine di Spider Man disegnata sopra, armadio, due ante, in legno, scrivania bianca, sedia con rotelle, libri di diverso genere sparsi sulla scrivania, comodino di fianco al letto con lampadina attaccata alla corrente.

Il bambino si dirige verso il letto, si abbassa, controlla sotto, si rialza, esce dalla stanza.

Mentre cammina in uno stretto corridoio bianco sussurra, tra sé e sé, il sussurro è troppo basso per essere rivolto ad altri, magari piccoli fantasmi che lo circondano, sussurra: sto arrivando, vi prendo.

Infila la testa in quello che sembra un buco nella parete, fissa dentro a lungo, poi fa altri due passi e apre una porta piccola, non troppo alta e non troppo massiccia, la apre e ci entro, seguendolo attaccato alle spalle.

Ci sono due divani lunghi, persone siedono. Una donna indossa una pelliccia nere e parla, non sento quello che dice, la sua voce non esce dalla gola, rimangono solo gesti, le braccia che salgono, scendono, le mani sembrano voler disegnare una colomba sulla parete, poi si aprono, le unghie graffiano la pelle, sangue cola e qualcuno si alza di scatto dal divano per non lasciarlo cadere per terra, infila la testa sotto, beve le poche gocce.

Il bambino attraversa, passando dal centro, la scena, ma i seduti non lo vedono, troppo presi dall’ascolto della non voce, troppo presi da quel poco sangue, da quei gesti insignificanti. Mentre il bambino cammina, piccoli passi su un tappetto grigio e nero, da sotto uno dei due divani un piccolo corpo sgattaiola ridendo, la sua risata è l’unica cosa ad avere volume e rimbomba, sbatte sulla disattenzione dei seduti, sbatte e arriva con forza nelle mie orecchie, chiudo gli occhi, mi tappo le orecchie, il volume è forte e perdo di vista i due bambini che si mettono a correre uno dietro l’altro.

Rimango spaesato, senza guida in un bosco fitto e inquietante, inizio a girare intorno ai due divani, non c’è nessuno, i bambini non si sentono più, nemmeno la loro corsa, le loro urla, poi guardo l’altro divano. Lì, seduto, con le braccia sulle gambe, una figura che mi ricorda qualcuno, mi guarda con un sorrisetto poco accennato, forse per non farsi notare dagli altri, allora mi avvicino, è molto magro, mi indica con la mano una porta. Sono certo sia stato il suo stesso dito a crearla, a delimitarla, come in un disegno, nella parete.

Mi tocca, una piccola vibrazione, per darmi una specie di pacca, poi vado verso la porta, la apro.

Sento le voci dei bambini, non riesco a vederli, la stanza è buia, molto buia, se non per la luce che proviene dallo schermo di un tablet appoggiato su un letto. Anche la luce, nello schermo, è bassa. Mi avvicino, non sembra esserci nessuno a guardare. Nello schermo una stanza scura, il corpo di una ragazza, una ragazza bionda, sembra un quadro di qualche pittore famoso, e magari lo è, ma sono io che non riesco a mettere a fuoco, a riconoscere l’immagine tra tutte quello che ho impresso dentro di me.

Mi fermo a lungo a guardare, la scena è ferma, sul punto di ripartire, di iniziare, di dar vita a qualcosa, messa in pausa, provo a toccare lo schermo, non si attiva nulla, è solo una foto. Dopo mi giro e cerco un interruttore, qualcosa che faccia luce, vado a tentoni sulla parete, una, due, tre, quattro volte, finché non trovo un tasto e spingo.

Si accende una luce, una lampada attaccata al soffitto, dietro di me, seduti per terra, una schiera di bambini mi fissa, erano loro che guardavano il tablet? Al primo movimento verso di loro, vedo, nella schiera, due bambini alzarsi e scappare verso una porta in fondo alla stanza, sono loro, li ho trovati, sono sempre stati qui, mi butto nella ricorsa, lasciando i bambini seduti a fissare l’immagine che non diventerà mai movimento.

Arrivo in fondo alla stanza, affondo la mano sulla maniglia, apro.

I bambini scappano e sono veloci, possibile? Così veloci?

Magari sono io che sto diventando vecchio.

La porta cigola, spingendola sembra possa cadere giù, non riuscire a sostenere il peso del suo compito. Dietro c’è un tavolo, piccolo, per quattro persone, cinque, stretti. Delle quattro sedie, infilate nel tavolo, solo due sono occupate. Due signori, un uomo e una donna, sulla sessantina inoltrata, forse settantina, con la pelle che ancora non è ruvida, ma inizia a diventarlo, poco dopo la pensione, poco prima dell’inizio di una qualche forma di demenza che brucerà tutto quello che si è stati prima.

Mangiano, vedo dall’ingresso il movimento delle posate, la forchetta ferma e il coltello veloce, i bicchieri riempiti, le bottiglie che si svuotano, la tv che non vedo, di cui sento il calore. I bambini, rincorrendosi, si infilano sotto il tavolo, girano in tondo, cercano di toccarsi, di tirare le piccole magliette colorate, i signori sorridono, abbassano leggermente la testa per riuscire a guardare entrambe le realtà, sopra e sotto, tengono d’occhio tutto, nessuno può farsi male, è tutto sotto controllo.

Mi avvicino e sento di potermi unire alla corsa sotterranea, sento di poter afferrare uno dei due bambini e vincere questo gioco che inizia a diventare lungo e snervante. Mentre sto per infilarmi sotto il tavolo, qualcosa mi blocca, i signori, dalla pentola ferma sul ripiano, prendono con dei mestoli delle foto, le portano nei loro piatti, le tagliano in piccoli pezzi, come si fa con le fettine per i bambini, poi buttano giù.

Mangiano foto e continuano a riempirsi i piatti.

Mi avvicino, sono foto di luoghi di montagna, di case in legno, di gente giovane che capisco essere ormai invecchiata, morta, magari in punti nello spazio così distanti da renderli fantasmi. I signori sono insensibili a quanto mangiano, buttano giù piccoli pezzi che, una volta diventati piccoli, non hanno più un significato d’insieme, non guardano le immagini prima di tagliarle, non se ne preoccupano.

Appaiono tanti volti nelle foto, alcuni si ripetono in età differenti, alcuni mi sono addirittura familiari e adesso, più che andare sotto e riprendere la corsa, vorrei tanto poter avere del tempo, tempo di fermarmi a questo tavolo, guardare le foto a lungo, riconoscere le genealogie, assaggiarne qualcuna anch’io, non devono essere male, ma devo tornare giù.

Mi abbasso e vedo i bambini spezzare il cerchio creato sotto al tavolo e scappare, come piste di macchinine difettose, prendono una nuova strada, li seguo, entrano in una porta piccolissima, come quelle da cui passano i cani, quelle porticine fatte apposta per loro, non c’è una maniglia, basta passare.

I bambini si buttano oltre, io prima di lasciarmi andare ancora, mi giro per riguardare la tranquillità del tavolo, delle foto, del mangiare insieme, ma è già scomparso tutto, non c’è più nulla, solo polvere, allora mi butto contro la piccola porta e riparto all’inseguimento.

La stanza è buia, scura, sento solo la parte inferiore del mio corpo, non riesco a percepire altro.

Faccio piccoli passi avanti, non posso tornare indietro, andare avanti è l’unica soluzione, formica al buio. Dopo poco, sento i passetti dei bambini, non li sento davanti, non stanno scappando, li percepisco intorno a me, giro la testa a destra, poi a sinistra, ma è troppo scuro non vedo nulla.

Continuo ancora a tirare dritto, ci sarà una porta, per forza, c’è sempre, devo solo infilarmici e sparire, ancora passi da formica, finché qualcosa prima mi tocca le gambe e poi le afferra, mi blocco. I due bambini si sono attaccati alle mie gambe e non mi permettono di andare avanti, non riesco ad alzare i piedi per camminare, provo a strisciare, ma sono troppo pesanti, sono immobilizzato, cado a terra, sbatto la testa, sento quelle che immagino siano corde intorno alle gambe e alle braccia, poi si accende la luce.

Sono legato a una libreria, la mia spalla poggia su dorsi di numerosi libri, davanti a me i due bambini mi guardano, mi indicano e ridono tra loro, la stanza è spoglia, ci siamo noi, la libreria alle mie spalle, una maestosa porta a pochi passi, più che una porta sembra un portone da castello medievale, intarsiati, splendidi.

Come fanno due bambini ad aprire una porta del genere? Come faranno con quelle braccia sottili?

Mentre i due continuano a ridere, la porta, alle loro spalle, comincia ad aprirsi, poco alla volta, proprio come quando i cavalieri tornavano a corte, i bambini non si preoccupano della porta, continuano ad accanirsi su di me che non ho possibilità di reagire, sono legato, sconfitto.

Quando la porta è al massimo della sua apertura provo a guardare oltre, ma si vede poco, c’è nebbia, una nebbia fitta che oscura tutto, vedo solo parti di verde, un giardino immagino, il resto non mi è concesso. I bambini ridono un’ultima volta, poi si girano e un passo per volta, senza fretta, entrano, spariscono nella nebbia, dopo pochi attimi sparisce anche il portone, rimane una porta verde, lunga, di metallo arrugginito.

La guardo, mi ricorda qualcosa, va via la biblioteca con i libri, via le corde e sono di nuovo in piedi, libero, apro, aiutandomi con la spalla, la porta ed entro.

Ci sono scale, molte scale che scendono, le seguo a lungo, scalino dopo scalino, arrabbiato per non essere riuscito a prendere i bambini. A un certo punto sento quel rumorino, un rettile sofferente, vedo la luce, l’acqua comincia a bagnarmi dalla testa ai piedi.

all pictures by Michael Northrup.

Leggi anche…

Fine del sogno
Cartolune #1 | Giovanna Cinieri
La Gardiniza