Allegoria.
un racconto di Sibilla.
Se fosse la morte,
ne ammirerei la profonda gravità, gli occhi senza tempo.
Saprei che fai sul serio.
Ci sarebbe una nobiltà allora, sarebbe sì un giorno natale.
E il coltello non taglierebbe a pezzi, ma entrerebbe
puro e netto come il grido di un neonato
e dal mio fianco scivolerebbe fuori l’universo.
Gli hanno portato via quasi tutta la pelle. Gliela stanno portando via pezzo per pezzo, come uno stillicidio di minuscole ferite. Un millimetro alla volta. È come un ustionato grave, con le terminazioni nervose esposte, ogni senso concesso è dolore puro. Puro. Anche respirare, parlare è dolore. Non dorme mai: tutti i sensi sono sempre all’erta, sempre sofferenti.
Ed è solo. È sempre solo.
Nessuno può, nessuno potrebbe mai provare affetto o attaccamento verso una simile creatura. Informe, senza pelle, senza nulla da dare, senza bellezza, senza colore. È come una carcassa abbandonata, la carcassa di un piccolo animale innocuo e mostruoso, inoffensivo, se non verso se stesso, se non senza cattive intenzioni.
La pelle non si rigenera.
L’ho detto: è l’unica cosa che abbiamo, senza pelle siamo nudi, diventiamo quella nudità spaventosa e inconcepibile e triviale. Senza siamo esposti, trasparenti, quarzo venato da colori tenui, sfumati, che catturano lo sguardo. Impuri.
La pelle. Non possiamo cambiare pelle. Non può cambiare la sua pelle antica, malata.
Non può cambiare la sua consistenza, la materia di cui è fatta, l’odore, niente: può solo perderla. E allora hanno deciso di portargliela via. La sua lotta confusa contro le mani fameliche, quelle mani che afferrano i lembi della sua pelle come fossero affamate di disprezzo, cessa, senza preavviso, si arresta bruscamente. Si è arreso alla mancanza di sé. Si chiede se è la sua pelle e si compiace della risposta che si dà: non sono, non posso essere la mia pelle, non sono questa tela di cicatrici colori macchie punti linee simboli. Sono più in profondità: dovrei cercarmi.
Non si cerca. Si lascia cercare. Si lascia ispezionare, violare, mutilare, studiare, giudicare, testare, e infine gettare.
Eppure non si ferma, non si ferma mai, si muove, nel tempo e nello spazio. La vita gli sfreccia intorno a velocità inaudite, sfiorandolo, uccidendolo piano. Non ricorda il contatto fittizio dettato dall’emotività umana, dalla sua sufficienza. Il tepore sottile dell’altro, il poter sentire vagamente l’altro, percepirlo appena, come una sorta di calore soffuso, come un battito d’ali, e appagarsi di quella perpetua assenza, in estasi.
Conosce solo il contatto puro tra sé e il resto, e per la prima volta sente il bagno di egocentrismo in cui vive, tutto ciò che ha preceduto quel momento sembra ancora più amaro, tutto si tinge di grigio, solo la sua carne esposta è purpurea, vera. Viva.
Non c’è Dio in tutto questo, non può esserci un Dio.
Non c’è un Dio per chi è eternamente condannato a bruciare, ad ardere sulla picca del suo io, non c’è battesimo per una tale corruzione, non c’è acqua che lenisca la pena di una natura così infelice. Non c’è sollievo per l’inconsapevolezza. Per l’abbandono. Non c’è espiazione per la colpa celata dietro il piacere narcisistico che prova nel soffrire così duramente, così a lungo. Senza una ragione. Solo un castello di metafore che regala una residenza stabile ai demoni più aggressivi, più presenti, più morbosi.
Perde piano sensibilità.
Questa volta è per sempre, si dice, sorride tra sé e sé, ma è un ghigno, una smorfia contorta, un ultimo spasmo prima del niente.
È assuefatto: non dorme più. Non sogna più. Ha mal di testa. Gli cadono i capelli. Deve urlare, prende fiato: rantoli.
Qual è il punto dell’orrore?
tutte le foto di Shannon Tomasik.