ἔκϕρασις pornologiche #4

una serie di Sibilla.

Le sette e trenta.

Me ne sto seduta pigramente nell’angolo più triste e polveroso di un bar. Davanti a me un caffè fumante e anche abbastanza scadente, ma è solo la cornice della mia mattina. È solo la cornice del mio aspetto stanco. Fingere è stancante.

Chiuso nella morsa della mia minuscola gabbia toracica, il mio cuore batte piano, silenzioso. Sono sempre stata troppo magra, sì, è vero. Ma c’è della morbidezza nelle curve delle mie costole sporgenti, c’è il sole nella mia pelle dorata che le avvolge con fare materno. Della mia magrezza non m’importa, m’importa che l’altro la percepisca come io voglio che sia percepita. Così come voglio che siano accolti in un certo modo i miei capelli corti e arruffati, il mio modo di camminare così insolito.

Così costruita, l’immagine del mio corpo fragile si accoccola come un felino nell’angolo di un bar, all’erta, anche se quasi sul punto di assopirsi, avvolta in una giacca come nelle fasce di un neonato. Sono nata per osservare, e allora osservo il bar che inizia ad affollarsi, e tutto intorno a me sembra assente, e sento di essere l’unica cosa a cui si possa attribuire un vero significato, anche se so di sbagliarmi, perché conosco il dubbio.

Ma amo pensare di essere sempre al di fuori, questa sensazione mi consola, è lei la mia vera amante. Tutte le voci femminili mi sembrano così scontate e frivole, le loro parole danzano come api intorno al vuoto, queste donne, queste ragazze mancano a se stesse, non si amano abbastanza, mi dico, solo perché si concedono il lusso della leggerezza. Io non posso. La mia gabbia di ossa deve celare un cuore pesante.

O non sarò mai soddisfatta.

Nascondo il mio piccolo viso corrucciato dietro le pagine di un grande libro. Un grande libro che non sono in grado di capire, ma che forse renderà il mio cuore pesante, all’altezza delle aspettative. Forse farà in modo che io possa distaccarmi dalla massa di donne che non posso fare a meno di ritenere piccoli, perfetti involucri di vuoto.

Non voglio essere meglio di loro. Non voglio essere me stessa. Voglio essere un’idea.

Le sette e quaranta.

Bevo il mio caffè scadente, passo una mano tra i miei capelli chiari, il vento leggero del tedio mi smuove le ciglia. Mi lamento del caffè. Accendo una sigaretta. Evito il mio libro.

Un’altra giovane donna. Questa volta si siede di fronte a me. Non la tollero. Non tollero il suo trucco pesante. Non tollero le sue parole dirette, crudeli. Non tollero i suoi abiti semplici e i suoi capelli scuri. Ma tollero le sue stranezze perché alleggeriscono il peso delle vacuità di cui mi circondo.

Mi aiutano a diventare quell’idea. Entro in competizione: la mia gestualità si ampia, si fa grandiosa, la voce si alza, le parole assumono un tono assertivo. Accusatorio. Non la sovrasterò.

Le sette e cinquanta.

Mi ritrovo a meravigliarmi dell’ipocrisia della mia vita con la stessa sorpresa che proviamo davanti a quelle comunicazioni da notiziario spicciolo. Sorpresa genuina, s’intende, ma senza un reale interesse. Ho paura che nulla potrà mai interessarmi, ho paura di essere solo un corpo vuoto, di essere come loro. Ma non posso permettermelo, non posso permettermi di non pensare.

La mia piccola testa si nasconde nel calore delle mie mani infantili, mi lascio cullare dalla musica della quotidianità che mi circonda. Sono dipendente da questo posto. È tutto ciò che mi fa sentire viva. Mi opprime, mi costringe, mi fa diventare ciò che non voglio essere, ma ho bisogno di questo per sentirmi libera, se lo fossi davvero, sarei legata nella morsa della mia mediocrità. In questo posto io mi sento davvero a casa.

Tra le mura di questo squallido bar io sono la regina crudele, bella e temibile, desiderata, sprezzante. Fuori da qui sono solo un’adolescente con le ossa sporgenti e gli abiti informi, sottile ed esile come una foglia secca, non sono insignificante, ma non so dove stare.

Voglio infrangere ogni modello che credo mi sia imposto.

Ogni tanto fuggo, vago nei colori di luoghi dai nomi impensabili, ma la mia quiete si trova nella certezza del ritorno alla mia prigione, alla sicurezza delle mie ambizioni.

Si agita attorno a me un vociare confuso.

Le otto.

Mi alzo dalla sedia, esco dal bar. Non sarò mai l’idea di donna che amo, mi limiterò a guardare quell’idea da lontano, a spiarla negli occhi di altri, negli occhi della donna seduta di fronte a me, nel fondo di quel caffè amaro, nel posacenere, nello specchio. 

all pictures by Michele Battilomo.

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